Jet turco precipita in mare «Abbattuto da Damasco»
WASHINGTON - Un episodio misterioso che può cambiare il volto alla crisi in Siria. Un caccia turco è stato abbattuto dalla contraerea siriana perché - secondo una versione - ha violato lo spazio aereo del Paese arabo. Una verità emersa nel cuore della notte dopo tesi contrastanti e spiegazioni bizzarre, a conferma del timore per le conseguenze. Ankara non può restare a guardare ma neppure agire di impulso. Ecco perché il governo prima vuol chiarire i fatti e poi muoverà i «passi necessari con decisione». Questa lunga giornata inizia alle 10 del mattino quando due Phantom turchi decollano da Erhac, vicino a Malatya. I caccia sono impegnati in una missione non lontano dal territorio siriano. Zona ad alto rischio. Ed è qui che, 90 minuti più tardi, avviene qualcosa. Secondo due tv libanesi filo-iraniane il jet è stato abbattuto dalla contraerea di Damasco ed è caduto in mare davanti a Latakia. Da Ankara confermano di aver perso i contatti radar. Seguono notizie confuse sui due piloti. Sono «in vita» rilanciano i media turchi. Prigionieri, insistono quelli libanesi. Li cercano i mare anche con l' intervento di navi siriane. Le informazioni operative si intrecciano con quelle diplomatiche. Sale la tensione, cala la Lira turca. Ma è il premier Recep Tayyip Erdogan a stabilizzare il «termometro». Rientrato dal summit in Brasile, convoca una conferenza stampa e per 15 minuti parla d' altro. Poi, finalmente, affronta la questione del caccia. E quando gli chiedono se è vero che Damasco si è scusata sostiene di non essere sicuro neppure di quello. Affermazione quanto meno strana. Non sono d' aiuto neppure gli americani. Dal Pentagono dicono: «Il caccia era nel raggio del sistema siriano, però non possiamo confermare l' abbattimento. Una linea cauta che cambia dopo il vertice (e probabilmente contatti con gli alleati) al quale partecipano Erdogan, i principali ministri e i generali. Il comunicato passato ai media accusa la Siria di aver abbattuto il Phantom e apre scenari imprevedibili. La Turchia è un membro della Nato e potrebbe anche invocare l' assistenza dei partner. Damasco, muta per l' intera giornata, rompe il silenzio. E sostiene che il Phantom era ad appena un chilometro dalla costa siriana. Quindi la difesa ha reagito scoprendo solo dopo che si trattava di un caccia turco. Ma che cosa ha spinto la Siria a un gesto che può costare caro? La prima risposta è che pensavano potesse essere un jet israeliano. La seconda è che sia un monito disperato agli altri avversari. Da mesi sono segnalati voli da parte di droni americani, aerei spia U2 e velivoli turchi che sgancerebbero strani «oggetti elettronici». Missioni per tenere d' occhio l' esercito di Assad che si aggiungono all' appoggio agli insorti. In Turchia - dove ci sono 32 mila profughi - hanno rifugi e centri di coordinamento. Il regime ha voluto lanciare un messaggio? E' un' ipotesi. Se volevano potevano evitare di sparare. La distruzione del caccia è forse anche un modo per rimediare al colpo della fuga del colonnello a bordo di un Mig e ricompattare i ranghi mentre si moltiplicano sussurri su defezioni importanti. La tesi di Damasco potrebbe anche nascondere manovre all' interno del regime. Siamo nella terra degli intrighi. Una terra dove c' è spazio anche per il ruolo di Mosca. I russi hanno una stazione radar (e d' ascolto) a Kessab, base che «guarda» verso la Turchia e decine di consiglieri militari si occupano dei missili siriani. Possibile che abbiano lasciato fare? Mosca appoggia il regime ma non le avventure. Il punto è che nel conflitto - marcato ieri da altre stragi - tutti hanno qualcosa da nascondere.
Guido Olimpio
Ankara-Damasco, venti di guerra per il jet abbattuto
GERUSALEMME - L' abbattimento dell' aereo militare turco sulle acque internazionali del Mediterraneo è stato «atto ostile e risponderemo con decisione», denuncia il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu che avverte Damasco a non sfidare militarmente la Turchia. Le relazioni tra i due Paesi si complicano e adesso cominciano a spirare venti di guerra, la diplomazia affila le armi con l' Unione europea e la Nato in campo. La tensione fra Ankara e Damasco - che non si è mai sopita durante questi sedici mesi di rivolta antiAssad in Siria - sta pericolosamente montando e travalicando i confini mediorientali. Per la prima volta dal 1949 un Paese membro della Nato ha chiesto una riunione d' emergenza dell' Alleanza invocando l' articolo 4 del Trattato atlantico. La Turchia ai sensi di questo articolo si «sente minacciata nella sicurezza e nella sua integrità territoriale» - in questo caso dalla Siria - e chiede all' Alleanza atlantica di pronunciarsi. Sarà un vertice cruciale quello di domania Bruxelles, coni Paesi europei estremamente riluttanti finora a prendere una posizione chiara sulla crisi siriana che ora si intreccia con quella fra Siria e Turchia. Così come le Nazioni unite, immobilizzate dal veto di Cina e Russia - la Siria è il loro miglior cliente nell' acquisto delle armi - , che sempre domani ascolteranno il rapporto dell' inviato speciale Kofi Annan, il cui piano di pace è fallito ancor prima di essere applicato. La Siria non nega di aver abbattuto un caccia F-4 turco ma sostiene che il jet «aveva violato per pochi minuti lo spazio aereo della Siria», per questo, «per esercitare il diritto di difesa», le batterie contraeree hanno aperto il fuoco e il caccia è stato centrato da un missile Pantsyr S-1, una delle armi ad alta tecnologia di fabbricazione russa recentemente mandate da Mosca a Damasco. L' aereo colpito si è poi inabissato nel Mediterraneo meridionale, dove il relitto è stato localizzato ieri a una profondità di 1300 metri, ma dei due aviatori a bordo nessuna traccia. Secondo la versione della Turchia, l' esercito siriano avrebbe colpito l' aereo militare mentre era in volo nello spazio aereo internazionale al largo della costa. L' aereo «non aveva alcuna missione da compiere, compresa quella della raccolta di informazioni», ha spiegato ieri il ministro degli Esteri turco Ahmet Davotoglu. Secondo il capo della diplomazia di Ankara, dall' aereo non era arrivato «alcun segnale di ostilità verso la Siria».È stata quasi un' esecuzione a freddo, accusa, perché l' F-4 «è stato abbattuto 15 minuti dopo avere violato momentaneamente lo spazio aereo siriano» e si trovava già a 13 miglia nautiche dalla Siria nello spazio aereo internazionale. Ieri con una telefonata al ministro degli Esteri turco, il segretario generale dell' Onu Ban Kimoon ha espresso profonda preoccupazione e si è detto allarmato per le potenziali gravi implicazioni dell' episodio nella regione, mentre l' Iran ha rivolto un appello alla moderazione sia alla Turchia che alla Siria. L' abbattimento del jet turco è «una vicenda scandalosa» per la Gran Bretagna, mentre l' Italia, con il ministro degli Esteri Terzi, parla «dell' ennesima azione inaccettabile del regime di Assad». Lo scontro, per ora politico con la Turchia, non ha distratto però l' esercito siriano dalla repressione della rivolta. Ieri ha continuato a bombardare le città di Homs, Aleppo, Deraa, sia con l' artiglieria che con gli elicotteri da combattimento che la Russia di Putin - che domani comincia con la tappa in Israele un tour in Medio Oriente - continua a fornire a Assad in barba alle pressioni di Obama
Fabio Scuto
Alta tensione Turchia-Siria Erdogan si appella alla Nato
Adesso fa mulinare scintille di guerra vera, l' abbattimento di un aereo militare turco da parte della contraerea di Damasco. La Turchia annuncia una risposta «forte e decisa», il ministro degli esteri britannico William Hague ammonisce che «il regime siriano sarà chiamato a rispondere del suo comportamento», il segretario di Stato americano Hillary Clinton parla di gesto «sfrontato e inaccettabile». Ma entrano anche in scena la Nato e l' Unione Europea: una riunione straordinaria del Consiglio nord-atlantico, l' organismo politico-decisionale che raccoglie i rappresentanti permanenti dei 28 Paesi Nato, è convocata per domani a Bruxelles, su richiesta di Ankara. Mentre oggi, in Lussemburgo, discuteranno del problema i ministri degli Esteri europei, già pronti a imporre nuove sanzioni contro Damasco. E ancora a Bruxelles si svolge in queste ore una riunione - finanziata in parte da fondi della Ue - fra gli oppositori del regime siriano. Per Bashar al-Assad, il leader accusato dei massacri nel suo Paese, sono altrettanti segnali di una pazienza internazionale giunta al lumicino. Intanto, Damasco annuncia l' uccisione di 5 «terroristi» che avrebbero violato il suo confine provenienti dalla Turchia: la tensione cresce ancora. Quello stesso confine, da mesi, è varcato da migliaia di siriani in fuga dal loro regime, bersagli quotidiani delle artiglierie di Assad. Il caccia F-4 Phantom abbattuto aveva due piloti a bordo, né i rottami né i corpi sarebbero stati ancora ritrovati: e il governo turco non è certo disposto a classificare l' evento come un incidente. Infatti porterà il caso al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Ed essendo uno dei membri più importanti della Nato, la Turchia ha invocato l' articolo 4 del Trattato fondativo dell' Alleanza, proprio per far convocare il vertice di Bruxelles: «In base a questo articolo ogni alleato può richiedere delle consultazioni - spiega la portavoce della Nato, Oana Lunghescu - ogni qual volta ritenga minacciate la sua integrità territoriale, l' indipendenza politica, o la sicurezza». Nella preparazione della riunione, anche l' Italia ha avuto un «ruolo attivo»: ieri il suo ministro degli Esteri Giulio Terzi ha espresso «forte indignazione» per l' abbattimento del jet, bollato come «un' ulteriore gravissima e inaccettabile azione» del regime di Assad. Resta da capire che cosa possa decidere in concreto la Nato, se la Siria possa divenire un' altra Libia. O se una guerra fra Ankara e Damasco possa essere il pretesto che tanti aspettano per liberarsi da Assad. Ma la situazione è molto diversa da quella libica, ricordano fonti dell' Alleanza, perché Mosca si oppone a un intervento militare contro Damasco. La Turchia verrà tuttavia ascoltata a Bruxelles «con la giusta attenzione». Però da Murmansk, nel grande Nord della Russia, sta per salpare alla volta della Siria una nave carica di elicotteri e armi: la stessa nave che forze inglesi avevano intercettato e rispedito indietro pochi giorni fa, perché violava le sanzioni Ue contro Damasco. Tutta la vicenda è resa ancor più intricata dalle versioni contrastanti sull' abbattimento del jet. Secondo Ankara, la sua missione era semplicemente quella di mettere alla prova i radar turchi, le insegne della aviazione militare turca erano ben visibili sulla fusoliera dell' apparecchio, e l' ingresso nello spazio aereo siriano - se pure c' è stato - è stato solo un errore: ma l' abbattimento sarebbe avvenuto senza preavviso, e mentre l' aereo volava su acque internazionali. Secondo Damasco, il jet era invece nello spazio siriano e si stava dirigendo a bassa quota verso la costa siriana. La Siria avrebbe presentato delle scuse ad Ankara, evidentemente giudicate insufficienti. loffeddu@corriere.it RIPRODUZIONE RISERVATA **** Alleanza Trattato Il Trattato costitutivo della Nato è stato firmato il 4 aprile 1949 Articolo 4 Stabilisce: «Le Parti si consulteranno quando, secondo il giudizio di una di esse, ritengano che l' integrità territoriale, l' indipendenza politica o la sicurezza di una di esse siano minacciate» Articolo 5 Stabilisce: «(...) un attacco armato contro una o più di esse (...), costituirà un attacco verso tutte (...)»
Offeddu Luigi
Questo Blog si propone di dare risposta agli interrogativi e alle polemiche che più frequentemente hanno per oggetto la religione islamica e il Corano. Tale attività è particolarmente necessaria in Italia, data la totale disinformazione che gli italiani hanno sulla religione di un miliardo seicento milioni di musulmani in tutto il mondo.
martedì 26 giugno 2012
EGITTO
L’ex clandestino nella stanza di Mubarak per Morsi primo giorno da presidente
IL CAIRO — È come se entrasse in punta di piedi, quasi trattenendo il fiato, nella stanza di colui che fu il suo persecutore e da domani sarà il suo ufficio. Non è la prima vendetta della storia, quella che spalanca a Mohammed Morsi, il neoeletto presidente egiziano, i cancelli della reggia di Heliopolis, dove per 30 anni ha regnato, indiscusso sovrano, Hosni Mubarak. E tuttavia la scena racconta di una svolta appena qualche mese fa impensabile, legata all’ascesa di un islamista militante, un Fratello Musulmano, con alle spalle una storia di clandestinità, di emarginazione e di arresti subiti, al seggio più alto del potere egiziano.
«Morsi porta la rivoluzione nel Palazzo», titolano le televisioni e le agenzie di stampa. Ma a vedere quell’uomo di mezz’età, la figura arrotondata avvolta nell’abito scuro, scivolare impacciato sui pavimenti di marmo lucidati a specchio e poi avvicinarsi alla scrivania presidenziale di legno scuro con i bordi dorati, accennando a mettere una mano in tasca come a cercare una chiave, qualcosa che dia un senso a quel gesto, non sembrerebbe che in questo momento si stia compiendo l’assalto al Palazzo d’Inverno da parte dei Fratelli Musulmani. Piuttosto, si direbbe l’immagine di un burocrate capitato lì per rinnovare l’inventario.
In realtà, c’è grande attesa intorno a Mohammed Morsi. Il quale nel secondo fotogramma destinato agli archivi, sotto la voce: la prima giornata del nuovo leader egiziano, ci viene mostrato a colloquio con il maresciallo Mohammed Hussein Tantawi, il capo del Consiglio Supremo delle Forze Armate, la giunta militare che governa di fatto e di diritto la transizione, e con il premier dimissionario, Kamal al Ganzuri a suo tempo nominato dalla stessa giunta alla testa di un governofantoccio. Qui si respira un’atmosfera marziale, ma per nulla operosa. Morsi sembra ingessato nel suo ruolo. Ganzuri ha lo sguardo perso nel vuoto di chi non vede l’ora che finisca. Nessuno saprà mai cosa si cela dietro al sorriso enigmatico di Tantawi. Ma forse si può immaginare. Lo scontro tra i due poteri forti della società egiziana, gli islamisti da un lato e l’esercito dall’altro, non è finito. Piuttosto comincia una nuova fase, ancora più complicata. La capacità di mobilitare masse dei Fratelli Musulmani (o partito Libertà e Giustizia, che dir si voglia) contro il monopolio dell’uso della forza. La posta in gioco è il futuro assetto costituzionale dello Stato. Morsi ha aperto al dialogo con tutte le componenti della società: laici, liberali, donne, minoranze. Ha promesso che a guidare il nuovo governo, di unità nazionale, non sarà un islamista. Gira da tempo, tra le diverse personalità consultate, il nome del premio Nobel, Mohammed el Baradei, il quale, però, sembra tentennare.
Come può un laico rispettoso dei valori democratici accettare di presiedere un governo che non poggia su una maggioranza, non può ricevere la fiducia, né rispondere del suo operato al parlamento dal momento che il parlamento è stato sciolto da una sentenza dell’Alta Corte Costituzionale, incoraggiata dagli stessi militari? Nella furia preventiva di svuotare la carica presidenziale dei sui poteri più rilevanti, i generali hanno fatto terra bruciata intorno a Morsi. Non soltanto, si sono assunti l’incarico di legiferare al posto del Parlamento, ma hanno imposto, può sembrare un dettaglio ma non lo è, che il neoeletto presidente giuri davanti alla Corte Costituzionale e non davanti al Parlamento. Ebbene, Morsi, si è saputo ieri sera, ha accettato di giurare davanti a quegli stessi giudici che hanno passato un colpo di spugna sulla prima assemblea parlamentare liberamente eletta nella storia dell’Egitto. E giurerà, anche se la folla militante continua a presidiare Piazza Tahir chiedendo la reintegrazione del parlamento. Realpolitik, ovvero, opportunismo. Un giuramento con cui Morsi, di fatto, avallerà tutti i decreti, gli emendamenti, le misure e i sotterfugi messi in atto dai militari per continuare a controllare la transizione e a mantenere i loro considerevoli privilegi.
Forse perché è una delle poche prerogative rimastegli, sembrerebbe che Mohammed Morsi in questa sua prima giornata di lavoro abbia voluto rimarcare la sua autonomia in politica estera. Con un’intervista all’agenzia iraniana Fars, destinata a suscitare l’allarme degli Stati Uniti e d’Israele, il presidente egiziano s’è impegnato ad estendere i rapporti con l’Iran per creare un “equilibrio di pressione nella regione”. A domanda, Morsi ha risposto, inoltre, che il trattato di Camp David (1978) cui si devono 35 anni di pace tra Egitto e Israele, “sarà rivisto”. Poi il suo ufficiostampa ha precisato: «... Ma soltanto dopo un referendum».
Alberto Stabile
Egitto, il giallo dell’apertura all’Iran
Poteva essere la prima, devastante «bomba» lanciata dal neopresidente egiziano, il Fratello Musulmano Mohammed Morsi. Per l’ingegnere islamico, già al lavoro nell’ufficio che fu di Mubarak e in attesa di giurare da raìs, «il trattato di pace con Israele va rivisto, le relazioni con l’Iran riattivate e rafforzate ». Parole bomba, appunto, diramate ieri mattina dall’agenzia iraniana Fars all’interno di «un’intervista rilasciata da Morsi prima dell’annuncio della vittoria ». Frasi che hanno fatto il giro del mondo e suscitato allarme in Israele e non solo, confermando i timori dei nemici della Fratellanza e sollevando in altri molti dubbi e il sospetto che fossero un «siluro» contro il nuovo raìs. «Tali affermazioni sarebbero assurde ora e in contrasto con la linea di Morsi, che nel suo primo discorso da vincitore ha anzi ribadito il rispetto dei trattati internazionali», ha commentato subito Ayman Hamed, caporedattore del quotidiano egiziano Tahrir. «Le frasi su Camp David non hanno senso, e anche l’uscita sull’asse strategico con Teheran è imprudente, e Morsi è uomo cauto e preparato », aggiunge una fonte diplomatica, pur osservando che la ripresa delle relazioni con l’Iran, dopo 30 anni di gelo, è nell’aria da mesi in Egitto anche tra imilitari. Per un altro diplomatico «la priorità del Cairo sono i rapporti con Ankara e Riad, è piuttosto Teheran a volere l’alleanza con l’Egitto contro Israele». Insomma, c’era molto di strano in quella «notizia». E infatti poi è arrivata la smentita ufficiale della Fratellanza e dell’ufficio della presidenza del Cairo («L’intervista non èmai esistita »), seguita a sorpresa da quella di un’altra agenzia iraniana, la Irna. Prova che in questo ennesimo caso di disinformazija all’egiziana (si pensi alla «morte» di Mubarak), si è inserito pure il contrasto ai vertici della Repubblica Islamica iraniana: la Irna è vicina al presidente Ahmadinejad, la Fars alla Guida Suprema Khamenei. In Israele le paure sulle mosse future di Morsi restano comunque alte. E grande attenzione riserva il mondo intero all’Egitto a «guida» islamica, nonostante i poteri del nuovo raìs siano ancora indefiniti e la Giunta militare destinata a mantenere un forte controllo sul Paese. Perfino ilministro degli Esteri, girava voce ieri al Cairo, potrebbe venir nominato dai generali, come quelli della Difesa e degli Interni. Le trattative per l’esecutivo che sostituirà quello di Ghanzouri dimessosi ieri sono in corso con mille ipotesi su chi ne farà parte, quasi certamente in rappresentanza anche del mondo laico. E se le priorità di Morsi (e dei generali) sono la sicurezza interna, la ripresa dell’economia e la conciliazione in un Paese diviso, è indubbio che il ruolo che il più importante Paese arabo avrà sullo scacchiere internazionale è cruciale. Ancora ieri i leader occidentali si sono felicitati con Morsi, tra loro il premier italiano MarioMonti. Tutti hanno espresso l’augurio che il Paese continui sulla via della democrazia e della pace, velata espressione del timore che così non sarà. Perché non è solo Israele in allarme. Per restare nella regione, lo sono le monarchie del Golfo, che rimpiangono un Egitto «debole », come in fondo fu con Mubarak. La paura è che imovimenti islamici locali, anti-regimi, ora si rafforzino.
IL CAIRO — È come se entrasse in punta di piedi, quasi trattenendo il fiato, nella stanza di colui che fu il suo persecutore e da domani sarà il suo ufficio. Non è la prima vendetta della storia, quella che spalanca a Mohammed Morsi, il neoeletto presidente egiziano, i cancelli della reggia di Heliopolis, dove per 30 anni ha regnato, indiscusso sovrano, Hosni Mubarak. E tuttavia la scena racconta di una svolta appena qualche mese fa impensabile, legata all’ascesa di un islamista militante, un Fratello Musulmano, con alle spalle una storia di clandestinità, di emarginazione e di arresti subiti, al seggio più alto del potere egiziano.
«Morsi porta la rivoluzione nel Palazzo», titolano le televisioni e le agenzie di stampa. Ma a vedere quell’uomo di mezz’età, la figura arrotondata avvolta nell’abito scuro, scivolare impacciato sui pavimenti di marmo lucidati a specchio e poi avvicinarsi alla scrivania presidenziale di legno scuro con i bordi dorati, accennando a mettere una mano in tasca come a cercare una chiave, qualcosa che dia un senso a quel gesto, non sembrerebbe che in questo momento si stia compiendo l’assalto al Palazzo d’Inverno da parte dei Fratelli Musulmani. Piuttosto, si direbbe l’immagine di un burocrate capitato lì per rinnovare l’inventario.
In realtà, c’è grande attesa intorno a Mohammed Morsi. Il quale nel secondo fotogramma destinato agli archivi, sotto la voce: la prima giornata del nuovo leader egiziano, ci viene mostrato a colloquio con il maresciallo Mohammed Hussein Tantawi, il capo del Consiglio Supremo delle Forze Armate, la giunta militare che governa di fatto e di diritto la transizione, e con il premier dimissionario, Kamal al Ganzuri a suo tempo nominato dalla stessa giunta alla testa di un governofantoccio. Qui si respira un’atmosfera marziale, ma per nulla operosa. Morsi sembra ingessato nel suo ruolo. Ganzuri ha lo sguardo perso nel vuoto di chi non vede l’ora che finisca. Nessuno saprà mai cosa si cela dietro al sorriso enigmatico di Tantawi. Ma forse si può immaginare. Lo scontro tra i due poteri forti della società egiziana, gli islamisti da un lato e l’esercito dall’altro, non è finito. Piuttosto comincia una nuova fase, ancora più complicata. La capacità di mobilitare masse dei Fratelli Musulmani (o partito Libertà e Giustizia, che dir si voglia) contro il monopolio dell’uso della forza. La posta in gioco è il futuro assetto costituzionale dello Stato. Morsi ha aperto al dialogo con tutte le componenti della società: laici, liberali, donne, minoranze. Ha promesso che a guidare il nuovo governo, di unità nazionale, non sarà un islamista. Gira da tempo, tra le diverse personalità consultate, il nome del premio Nobel, Mohammed el Baradei, il quale, però, sembra tentennare.
Come può un laico rispettoso dei valori democratici accettare di presiedere un governo che non poggia su una maggioranza, non può ricevere la fiducia, né rispondere del suo operato al parlamento dal momento che il parlamento è stato sciolto da una sentenza dell’Alta Corte Costituzionale, incoraggiata dagli stessi militari? Nella furia preventiva di svuotare la carica presidenziale dei sui poteri più rilevanti, i generali hanno fatto terra bruciata intorno a Morsi. Non soltanto, si sono assunti l’incarico di legiferare al posto del Parlamento, ma hanno imposto, può sembrare un dettaglio ma non lo è, che il neoeletto presidente giuri davanti alla Corte Costituzionale e non davanti al Parlamento. Ebbene, Morsi, si è saputo ieri sera, ha accettato di giurare davanti a quegli stessi giudici che hanno passato un colpo di spugna sulla prima assemblea parlamentare liberamente eletta nella storia dell’Egitto. E giurerà, anche se la folla militante continua a presidiare Piazza Tahir chiedendo la reintegrazione del parlamento. Realpolitik, ovvero, opportunismo. Un giuramento con cui Morsi, di fatto, avallerà tutti i decreti, gli emendamenti, le misure e i sotterfugi messi in atto dai militari per continuare a controllare la transizione e a mantenere i loro considerevoli privilegi.
Forse perché è una delle poche prerogative rimastegli, sembrerebbe che Mohammed Morsi in questa sua prima giornata di lavoro abbia voluto rimarcare la sua autonomia in politica estera. Con un’intervista all’agenzia iraniana Fars, destinata a suscitare l’allarme degli Stati Uniti e d’Israele, il presidente egiziano s’è impegnato ad estendere i rapporti con l’Iran per creare un “equilibrio di pressione nella regione”. A domanda, Morsi ha risposto, inoltre, che il trattato di Camp David (1978) cui si devono 35 anni di pace tra Egitto e Israele, “sarà rivisto”. Poi il suo ufficiostampa ha precisato: «... Ma soltanto dopo un referendum».
Alberto Stabile
Egitto, il giallo dell’apertura all’Iran
Poteva essere la prima, devastante «bomba» lanciata dal neopresidente egiziano, il Fratello Musulmano Mohammed Morsi. Per l’ingegnere islamico, già al lavoro nell’ufficio che fu di Mubarak e in attesa di giurare da raìs, «il trattato di pace con Israele va rivisto, le relazioni con l’Iran riattivate e rafforzate ». Parole bomba, appunto, diramate ieri mattina dall’agenzia iraniana Fars all’interno di «un’intervista rilasciata da Morsi prima dell’annuncio della vittoria ». Frasi che hanno fatto il giro del mondo e suscitato allarme in Israele e non solo, confermando i timori dei nemici della Fratellanza e sollevando in altri molti dubbi e il sospetto che fossero un «siluro» contro il nuovo raìs. «Tali affermazioni sarebbero assurde ora e in contrasto con la linea di Morsi, che nel suo primo discorso da vincitore ha anzi ribadito il rispetto dei trattati internazionali», ha commentato subito Ayman Hamed, caporedattore del quotidiano egiziano Tahrir. «Le frasi su Camp David non hanno senso, e anche l’uscita sull’asse strategico con Teheran è imprudente, e Morsi è uomo cauto e preparato », aggiunge una fonte diplomatica, pur osservando che la ripresa delle relazioni con l’Iran, dopo 30 anni di gelo, è nell’aria da mesi in Egitto anche tra imilitari. Per un altro diplomatico «la priorità del Cairo sono i rapporti con Ankara e Riad, è piuttosto Teheran a volere l’alleanza con l’Egitto contro Israele». Insomma, c’era molto di strano in quella «notizia». E infatti poi è arrivata la smentita ufficiale della Fratellanza e dell’ufficio della presidenza del Cairo («L’intervista non èmai esistita »), seguita a sorpresa da quella di un’altra agenzia iraniana, la Irna. Prova che in questo ennesimo caso di disinformazija all’egiziana (si pensi alla «morte» di Mubarak), si è inserito pure il contrasto ai vertici della Repubblica Islamica iraniana: la Irna è vicina al presidente Ahmadinejad, la Fars alla Guida Suprema Khamenei. In Israele le paure sulle mosse future di Morsi restano comunque alte. E grande attenzione riserva il mondo intero all’Egitto a «guida» islamica, nonostante i poteri del nuovo raìs siano ancora indefiniti e la Giunta militare destinata a mantenere un forte controllo sul Paese. Perfino ilministro degli Esteri, girava voce ieri al Cairo, potrebbe venir nominato dai generali, come quelli della Difesa e degli Interni. Le trattative per l’esecutivo che sostituirà quello di Ghanzouri dimessosi ieri sono in corso con mille ipotesi su chi ne farà parte, quasi certamente in rappresentanza anche del mondo laico. E se le priorità di Morsi (e dei generali) sono la sicurezza interna, la ripresa dell’economia e la conciliazione in un Paese diviso, è indubbio che il ruolo che il più importante Paese arabo avrà sullo scacchiere internazionale è cruciale. Ancora ieri i leader occidentali si sono felicitati con Morsi, tra loro il premier italiano MarioMonti. Tutti hanno espresso l’augurio che il Paese continui sulla via della democrazia e della pace, velata espressione del timore che così non sarà. Perché non è solo Israele in allarme. Per restare nella regione, lo sono le monarchie del Golfo, che rimpiangono un Egitto «debole », come in fondo fu con Mubarak. La paura è che imovimenti islamici locali, anti-regimi, ora si rafforzino.
lunedì 25 giugno 2012
VITTORIA DELL'ISLAM NELLE ELEZIONI PRESIDENZIALI EGIZIANE
Per sapere qualcosa di più dettagliato sulla figura di Muhammad Morsi, vincitore delle elezioni presidenziali in Egitto come candidato dei Fratelli Musulmani ho dovuto sincronizzarmi sui programmi televisivi di Al Jazeera perché sui mezzi di informazione italiani, nessuno escluso, non si è mai andati oltre le solite generiche mezze bugie, non esenti da afaziosità e da anti islamismo più o meno velato: "I Fratelli Musulmani sono il pericolo numero uno per il Medio Oriente e per la pace nel Mediterraneo", "Morsi è un candidato di ripiego perché i militari non potevano accettare che i loro nemici di sempre si presentassero con una figura di primo piano", "Nonostante ciò Morsi resta pur sempre un pericoloso estremista che sogna di imporre al popolo egiziano la Shari'a" e, magari, "Di rilanciare il barbarico costume delle mutilazioni genitali femminile, tanto care agli islamisti". Va da se che il primo vero punto del programma dei Fratelli Musulmani egiziani e di Morsi in particolare è la ripresa della guerra con Israele, l'applicazione integrale della legge islamica e ovviamente una sostanziale tirannia religiosa sulla falsa riga del regime di repubblica islamica degli Ayatollah iraniani: il tutto come inevitabile conseguenza contrabbandata come "Primavera Araba", che ha rovesciato i regimi diretti da personaggi sostanzialmente tirannici ma garanti degli interessi dell'occidente e del "mondo libero".
Seguendo i programmi di Al Jazeera abbiamo così saputo che Morsi, dopo aver trascorso qualche anno di galera per la sua appartenenza ai Fratelli Musulmani, ad opera da una condanna combinatagli da uno degli illuminati giudici pro-Mubarak, e dopo aver conseguito una laurea in ingegneria all'università del Cairo, è emigrato negli Stati Uniti d'America in cerca di lavoro come molti giovani laureati egiziani, ed ha svolto una qualificata attività lavorativa come tecnico della NASA lavorando al progetto Shuttle: i tre figli, nati in America, hanno la cittadinanza americana. Che un personaggio di questo tipo potesse essere credibile come una sorta di fanatico islamista diviso tra vocazione terroristiche e fanatismi misticheggianti è qualcosa che richiede un livello di credulità che soltanto qualche fanatico elettore di Berlusconi (di quelli che gridano: "Per fortuna che c'è Silvio!") è circostanza estremamente improbabile. E a commentare la lunga attesa della pronuncia della suprema corte egiziana, su chi fosse il vincitore delle elezioni e primo presidente democraticamente eletto del popolo egiziano, Mediaset ci ha propinato una deputata di Forza Italia, Tal Suad di origine marocchina, appartenente di diritto ad uno di quei personaggi rinnegati che stanno in buona compagnia col convertito in mondo visione Magdi Allam, battezzato personalmente da Papa Benedetto XVI e affetto da un'islamofobia talmente acuta che il Corriere della Sera, che pure è stato editore di una assatanata mangia musulmani come Oriana Fallaci, lo ha cacciato da vice direttore; e ora Cristiano Magdi Allam collabora nel giornale di Sallusti.
La faziosità stupida e priva di ogni conoscenza dei fatti reali è stata l'unica ombra di uno spettacolo entusiasmante andato in onda quando l'immensa folla di milioni di persone, alla notizia della vittoria dei Fratelli Musulmani e di Muhammad Morsi, raccolta da almeno due giorni in piazza Tahrir al Cairo è esplosa in una gioia incontenibile. Da musulmano ho provato un'emozione così intensa che nonostante le mie precarie condizioni di salute sono riuscito a compiere la genuflessione rituale per ringraziare Allah di avermi fatto assistere a un evento come il trionfo della democrazia in un paese e in un popolo che secondo i nostrani puristi della libertà vengono considerati refrattari alla democrazia e alla libertà. Il momento più alto è stato quando tre giovani si sono arrampicati su una specie di pennone improvvisato e hanno fatto discendere una lunga sciarpa di bandiere: non solo quella egiziana, ma quella dei popoli martiri palestinese e siriano; e ancora le bandiere di Algeria e di Tunisia, di Libia e di Turchia: una visualizzazione sintetica e commovente di quello che è il vero Islam, tanto bene rappresentato dalle parole che la sera prima Monsignor Dall'Oglio, recentemente espulso dalla Siria da Assad per i sinceri sforzi che stava profondendo per la pace, ha pronunciato da una rete televisiva non italiana rispondendo a una domanda un pò tendenziosa di un giornalista, sul perché facesse tanti sforzi a favore di popolazioni musulmane. Il prete, ben convinto che la religione cristiana e la religione islamica sono strettamente legate dalla profonda fede nell'unico Dio, ha risposto: "Io credo profondamente nelle parole di Gesù e nello stesso tempo amo profondamente l'Islam: sono consapevole infatti che i miliardi di fedeli musulmani rappresentano un immenso patrimonio di spiritualità contro la miseria di un mondo nel quale tutto è ridotto a merce e a mercato".
Allahu Akbar, Dio è il più Grande. Ma cosa possono capirne di questa verità, elementare come il fatto di esistere, popoli che pensano soltanto ad accumulare ricchezze con una ferocia che non prova compassione neppure per povera gente fatta morire affogata nello stretto di Messina o morta soffocata in una bus mentre cercava di fuggire dall'inferno dell'Afghanistan.
Mi viene sempre in mente quando venivano respinti i profughi dalla Libia, sconvolta da pochi giorni di guerra civile, che fecero gridare come un gallinaccio l'allora ministro degli interni Maroni per qualche migliaio di persone sbarcate a Lampedusa. Il responsabile di uno dei campi profughi predisposti dal popolo tunisino negli stessi giorni e trovatosi a fronteggiare l'esodo di oltre 100 mila persone commentò: "Cos'ha da gridare tanto il signor Maroni? Noi siamo un piccolo paese che è appena uscito da un duro scontro politico; abbiamo disoccupati e gente affamata e tuttavia ospitiamo senza tanto strillare quasi 100 mila profughi e gli forniamo cibo e acqua. Forse perché noi abbiamo la pietà musulmana mentre il signor Maroni e quelli come lui hanno dimenticato la pietà di Gesù".
Fatta questa premessa pubblichiamo alcuni degli articoli comparsi sui principali giornali italiani per commentare la vittoria dei Fratelli Musulmani nelle elezioni presidenziali egiziane.
IL PRESIDENTE DIMEZZATO
Un fratello musulmano eletto presidente della Repubblica egiziana è, perlomeno in apparenza, un avvenimento eccezionale. Al Cairo, in queste ore, la notizia esalta e sconcerta. Intimorisce i laici. Entusiasma i ferventi musulmani, per i quali ha un valore storico. Tiene in allerta i militari, registi della situazione. I fondatori della confraternita, nel passato segreta e non estranea al terrorismo, venivano mandati da monarchi e presidenti al patibolo o a marcire in prigione. Mohammed Morsi, il neo eletto, appartiene alla generazione dei dirigenti che fanno politica alla luce del sole, nella legalità, e che si presentano in giacca e cravatta, con la quasi immancabile barba, e con lauree soprattutto scientifiche e tecniche, cioè non contaminate dalla cultura umanistica occidentale, e con il progetto di una nebulosa “democrazia islamica”, adatta all’epoca di Facebook. Lui, Morsi, ha sessant’anni e si è laureato in ingegneria all’University of Southern California. La confraternita di cui è l’esponente è stata fondata ottantaquattro anni fa e ha messo le radici in tutto il paese, tra ricchi e poveri. Si occupa, non da oggi, di ospedali, di assistenza sociale, dell’insegnamento del Corano, e ha come espressione politica il Partito della libertà e della giustizia. Il quale si ispira adesso all’islamismo moderno del turco Erdogan. La sua elezione avvicina più che mai i Fratelli un tempo fuorilegge alla realizzazione, appunto, della sognata e confusa “democrazia islamica”, nella più grande nazione araba, quale è l’Egitto.
Ma avere un presidente non significa disporre del potere. L’avvento di Mohammed Morsi alla massima carica dello Stato appare in queste ore piuttosto simbolico. La “primavera araba” nella versione cairota sopravvive sotto il controllo della società militare. Agonizza. Perché i generali del Supremo Consiglio delle Forze Armate sono tutt’altro che disposti a cedere le leve di comando di cui dispongono in tutte le principali attività. Dalla difesa, con annesse fabbriche d’armi, all’economia, con industrie di elettrodomestici, alberghi, ospedali, fattorie. Dall’amministrazione della giustizia, grazie alla legge d’emergenza, ai servizi di polizia, poiché l’esercito ha il diritto di arrestare i civili. Dalla facoltà di promulgare le leggi, poiché, sciolto il Parlamento appena eletto, il Supremo consiglio delle Forze Armate si è arrogato il potere legislativo, al diritto di decidere quel che è costituzionale o non lo è, poiché non esiste la nuova promessa Costituzione. E quindi non si sa quali saranno le prerogative del nuovo presidente della Repubblica. L’impressione è che i militari abbiano prima imprigionato e condannato all’ergastolo Hosni Mubarak, che era il loro capo, per placare la rivoluzione di piazza Tahrir, e che adesso abbiano consentito la nomina di Mohammed Morsi per placare i Fratelli musulmani che hanno visto sciogliere il Parlamento in cui avevano appena conquistato la maggioranza.
L’interpretazione più edulcorata di questa abile, per certi versi sfacciata sceneggiata, sostiene che si è trattato di un compromesso, raggiunto con negoziati più o meno diretti. Da un lato i generali che hanno le armi, dall’altro i Fratelli musulmani che hanno e forse continueranno a disporre della piazza. Stando ai calcoli politici del momento, le due forze a confronto si equivalgono e quindi hanno stipulato un contratto, inevitabilmente provvisorio. I generali non potevano reprimere con i carri armati un movimento di massa, e il movimento di massa non aveva e non ha i mezzi per relegare i militari nelle caserme. Un’intesa effimera, dettata dall’emergenza, era dunque inevitabile. La conclusione è che i primi, i militari, conservano il potere reale, e che i secondi, i Fratelli musulmani, hanno ottenuto un presidente dimezzato, ma carico di simboli tutt’altro che trascurabili. Questo è il significato della proclamazione del primo capo dello Stato egiziano, dopo la destituzione di Hosni Mubarak, travolto dalla “primavera egiziana” nel febbraio 2011. Piazza Tahrir ha esultato quando si è saputo, dopo una lunga attesa, che Mohammed Morsi, avendo ottenuto più di tredici milioni di voti aveva sconfitto Ahmed Shafiq, il candidato dei militari, che ne aveva ottenuto soltanto più di dodici milioni. Quella piazza nel cuore del Cairo è come un altare su cui si celebrano i riti di una rivoluzione che a tratti sembra ancora viva ma che ha comunque perduto l’identità iniziale.
Ieri sera festeggiava Mohammed Morsi appena eletto presidente della Repubblica, ma di una repubblica diversa da quella chiesta dai primi gruppi laici, di sinistra, insorti un anno e mezzo fa. I fratelli musulmani hanno occupato piazza Tahrir da tempo, appropriandosi della “primavera”, dalla quale erano stati sorpresi. Il terreno era sgombro perché gli insorti laici della prima ora non erano stati capaci di organizzarsi, di darsi una leadership, di stringere alleanze tra le varie correnti. Lo smarrimento è stato tale tra di loro che alcuni esponenti di rilievo, come il giornalista Hamdeen Sabbahi, arrivato terzo alle elezioni presidenziali, ha approvato lo scioglimento del Parlamento decretato dalla Corte costituzionale, agli ordini dei militari. I promotori della “primavera” si erano del resto opposti alle elezioni politiche, volute dai militari, perché temevano quel che è poi avvenuto, ossia il successo delle formazioni religiose, quella moderata dei Fratelli musulmani e quella integralista dei salafiti. Organizzando le elezioni, i militari hanno ammansito i Fratelli musulmani che sapevano di poterle vincere, ma poi hanno sciolto il Parlamento appena eletto e per attenuare la loro collera hanno concesso ai Fratelli musulmani un presidente dimezzato, quale è Mohammed Morsi. Nel braccio di ferro con i generali i Fratelli musulmani hanno esibito un “fronte nazionale” in cui apparivano alcuni esponenti dei movimenti laici, attirati dalla promessa di una loro partecipazione al futuro governo. Alla testa del quale il presidente avrebbe addirittura messo un primo ministro non appartenente a un partito religioso. In realtà molti attivisti laici sono apparsi alla televisione per sostenere i generali che avevano appena decretato lo scioglimento del Parlamento. Essi hanno accusato i Fratelli musulmani di avere “rapito” la rivoluzione e di voler soffocare gli ideali progressisti di piazza Tahrir, imponendo la sharia, la legge religiosa.
Da questo discorso i militari sono usciti come i difensori della laicità. Sono stati registi molto abili. Non sarà tuttavia facile per loro tenere a bada le masse musulmane eccitate dalla vittoria del loro candidato e domani deluse nel vederlo privo di reali poteri. La Confraternita dei Fratelli musulmani e l’Esercito sono in Egitto due istituzioni con radici profonde, al Cairo come nelle campagne lungo il Nilo. E nella lontana Nubia. La prima, la Confraternita, è malleabile. È abituata a piegarsi («come canna al vento») di fronte a una forza superiore. La società militare emersa nel 1952 con la rivoluzione repubblicana degli «ufficiali liberi » ha saputo a sua volta adeguarsi a diverse realtà: al socialismo arabo di Nasser, al liberismo di Sadat, alla pace con Israele con il quale aveva combattuto quattro guerre, alla dinamica e corrotta economia di mercato di Mubarak. Per la prima volta, ieri, ha accettato l’elezione di un presidente non uscito dai ranghi delle Forze Armate. Ha dovuto inghiottire l’umiliazione, ma non ha ceduto, in apparenza, alcun potere. Il nuovo presidente non potrà neppure controllare il bilancio dell’esercito. Il quale non è trascurabile, poiché la società militare controlla un terzo dell’economia e riceve dagli Stati Uniti, da decenni, quasi un miliardo e mezzo di dollari l’anno. I generali dovranno adesso abituarsi a convivere con i Fratelli musulmani che un tempo impiccavano o rinchiudevano in prigione o nei campi di concentramento. Non sarà facile.
Intanto il nuovo presidente chiederà nuove elezioni per il Parlamento appena sciolto ed anche la formazione di un’Assemblea costituente. Si riaccenderà cosi un clima elettorale, non favorevole alla convivenza. E in piazza Tahrir ritorneranno i movimenti rivoluzionari della prima ora. Insomma la “primavera” è agonizzante, ma non del tutto spenta. Non mancheranno altri problemi. L’elezione (sia pure simbolica) di un fratello musulmano alla massima carica dello Stato può ringagliardire i gruppi islamici, alcuni dei quali jiadisti, installatisi negli ultimi mesi nel Sinai, a ridosso di Israele. E le Forze armate, garanti degli accordi di Camp David, che portarono alla pace tra il Cairo e Gerusalemme, faticano già a disciplinare l’attività di quei gruppi.
Bernardo Valli
EGITTO, STORICA VITTORIA DEI MUSULMANI: MORSI PRESIDENTE
Roma - Svolta storica in Egitto. Il candidato dei Fratelli Musulmani, Mohammed Morsi, ha vinto le elezioni col 51,8 per cento dei voti. Il suo avversario, Ahmad Shafiq, ha ottenuto il 48,2 per cento dei voti. Morsi è il primo presidente democraticamente eletto nella storia d’Egitto ed ha annunciato che rispetterà i trattati internazionali e che intende applicare alcuni principi della sharia. Franco Venturini sul CORRIERE DELLA SERA così commenta la notizia: “Non inganni la pesante tutela impostagli dai militari, non porti fuori strada la definizione di ‘faraone dimezzato’ che già molti hanno creduto di potergli attribuire: il fratello musulmano Mohammed Morsi, vincendo le elezioni ha cambiato la storia dell’Egitto (…)”. Nel suo primo discorso alla nazione, riporta LA REPUBBLICA, “il presidente eletto ha voluto rassicurare la comunità internazionale confermando l’impegno ‘a rispettare i trattati’, un evidente riferimento agli accordi di pace di Camp David tra Egitto e Israele. Da parte di Israele un atteggiamento attendista basato, comunque, sull’accettazione del risultato del voto. Agli egiziani Morsi ha chiesto ‘unità’, pur affermando che ‘la lotta per la democrazia ‘, vale a dire contro le interferenze del potere militare, ‘continueranno ‘. Nella notte anche la telefonata di Barack Obama. Il presidente Usa si è congratulato con Morsi e ha garantito il sostegno alla transizione dell'Egitto verso la democrazia. All’annuncio dei risultati, un boato s’è levato da piazza Tahrir, presidiata per sei giorni di fila da una folla di centinaia di migliaia di persone mobilitata dai Fratelli Musulmani al culmine di una drammatica prova di forza tra l’organizzazione islamica e il potere militare incarnato dal Consiglio Supremo delle Forze Armate (Scaf), di fatto, dalla deposizione di Mubarak in poi, il governo reale del paese. Una protesta che, promettono i militanti, andrà avanti”.
LA STAMPA fa un ritratto del neo presidente egiziano, descrivendolo come un uomo “senza spigoli, senza angoli, dal mite volto domestico, vive nell’armonia di un mondo in cui lotte per noi titaniche neppure turbano il silenzio. La sua serenità regna su quei confini del cuore e della ragione dove non penetra nessuno spirito che non sia islamico, la sola ideologia capace di tener testa a tutte le mode. L’Egitto, invece, è un Paese di superstiti. Ciascuno viaggia con un suo incubo nel bagaglio, con una funesta memoria da cancellare. Ma una barba non spaventa nessuno, è quella di un buon zio arrivato dall’America con le tasche piene di caramelle. Devoto, devotissimo, per carità, ma nessuno potrebbe immaginarlo partigiano di un dio inesorabile, inveire contro i miscredenti, zuppificare anatemi, pestiferare jihad. In America è andato davvero, a specializzarsi nella sua laurea in ingegneria. La permanenza in quel paese di crociati o miscredenti, detentori di una malefica potenza, non sembrano davvero averlo contagiato. Ne è uscito purissimo, fortificato, ed è tornato a fare il suo dovere di bravo egiziano a fianco dei Fratelli, attento a non allontanarsi mai dalla linea zigzagante tracciata dai pontefici del partito. Il suo slogan elettorale - ‘L’Islam è la soluzione’ - certo non lo ha escogitato negli anni in cui è stato assistant professor all’università di California. È stato in galera sotto Mubarak; ovviamente, verrebbe voglia di dire. Come se quel passaggio non fosse che una inevitabile casella della sua biografia politicamente correttissima per i tempi che dicono Nuovi. I tempi della rivoluzione (fatta da altri) e del potere. Non ci rimane che cercarlo nelle sue promesse: se ce lo nascondono è forse perché lo contengono. La sua ideologia, a quel che raccontano, sembra un sacco rigonfio, da cui può trarre ogni volta qualcosa per accontentare i dubbi e le paure degli osservatori più diversi, occidentali e folli di dio, miliardari e senzatutto. Adora il libero mercato e questo manda in estasi gli americani (il semplice fatto che abbia studiato negli Stati Uniti oltreoceano rende qualsiasi biografia accettabile fino a prova contraria). Ma ha già garantito di voler porre un argine alla dipendenza dell’Egitto da Washington, grottesca eredità dell’era Mubarak (…)”.
«Una vittoria che ridà la spinta ai rivoluzionari del mondo arabo»
IL CAIRO — «La vittoria dei Fratelli musulmani in Egitto ha un profondo significato in tutto il
mondo arabo. I movimenti rivoluzionari in Libia, Tunisia, Siria o Yemen guardano alle folle in
festa al Cairo e ne sono inspirati, vedono il successo dell'attivismo sociale. Sono rassicurati,
specie in questo periodo di grande difficoltà per tutto il movimento delle cosiddette primavere
arabe». È tutto sommato ottimista Eugene Rogan. Noto studioso dell'università di Oxford del
Medio Oriente moderno-contemporaneo (la sua recente storia degli arabi pubblicata in Italia da
Bompiani è già considerata un classico), vede nell'elezione di Mohammed Morsi alla presidenza
egiziana un importante passo avanti nella lotta alle dittature così come sviluppate dalla
decolonizzazione negli anni Cinquanta.
Non teme che il carattere antidemocratico dell'estremismo islamico possa di fatto uccidere lo
spirito originario di apertura della primavera araba?
«Non c'erano molte alternative. Gli egiziani sono stati chiamati a scegliere tra Ahmed Shafiq,
che rappresentava la vecchia giunta militare e la dittatura di Hosni Mubarak, e invece il
cambiamento radicale incarnato da Morsi. Direi che hanno ottenuto il meglio possibile, date le
circostanze. La restaurazione sarebbe stata molto peggio».
Al Cairo si parla già di intese segrete con la benedizione di Washington tra Morsi e la giunta
militare, che in realtà detiene tutto il potere effettivo. Che ne pensa?
«Senza dubbio le avanguardie laiche che l'anno scorso hanno guidato le prime sommosse in
piazza Tahrir sono state tradite. Posso capire la loro delusione. Ma ora saranno loro le prime a
cercare di comprendere e denunciare le intese sottobanco tra Morsi e i militari. È nel loro diritto,
anzi un dovere per lo sviluppo del Paese. Nei prossimi giorni si alzeranno la mattina pensando
di essere state imbrogliate. Il loro attivismo rabbioso sarà alla base delle nuove spinte
democratiche».
La questione è se i Fratelli musulmani saranno disposti a lasciarli agire. Non dimentichiamo
l'assassinio di intellettuali laici come Faruq Foda, il terrorismo islamico degli anni Novanta.
Come vede tra l'altro le paure dei cristiani nel Paese?
«Condivido i timori dei cristiani. Pure, l'universo islamico in Egitto non è monolitico. Alcuni dei
più estremisti tra i gruppi attivi negli anni Novanta, gli stessi che uccisero Foda, sono stati
largamente battuti. Ci sono però i salafiti, che già soffiano sul collo di Morsi, lo accusano di
essere troppo moderato. Non sono pochi, alle elezioni parlamentari in dicembre hanno ricevuto
il 25 per cento dei voti. Eppure il gruppo dirigente dei Fratelli musulmani potrebbe dimostrarsi
molto pragmatico. Sono per la prima volta al potere e faranno del loro meglio per tenerlo. Non
vogliono lo scontro frontale con le componenti laiche della società egiziana. Intendono
rassicurare la comunità internazionale».
Che faranno con Israele?
«Il loro rapporto con Hamas nella striscia di Gaza sarà molto migliore che la chiusura ostile di
Mubarak. Però manterranno gli accordi di pace con Israele. Ricordano bene cosa è capitato al
Libano, che nel 2006 non impedì all'Hezbollah di provocare Israele. E non vogliono affatto una
nuova guerra. Certo non in questa congiuntura».
La primavera araba è in crisi?
«Le speranze sollevate dai movimenti del 2011 sono in dubbio. In Libia è lotta primitiva tra tribù
e così anche in Yemen. In Siria la guerra civile miete migliaia di vittime e non se ne vede la fine.
Nei Paesi del Golfo non ci sono progressi. Persino nella piccola e tutto sommato laica Tunisia,
che era vista come il fiore all'occhiello del movimento di rinnovamento democratico, ora i salafiti
estremisti minacciano le avanguardie progressiste, attaccano le studentesse laiche nelle
università. Però queste sono difficoltà direi inevitabili. Ogni rivoluzione ha i suoi alti e bassi».È favorevole all'intervento internazionale in Siria?
«Sì. Ma non come quello della Nato in Libia l'anno scorso. Io sarei favorevole invece all'invio di
50.000 caschi blu con il mandato di impedire il massacro di civili».
Anche la Nato contro Gheddafi dichiarò inizialmente di voler difendere i civili. Poi arrivò sino a
Tripoli.
«Sì, ma in verità la missione non dichiarata sin dalle prime mosse mirava a defenestrare la
dittatura. La Nato ha difeso le vittime di Gheddafi, ma non i lealisti dall'aggressione delle milizie
ribelli. In Siria ci saranno sicuramente massacri di civili fedeli al regime di Bashar al Assad
dovessero vincere i rivoluzionari. Compito delle truppe Onu sarebbe dunque creare delle zone
cuscinetto in tutto il Paese per evitare una situazione di pulizia etnica come avvenne nella ex
Jugoslavia degli anni Novanta. Ma toccherà poi alle forze sul campo di negoziare tra loro la
Siria del futuro. Non può essere imposta dalla comunità internazionale».
Lorenzo Cremonesi
Egitto, vince Mohammed Morsi
«Sarò il presidente di tutti gli egiziani»
Un risultato impensabile fino a un anno e mezzo fa. Mohammed Morsi, esponente dei Fratelli Musulmani è il nuovo presidente dell'Egitto, con il 51.7% dei voti. Sconfitto l'avversario Ahmed Shafik, che conquista il 48.3% dei voti. La commissione elettorale egiziana, per voce del suo presidente Faruk Sultan, dopo una lunghissima conferenza stampa che ha suscitato grande ilarità su Twitter per la sua prolissità e che ha ripercorso tutti i casi di brogli elettorali, alle 16.30 di domenica ha annunciato i risultati ufficiali del secondo turno delle elezioni presidenziali. La proclamazione era attesa tre giorni fa, ma la commissione ha richiesto ulteriore tempo per valutare i ricorsi presentati dai due candidati in lizza che entrambi rivendicavano la vittoria.UN MILIONE DI VOTI IN PIU' - Si tratta di una vittoria abbastanza di stretta misura: Morsi ha ottenuto oltre 13 milioni di voti contro gli oltre 12 milioni andati al suo sfidante, Ahmad Shafik, ex premier di Hosni Mubarak. L'affluenza alle urne è stata del 51% degli aventi diritto. Il capo del consiglio militare egiziano Hussen Tantawi ha telefonato al vincitore per congratularsi della sua vittoria, mentre il portavoce del nuovo presidente ha dichiarato: «Siamo arrivati a questo momento grazie al sangue versato dai martiri della rivoluzione. L'Egitto inizierà una nuova fase della sua storia». Le parole, ha aggiunto, non possono descrivere la «gioia in questo momento storico».PRESIDENTE DI TUTTI - E Mohammed Morsi lancia messaggi di riconciliazione. «Sarò il presidente di tutti gli egiziani» ha detto nel suo primo discorso da presidente dell'Egitto. Il candidato dei Fratelli musulmani ha anche reso omaggio ai «martiri» della rivoluzione e ha assicurato che intende rispettare i trattati internazionali e che vuole la pace. «Manterremo tutti gli accordi e i trattati internazionali perché siamo interessati alla pace dinanzi a tutto il mondo». Il riferimento evidente è all'accordo di pace firmato nel 1979 dall'Egitto con Israele e che è stato tradizionalmente criticato dagli islamisti. L'Egitto è stato il primo Paese arabo e confinante a firmare la pace con Israele e il regime di Hosni Mubarak manteneva una situazione di stabilità alle relazioni bilaterali, anche se questo non coincideva con i sentimenti della strada e della comunità intellettuale. Intanto il Consiglio militare egiziano ha augurato buona fortuna al presidente Mohamed Morsi sottolineando che «questo momento storico necessita di una grande riconciliazione nazionale». Sulla pagina Facebook il Consiglio militare augura a Morsi che possa assumersi la responsabilità «di questo popolo in rivolta che gli ha dato fiducia». Quindi l'invito a migliaia di manifestanti radunati in piazza Tahrir da parte di Mohamed el Beltagui, segretario generale del partito della Fratellanza, Giustizia e Libertà: «Abbiamo un presidente che è il comandate in capo delle forze armate e sta quindi ai militari di ritornare nelle loro caserme».
LA CASA BIANCA - «Gli Stati Uniti si congratulano con Mohamed Morsi per la sua vittoria alle elezioni presidenziali egiziane», è il primo commento arrivato dalla Casa Bianca. Gli Usa hanno definito la sua elezione «una pietra miliare nella transizione dell'Egitto verso la democrazia» e si sono augurati che l'Egitto rimanga «un pilastro di pace, sicurezza e stabilità regionale» e auspicano anche che nelle trattative per il nuovo governo siano consultate tutte le componenti sociali e politiche.«BUON GIORNO CAIRO» - È la prima volta che i Fratelli Musulmani vanno democraticamente al potere. Nel frattempo migliaia di egiziani che avevano affollato piazza Tahrir in attesa di conoscere, il nome del primo presidente del dopo Mubarak. E all'annuncio della vittoria un boato si alzato dalla piazza, dove i sostenitori di Morsi stanno ballando e cantando. Islamisti fedeli Mohamed Morsi, si sono aggiunti ad altri sostenitori dei Fratelli Musulmani che già affollavano la piazza per protestare contro lo scioglimento del Parlamento da parte della giunta militare. Nel resto della metropoli egiziana ha regnato una calma carica di attesa, inusuale per un giorno lavorativo. Su Twitter la giornalista e attivista Mona Eltahawy, aggredita dalla polizia in piazza Tahrir lo scorso novembre, scrive: «Buongiorno Cairo. Oggi avremo un nuovo presidente. Augurateci buona fortuna». In vista della comunicazione ufficiale dei risultati delle elezioni, nelle strade del Cairo e intorno ai luoghi sensibili è stata rafforzata la sicurezza. Alla polizia è stato ordinato di «affrontare con durezza» ogni violazione della legge, mentre il clima resta teso e si temono violenze successive all'annuncio del risultato del ballottaggio del 16 e 17 giugno. Entrambi i candidati avevano rivendicato la vittoria.
LA RINUNCIA ALLA MILITANZA - E Morsi ha rinunciato alla sua militanza nei Fratelli Musulmani, come aveva promesso che avrebbe fatto se avesse vinto. Lo ha annunciato il Partito Libertà e Giustizia, espressione del gruppo islamista e presieduto dallo stesso Morsi, attraverso il suo account su Twitter.
Il presidente della commissione Faruk Sultan (Afp)
LA TENSIONE - Circa 2mila sostenitori di Ahmed Shafik si sono radunati invece nel distretto di Nasr City, al Cairo, in attesa del risultato ufficiale. A proposito del timore di disordini, un ufficiale dell'esercito ha dichiarato, dopo che agli agenti schierati in forze è stato ordinato di rispondere con fermezza a eventuali violenze: «Questa volta non scherzeremo, prima siamo stati gentili» con chi ha violato la legge, se necessario sarà imposto un coprifuoco. Blindati e agenti sono stati schierati alle uscite ed entrate dell'aeroporto del Cairo, intorno al Parlamento e nelle strade verso il palazzo del governo.
SI FESTEGGIA ANCHE A GAZA - Festeggiamenti e colpi d'arma da fuoco esplosi in aria a Gaza per celebrare la vittoria dell'islamista Mohamed Morsi . Per Hamas si tratta di un «momento storico». In campagna elettorale il leader della Fratellanza ha promesso sostegno ai palestinesi «nella loro lotta legittima». Peccato però che una persona sia morta e cinque siano rimaste ferite dagli spari in aria a Rafah.
Seguendo i programmi di Al Jazeera abbiamo così saputo che Morsi, dopo aver trascorso qualche anno di galera per la sua appartenenza ai Fratelli Musulmani, ad opera da una condanna combinatagli da uno degli illuminati giudici pro-Mubarak, e dopo aver conseguito una laurea in ingegneria all'università del Cairo, è emigrato negli Stati Uniti d'America in cerca di lavoro come molti giovani laureati egiziani, ed ha svolto una qualificata attività lavorativa come tecnico della NASA lavorando al progetto Shuttle: i tre figli, nati in America, hanno la cittadinanza americana. Che un personaggio di questo tipo potesse essere credibile come una sorta di fanatico islamista diviso tra vocazione terroristiche e fanatismi misticheggianti è qualcosa che richiede un livello di credulità che soltanto qualche fanatico elettore di Berlusconi (di quelli che gridano: "Per fortuna che c'è Silvio!") è circostanza estremamente improbabile. E a commentare la lunga attesa della pronuncia della suprema corte egiziana, su chi fosse il vincitore delle elezioni e primo presidente democraticamente eletto del popolo egiziano, Mediaset ci ha propinato una deputata di Forza Italia, Tal Suad di origine marocchina, appartenente di diritto ad uno di quei personaggi rinnegati che stanno in buona compagnia col convertito in mondo visione Magdi Allam, battezzato personalmente da Papa Benedetto XVI e affetto da un'islamofobia talmente acuta che il Corriere della Sera, che pure è stato editore di una assatanata mangia musulmani come Oriana Fallaci, lo ha cacciato da vice direttore; e ora Cristiano Magdi Allam collabora nel giornale di Sallusti.
La faziosità stupida e priva di ogni conoscenza dei fatti reali è stata l'unica ombra di uno spettacolo entusiasmante andato in onda quando l'immensa folla di milioni di persone, alla notizia della vittoria dei Fratelli Musulmani e di Muhammad Morsi, raccolta da almeno due giorni in piazza Tahrir al Cairo è esplosa in una gioia incontenibile. Da musulmano ho provato un'emozione così intensa che nonostante le mie precarie condizioni di salute sono riuscito a compiere la genuflessione rituale per ringraziare Allah di avermi fatto assistere a un evento come il trionfo della democrazia in un paese e in un popolo che secondo i nostrani puristi della libertà vengono considerati refrattari alla democrazia e alla libertà. Il momento più alto è stato quando tre giovani si sono arrampicati su una specie di pennone improvvisato e hanno fatto discendere una lunga sciarpa di bandiere: non solo quella egiziana, ma quella dei popoli martiri palestinese e siriano; e ancora le bandiere di Algeria e di Tunisia, di Libia e di Turchia: una visualizzazione sintetica e commovente di quello che è il vero Islam, tanto bene rappresentato dalle parole che la sera prima Monsignor Dall'Oglio, recentemente espulso dalla Siria da Assad per i sinceri sforzi che stava profondendo per la pace, ha pronunciato da una rete televisiva non italiana rispondendo a una domanda un pò tendenziosa di un giornalista, sul perché facesse tanti sforzi a favore di popolazioni musulmane. Il prete, ben convinto che la religione cristiana e la religione islamica sono strettamente legate dalla profonda fede nell'unico Dio, ha risposto: "Io credo profondamente nelle parole di Gesù e nello stesso tempo amo profondamente l'Islam: sono consapevole infatti che i miliardi di fedeli musulmani rappresentano un immenso patrimonio di spiritualità contro la miseria di un mondo nel quale tutto è ridotto a merce e a mercato".
Allahu Akbar, Dio è il più Grande. Ma cosa possono capirne di questa verità, elementare come il fatto di esistere, popoli che pensano soltanto ad accumulare ricchezze con una ferocia che non prova compassione neppure per povera gente fatta morire affogata nello stretto di Messina o morta soffocata in una bus mentre cercava di fuggire dall'inferno dell'Afghanistan.
Mi viene sempre in mente quando venivano respinti i profughi dalla Libia, sconvolta da pochi giorni di guerra civile, che fecero gridare come un gallinaccio l'allora ministro degli interni Maroni per qualche migliaio di persone sbarcate a Lampedusa. Il responsabile di uno dei campi profughi predisposti dal popolo tunisino negli stessi giorni e trovatosi a fronteggiare l'esodo di oltre 100 mila persone commentò: "Cos'ha da gridare tanto il signor Maroni? Noi siamo un piccolo paese che è appena uscito da un duro scontro politico; abbiamo disoccupati e gente affamata e tuttavia ospitiamo senza tanto strillare quasi 100 mila profughi e gli forniamo cibo e acqua. Forse perché noi abbiamo la pietà musulmana mentre il signor Maroni e quelli come lui hanno dimenticato la pietà di Gesù".
Fatta questa premessa pubblichiamo alcuni degli articoli comparsi sui principali giornali italiani per commentare la vittoria dei Fratelli Musulmani nelle elezioni presidenziali egiziane.
IL PRESIDENTE DIMEZZATO
Un fratello musulmano eletto presidente della Repubblica egiziana è, perlomeno in apparenza, un avvenimento eccezionale. Al Cairo, in queste ore, la notizia esalta e sconcerta. Intimorisce i laici. Entusiasma i ferventi musulmani, per i quali ha un valore storico. Tiene in allerta i militari, registi della situazione. I fondatori della confraternita, nel passato segreta e non estranea al terrorismo, venivano mandati da monarchi e presidenti al patibolo o a marcire in prigione. Mohammed Morsi, il neo eletto, appartiene alla generazione dei dirigenti che fanno politica alla luce del sole, nella legalità, e che si presentano in giacca e cravatta, con la quasi immancabile barba, e con lauree soprattutto scientifiche e tecniche, cioè non contaminate dalla cultura umanistica occidentale, e con il progetto di una nebulosa “democrazia islamica”, adatta all’epoca di Facebook. Lui, Morsi, ha sessant’anni e si è laureato in ingegneria all’University of Southern California. La confraternita di cui è l’esponente è stata fondata ottantaquattro anni fa e ha messo le radici in tutto il paese, tra ricchi e poveri. Si occupa, non da oggi, di ospedali, di assistenza sociale, dell’insegnamento del Corano, e ha come espressione politica il Partito della libertà e della giustizia. Il quale si ispira adesso all’islamismo moderno del turco Erdogan. La sua elezione avvicina più che mai i Fratelli un tempo fuorilegge alla realizzazione, appunto, della sognata e confusa “democrazia islamica”, nella più grande nazione araba, quale è l’Egitto.
Ma avere un presidente non significa disporre del potere. L’avvento di Mohammed Morsi alla massima carica dello Stato appare in queste ore piuttosto simbolico. La “primavera araba” nella versione cairota sopravvive sotto il controllo della società militare. Agonizza. Perché i generali del Supremo Consiglio delle Forze Armate sono tutt’altro che disposti a cedere le leve di comando di cui dispongono in tutte le principali attività. Dalla difesa, con annesse fabbriche d’armi, all’economia, con industrie di elettrodomestici, alberghi, ospedali, fattorie. Dall’amministrazione della giustizia, grazie alla legge d’emergenza, ai servizi di polizia, poiché l’esercito ha il diritto di arrestare i civili. Dalla facoltà di promulgare le leggi, poiché, sciolto il Parlamento appena eletto, il Supremo consiglio delle Forze Armate si è arrogato il potere legislativo, al diritto di decidere quel che è costituzionale o non lo è, poiché non esiste la nuova promessa Costituzione. E quindi non si sa quali saranno le prerogative del nuovo presidente della Repubblica. L’impressione è che i militari abbiano prima imprigionato e condannato all’ergastolo Hosni Mubarak, che era il loro capo, per placare la rivoluzione di piazza Tahrir, e che adesso abbiano consentito la nomina di Mohammed Morsi per placare i Fratelli musulmani che hanno visto sciogliere il Parlamento in cui avevano appena conquistato la maggioranza.
L’interpretazione più edulcorata di questa abile, per certi versi sfacciata sceneggiata, sostiene che si è trattato di un compromesso, raggiunto con negoziati più o meno diretti. Da un lato i generali che hanno le armi, dall’altro i Fratelli musulmani che hanno e forse continueranno a disporre della piazza. Stando ai calcoli politici del momento, le due forze a confronto si equivalgono e quindi hanno stipulato un contratto, inevitabilmente provvisorio. I generali non potevano reprimere con i carri armati un movimento di massa, e il movimento di massa non aveva e non ha i mezzi per relegare i militari nelle caserme. Un’intesa effimera, dettata dall’emergenza, era dunque inevitabile. La conclusione è che i primi, i militari, conservano il potere reale, e che i secondi, i Fratelli musulmani, hanno ottenuto un presidente dimezzato, ma carico di simboli tutt’altro che trascurabili. Questo è il significato della proclamazione del primo capo dello Stato egiziano, dopo la destituzione di Hosni Mubarak, travolto dalla “primavera egiziana” nel febbraio 2011. Piazza Tahrir ha esultato quando si è saputo, dopo una lunga attesa, che Mohammed Morsi, avendo ottenuto più di tredici milioni di voti aveva sconfitto Ahmed Shafiq, il candidato dei militari, che ne aveva ottenuto soltanto più di dodici milioni. Quella piazza nel cuore del Cairo è come un altare su cui si celebrano i riti di una rivoluzione che a tratti sembra ancora viva ma che ha comunque perduto l’identità iniziale.
Ieri sera festeggiava Mohammed Morsi appena eletto presidente della Repubblica, ma di una repubblica diversa da quella chiesta dai primi gruppi laici, di sinistra, insorti un anno e mezzo fa. I fratelli musulmani hanno occupato piazza Tahrir da tempo, appropriandosi della “primavera”, dalla quale erano stati sorpresi. Il terreno era sgombro perché gli insorti laici della prima ora non erano stati capaci di organizzarsi, di darsi una leadership, di stringere alleanze tra le varie correnti. Lo smarrimento è stato tale tra di loro che alcuni esponenti di rilievo, come il giornalista Hamdeen Sabbahi, arrivato terzo alle elezioni presidenziali, ha approvato lo scioglimento del Parlamento decretato dalla Corte costituzionale, agli ordini dei militari. I promotori della “primavera” si erano del resto opposti alle elezioni politiche, volute dai militari, perché temevano quel che è poi avvenuto, ossia il successo delle formazioni religiose, quella moderata dei Fratelli musulmani e quella integralista dei salafiti. Organizzando le elezioni, i militari hanno ammansito i Fratelli musulmani che sapevano di poterle vincere, ma poi hanno sciolto il Parlamento appena eletto e per attenuare la loro collera hanno concesso ai Fratelli musulmani un presidente dimezzato, quale è Mohammed Morsi. Nel braccio di ferro con i generali i Fratelli musulmani hanno esibito un “fronte nazionale” in cui apparivano alcuni esponenti dei movimenti laici, attirati dalla promessa di una loro partecipazione al futuro governo. Alla testa del quale il presidente avrebbe addirittura messo un primo ministro non appartenente a un partito religioso. In realtà molti attivisti laici sono apparsi alla televisione per sostenere i generali che avevano appena decretato lo scioglimento del Parlamento. Essi hanno accusato i Fratelli musulmani di avere “rapito” la rivoluzione e di voler soffocare gli ideali progressisti di piazza Tahrir, imponendo la sharia, la legge religiosa.
Da questo discorso i militari sono usciti come i difensori della laicità. Sono stati registi molto abili. Non sarà tuttavia facile per loro tenere a bada le masse musulmane eccitate dalla vittoria del loro candidato e domani deluse nel vederlo privo di reali poteri. La Confraternita dei Fratelli musulmani e l’Esercito sono in Egitto due istituzioni con radici profonde, al Cairo come nelle campagne lungo il Nilo. E nella lontana Nubia. La prima, la Confraternita, è malleabile. È abituata a piegarsi («come canna al vento») di fronte a una forza superiore. La società militare emersa nel 1952 con la rivoluzione repubblicana degli «ufficiali liberi » ha saputo a sua volta adeguarsi a diverse realtà: al socialismo arabo di Nasser, al liberismo di Sadat, alla pace con Israele con il quale aveva combattuto quattro guerre, alla dinamica e corrotta economia di mercato di Mubarak. Per la prima volta, ieri, ha accettato l’elezione di un presidente non uscito dai ranghi delle Forze Armate. Ha dovuto inghiottire l’umiliazione, ma non ha ceduto, in apparenza, alcun potere. Il nuovo presidente non potrà neppure controllare il bilancio dell’esercito. Il quale non è trascurabile, poiché la società militare controlla un terzo dell’economia e riceve dagli Stati Uniti, da decenni, quasi un miliardo e mezzo di dollari l’anno. I generali dovranno adesso abituarsi a convivere con i Fratelli musulmani che un tempo impiccavano o rinchiudevano in prigione o nei campi di concentramento. Non sarà facile.
Intanto il nuovo presidente chiederà nuove elezioni per il Parlamento appena sciolto ed anche la formazione di un’Assemblea costituente. Si riaccenderà cosi un clima elettorale, non favorevole alla convivenza. E in piazza Tahrir ritorneranno i movimenti rivoluzionari della prima ora. Insomma la “primavera” è agonizzante, ma non del tutto spenta. Non mancheranno altri problemi. L’elezione (sia pure simbolica) di un fratello musulmano alla massima carica dello Stato può ringagliardire i gruppi islamici, alcuni dei quali jiadisti, installatisi negli ultimi mesi nel Sinai, a ridosso di Israele. E le Forze armate, garanti degli accordi di Camp David, che portarono alla pace tra il Cairo e Gerusalemme, faticano già a disciplinare l’attività di quei gruppi.
Bernardo Valli
EGITTO, STORICA VITTORIA DEI MUSULMANI: MORSI PRESIDENTE
Roma - Svolta storica in Egitto. Il candidato dei Fratelli Musulmani, Mohammed Morsi, ha vinto le elezioni col 51,8 per cento dei voti. Il suo avversario, Ahmad Shafiq, ha ottenuto il 48,2 per cento dei voti. Morsi è il primo presidente democraticamente eletto nella storia d’Egitto ed ha annunciato che rispetterà i trattati internazionali e che intende applicare alcuni principi della sharia. Franco Venturini sul CORRIERE DELLA SERA così commenta la notizia: “Non inganni la pesante tutela impostagli dai militari, non porti fuori strada la definizione di ‘faraone dimezzato’ che già molti hanno creduto di potergli attribuire: il fratello musulmano Mohammed Morsi, vincendo le elezioni ha cambiato la storia dell’Egitto (…)”. Nel suo primo discorso alla nazione, riporta LA REPUBBLICA, “il presidente eletto ha voluto rassicurare la comunità internazionale confermando l’impegno ‘a rispettare i trattati’, un evidente riferimento agli accordi di pace di Camp David tra Egitto e Israele. Da parte di Israele un atteggiamento attendista basato, comunque, sull’accettazione del risultato del voto. Agli egiziani Morsi ha chiesto ‘unità’, pur affermando che ‘la lotta per la democrazia ‘, vale a dire contro le interferenze del potere militare, ‘continueranno ‘. Nella notte anche la telefonata di Barack Obama. Il presidente Usa si è congratulato con Morsi e ha garantito il sostegno alla transizione dell'Egitto verso la democrazia. All’annuncio dei risultati, un boato s’è levato da piazza Tahrir, presidiata per sei giorni di fila da una folla di centinaia di migliaia di persone mobilitata dai Fratelli Musulmani al culmine di una drammatica prova di forza tra l’organizzazione islamica e il potere militare incarnato dal Consiglio Supremo delle Forze Armate (Scaf), di fatto, dalla deposizione di Mubarak in poi, il governo reale del paese. Una protesta che, promettono i militanti, andrà avanti”.
LA STAMPA fa un ritratto del neo presidente egiziano, descrivendolo come un uomo “senza spigoli, senza angoli, dal mite volto domestico, vive nell’armonia di un mondo in cui lotte per noi titaniche neppure turbano il silenzio. La sua serenità regna su quei confini del cuore e della ragione dove non penetra nessuno spirito che non sia islamico, la sola ideologia capace di tener testa a tutte le mode. L’Egitto, invece, è un Paese di superstiti. Ciascuno viaggia con un suo incubo nel bagaglio, con una funesta memoria da cancellare. Ma una barba non spaventa nessuno, è quella di un buon zio arrivato dall’America con le tasche piene di caramelle. Devoto, devotissimo, per carità, ma nessuno potrebbe immaginarlo partigiano di un dio inesorabile, inveire contro i miscredenti, zuppificare anatemi, pestiferare jihad. In America è andato davvero, a specializzarsi nella sua laurea in ingegneria. La permanenza in quel paese di crociati o miscredenti, detentori di una malefica potenza, non sembrano davvero averlo contagiato. Ne è uscito purissimo, fortificato, ed è tornato a fare il suo dovere di bravo egiziano a fianco dei Fratelli, attento a non allontanarsi mai dalla linea zigzagante tracciata dai pontefici del partito. Il suo slogan elettorale - ‘L’Islam è la soluzione’ - certo non lo ha escogitato negli anni in cui è stato assistant professor all’università di California. È stato in galera sotto Mubarak; ovviamente, verrebbe voglia di dire. Come se quel passaggio non fosse che una inevitabile casella della sua biografia politicamente correttissima per i tempi che dicono Nuovi. I tempi della rivoluzione (fatta da altri) e del potere. Non ci rimane che cercarlo nelle sue promesse: se ce lo nascondono è forse perché lo contengono. La sua ideologia, a quel che raccontano, sembra un sacco rigonfio, da cui può trarre ogni volta qualcosa per accontentare i dubbi e le paure degli osservatori più diversi, occidentali e folli di dio, miliardari e senzatutto. Adora il libero mercato e questo manda in estasi gli americani (il semplice fatto che abbia studiato negli Stati Uniti oltreoceano rende qualsiasi biografia accettabile fino a prova contraria). Ma ha già garantito di voler porre un argine alla dipendenza dell’Egitto da Washington, grottesca eredità dell’era Mubarak (…)”.
«Una vittoria che ridà la spinta ai rivoluzionari del mondo arabo»
IL CAIRO — «La vittoria dei Fratelli musulmani in Egitto ha un profondo significato in tutto il
mondo arabo. I movimenti rivoluzionari in Libia, Tunisia, Siria o Yemen guardano alle folle in
festa al Cairo e ne sono inspirati, vedono il successo dell'attivismo sociale. Sono rassicurati,
specie in questo periodo di grande difficoltà per tutto il movimento delle cosiddette primavere
arabe». È tutto sommato ottimista Eugene Rogan. Noto studioso dell'università di Oxford del
Medio Oriente moderno-contemporaneo (la sua recente storia degli arabi pubblicata in Italia da
Bompiani è già considerata un classico), vede nell'elezione di Mohammed Morsi alla presidenza
egiziana un importante passo avanti nella lotta alle dittature così come sviluppate dalla
decolonizzazione negli anni Cinquanta.
Non teme che il carattere antidemocratico dell'estremismo islamico possa di fatto uccidere lo
spirito originario di apertura della primavera araba?
«Non c'erano molte alternative. Gli egiziani sono stati chiamati a scegliere tra Ahmed Shafiq,
che rappresentava la vecchia giunta militare e la dittatura di Hosni Mubarak, e invece il
cambiamento radicale incarnato da Morsi. Direi che hanno ottenuto il meglio possibile, date le
circostanze. La restaurazione sarebbe stata molto peggio».
Al Cairo si parla già di intese segrete con la benedizione di Washington tra Morsi e la giunta
militare, che in realtà detiene tutto il potere effettivo. Che ne pensa?
«Senza dubbio le avanguardie laiche che l'anno scorso hanno guidato le prime sommosse in
piazza Tahrir sono state tradite. Posso capire la loro delusione. Ma ora saranno loro le prime a
cercare di comprendere e denunciare le intese sottobanco tra Morsi e i militari. È nel loro diritto,
anzi un dovere per lo sviluppo del Paese. Nei prossimi giorni si alzeranno la mattina pensando
di essere state imbrogliate. Il loro attivismo rabbioso sarà alla base delle nuove spinte
democratiche».
La questione è se i Fratelli musulmani saranno disposti a lasciarli agire. Non dimentichiamo
l'assassinio di intellettuali laici come Faruq Foda, il terrorismo islamico degli anni Novanta.
Come vede tra l'altro le paure dei cristiani nel Paese?
«Condivido i timori dei cristiani. Pure, l'universo islamico in Egitto non è monolitico. Alcuni dei
più estremisti tra i gruppi attivi negli anni Novanta, gli stessi che uccisero Foda, sono stati
largamente battuti. Ci sono però i salafiti, che già soffiano sul collo di Morsi, lo accusano di
essere troppo moderato. Non sono pochi, alle elezioni parlamentari in dicembre hanno ricevuto
il 25 per cento dei voti. Eppure il gruppo dirigente dei Fratelli musulmani potrebbe dimostrarsi
molto pragmatico. Sono per la prima volta al potere e faranno del loro meglio per tenerlo. Non
vogliono lo scontro frontale con le componenti laiche della società egiziana. Intendono
rassicurare la comunità internazionale».
Che faranno con Israele?
«Il loro rapporto con Hamas nella striscia di Gaza sarà molto migliore che la chiusura ostile di
Mubarak. Però manterranno gli accordi di pace con Israele. Ricordano bene cosa è capitato al
Libano, che nel 2006 non impedì all'Hezbollah di provocare Israele. E non vogliono affatto una
nuova guerra. Certo non in questa congiuntura».
La primavera araba è in crisi?
«Le speranze sollevate dai movimenti del 2011 sono in dubbio. In Libia è lotta primitiva tra tribù
e così anche in Yemen. In Siria la guerra civile miete migliaia di vittime e non se ne vede la fine.
Nei Paesi del Golfo non ci sono progressi. Persino nella piccola e tutto sommato laica Tunisia,
che era vista come il fiore all'occhiello del movimento di rinnovamento democratico, ora i salafiti
estremisti minacciano le avanguardie progressiste, attaccano le studentesse laiche nelle
università. Però queste sono difficoltà direi inevitabili. Ogni rivoluzione ha i suoi alti e bassi».È favorevole all'intervento internazionale in Siria?
«Sì. Ma non come quello della Nato in Libia l'anno scorso. Io sarei favorevole invece all'invio di
50.000 caschi blu con il mandato di impedire il massacro di civili».
Anche la Nato contro Gheddafi dichiarò inizialmente di voler difendere i civili. Poi arrivò sino a
Tripoli.
«Sì, ma in verità la missione non dichiarata sin dalle prime mosse mirava a defenestrare la
dittatura. La Nato ha difeso le vittime di Gheddafi, ma non i lealisti dall'aggressione delle milizie
ribelli. In Siria ci saranno sicuramente massacri di civili fedeli al regime di Bashar al Assad
dovessero vincere i rivoluzionari. Compito delle truppe Onu sarebbe dunque creare delle zone
cuscinetto in tutto il Paese per evitare una situazione di pulizia etnica come avvenne nella ex
Jugoslavia degli anni Novanta. Ma toccherà poi alle forze sul campo di negoziare tra loro la
Siria del futuro. Non può essere imposta dalla comunità internazionale».
Lorenzo Cremonesi
Egitto, vince Mohammed Morsi
«Sarò il presidente di tutti gli egiziani»
Un risultato impensabile fino a un anno e mezzo fa. Mohammed Morsi, esponente dei Fratelli Musulmani è il nuovo presidente dell'Egitto, con il 51.7% dei voti. Sconfitto l'avversario Ahmed Shafik, che conquista il 48.3% dei voti. La commissione elettorale egiziana, per voce del suo presidente Faruk Sultan, dopo una lunghissima conferenza stampa che ha suscitato grande ilarità su Twitter per la sua prolissità e che ha ripercorso tutti i casi di brogli elettorali, alle 16.30 di domenica ha annunciato i risultati ufficiali del secondo turno delle elezioni presidenziali. La proclamazione era attesa tre giorni fa, ma la commissione ha richiesto ulteriore tempo per valutare i ricorsi presentati dai due candidati in lizza che entrambi rivendicavano la vittoria.UN MILIONE DI VOTI IN PIU' - Si tratta di una vittoria abbastanza di stretta misura: Morsi ha ottenuto oltre 13 milioni di voti contro gli oltre 12 milioni andati al suo sfidante, Ahmad Shafik, ex premier di Hosni Mubarak. L'affluenza alle urne è stata del 51% degli aventi diritto. Il capo del consiglio militare egiziano Hussen Tantawi ha telefonato al vincitore per congratularsi della sua vittoria, mentre il portavoce del nuovo presidente ha dichiarato: «Siamo arrivati a questo momento grazie al sangue versato dai martiri della rivoluzione. L'Egitto inizierà una nuova fase della sua storia». Le parole, ha aggiunto, non possono descrivere la «gioia in questo momento storico».PRESIDENTE DI TUTTI - E Mohammed Morsi lancia messaggi di riconciliazione. «Sarò il presidente di tutti gli egiziani» ha detto nel suo primo discorso da presidente dell'Egitto. Il candidato dei Fratelli musulmani ha anche reso omaggio ai «martiri» della rivoluzione e ha assicurato che intende rispettare i trattati internazionali e che vuole la pace. «Manterremo tutti gli accordi e i trattati internazionali perché siamo interessati alla pace dinanzi a tutto il mondo». Il riferimento evidente è all'accordo di pace firmato nel 1979 dall'Egitto con Israele e che è stato tradizionalmente criticato dagli islamisti. L'Egitto è stato il primo Paese arabo e confinante a firmare la pace con Israele e il regime di Hosni Mubarak manteneva una situazione di stabilità alle relazioni bilaterali, anche se questo non coincideva con i sentimenti della strada e della comunità intellettuale. Intanto il Consiglio militare egiziano ha augurato buona fortuna al presidente Mohamed Morsi sottolineando che «questo momento storico necessita di una grande riconciliazione nazionale». Sulla pagina Facebook il Consiglio militare augura a Morsi che possa assumersi la responsabilità «di questo popolo in rivolta che gli ha dato fiducia». Quindi l'invito a migliaia di manifestanti radunati in piazza Tahrir da parte di Mohamed el Beltagui, segretario generale del partito della Fratellanza, Giustizia e Libertà: «Abbiamo un presidente che è il comandate in capo delle forze armate e sta quindi ai militari di ritornare nelle loro caserme».
LA CASA BIANCA - «Gli Stati Uniti si congratulano con Mohamed Morsi per la sua vittoria alle elezioni presidenziali egiziane», è il primo commento arrivato dalla Casa Bianca. Gli Usa hanno definito la sua elezione «una pietra miliare nella transizione dell'Egitto verso la democrazia» e si sono augurati che l'Egitto rimanga «un pilastro di pace, sicurezza e stabilità regionale» e auspicano anche che nelle trattative per il nuovo governo siano consultate tutte le componenti sociali e politiche.«BUON GIORNO CAIRO» - È la prima volta che i Fratelli Musulmani vanno democraticamente al potere. Nel frattempo migliaia di egiziani che avevano affollato piazza Tahrir in attesa di conoscere, il nome del primo presidente del dopo Mubarak. E all'annuncio della vittoria un boato si alzato dalla piazza, dove i sostenitori di Morsi stanno ballando e cantando. Islamisti fedeli Mohamed Morsi, si sono aggiunti ad altri sostenitori dei Fratelli Musulmani che già affollavano la piazza per protestare contro lo scioglimento del Parlamento da parte della giunta militare. Nel resto della metropoli egiziana ha regnato una calma carica di attesa, inusuale per un giorno lavorativo. Su Twitter la giornalista e attivista Mona Eltahawy, aggredita dalla polizia in piazza Tahrir lo scorso novembre, scrive: «Buongiorno Cairo. Oggi avremo un nuovo presidente. Augurateci buona fortuna». In vista della comunicazione ufficiale dei risultati delle elezioni, nelle strade del Cairo e intorno ai luoghi sensibili è stata rafforzata la sicurezza. Alla polizia è stato ordinato di «affrontare con durezza» ogni violazione della legge, mentre il clima resta teso e si temono violenze successive all'annuncio del risultato del ballottaggio del 16 e 17 giugno. Entrambi i candidati avevano rivendicato la vittoria.
LA RINUNCIA ALLA MILITANZA - E Morsi ha rinunciato alla sua militanza nei Fratelli Musulmani, come aveva promesso che avrebbe fatto se avesse vinto. Lo ha annunciato il Partito Libertà e Giustizia, espressione del gruppo islamista e presieduto dallo stesso Morsi, attraverso il suo account su Twitter.
Il presidente della commissione Faruk Sultan (Afp)
LA TENSIONE - Circa 2mila sostenitori di Ahmed Shafik si sono radunati invece nel distretto di Nasr City, al Cairo, in attesa del risultato ufficiale. A proposito del timore di disordini, un ufficiale dell'esercito ha dichiarato, dopo che agli agenti schierati in forze è stato ordinato di rispondere con fermezza a eventuali violenze: «Questa volta non scherzeremo, prima siamo stati gentili» con chi ha violato la legge, se necessario sarà imposto un coprifuoco. Blindati e agenti sono stati schierati alle uscite ed entrate dell'aeroporto del Cairo, intorno al Parlamento e nelle strade verso il palazzo del governo.
SI FESTEGGIA ANCHE A GAZA - Festeggiamenti e colpi d'arma da fuoco esplosi in aria a Gaza per celebrare la vittoria dell'islamista Mohamed Morsi . Per Hamas si tratta di un «momento storico». In campagna elettorale il leader della Fratellanza ha promesso sostegno ai palestinesi «nella loro lotta legittima». Peccato però che una persona sia morta e cinque siano rimaste ferite dagli spari in aria a Rafah.
domenica 24 giugno 2012
ALLAHU AKBAR
La Fratellanza Musulmana ha vinto le elezioni in Egitto nonostante i tentativi di golpe e le intimidazioni.
Allah è il più Grande
Allah è il più Grande
sabato 23 giugno 2012
SIRIA, LAMPI DI GUERRA CON LA TURCHIA
Siria, appello di Annan: "Agire ora"
Abbattuto un aereo militare turco
NEW YORK - Agire ora, subito. Per evitare che la Siria sprofondi in un processo di pace senza fine: l'appello alla comunità internazionale arriva per bocca di Kofi Annan. Un richiamo drammatico alla necessità di prendere provvedimenti rapidi di fronte a una situazione degenerata, che non lascia intravedere speranze. Intanto, cresce la tensione con la Turchia: un caccia di Ankara è stato abbattuto in acque siriane dalla contraerea siriana. Dopo ore di incertezza, la conferma è arrivata direttamente da Damasco.
"Più tempo aspettiamo, più il futuro della Siria sarà nero", ammonisce l'inviato speciale dell'Onu e della Lega Araba. Che critica le iniziative di alcuni governi, che "stanno mettendo in pericolo il processo di pace in Siria, rischiando di scatenare una lotta distruttiva nel Paese". E sostiene la necessità di coinvolgere tutti gli attori possibili per arrivare a una soluzione del conflitto, Iran compreso: secondo l'ex segretario generale dell'Onu, anche Teheran deve fare parte di quel gruppo di Paesi chiamati a lavorare per una soluzione della crisi in Siria.
L'inviato ha chiesto di alzare il livello di pressione sul regime di Damasco. "E' tempo che i governi con più influenza alzino il livello di pressione sulle parti e le convincano a fermare le uccisioni e iniziare il dialogo", ha detto Annan in una conferenza a Ginevra. "Ho avuto intense consultazioni nelle capitali del mondo sulla possibilità di concordare una riunione per discutere le misure da adottare" per applicare il piano di pace, ha aggiunto Annan. "È tempo" che i vari Paesi della comunità internazionale "aumentino la pressione" sulle parti coinvolte, "è tempo di agire ora," ha ripetuto. Una conferenza internazionale, ha annunciato, è in programma a fine mese in Svizzera, con l'obiettivo di trovare una soluzione alla crisi siriana.
"Il mio desiderio personale - ha spiegato Annan - è di fare appello a tutti i combattenti affinché depongano le armi per il bene del popolo". L'inviato speciale ha quindi ribadito come la situazione umanitaria continui a deteriorarsi ogni giorno. "Ora sono 1,5 milioni i siriani che necessitano di assistenza", ha detto, sottolineando come servano 180 milioni di dollari da inviare nel Paese, mentre sinora ne sono stati raccolti solo 42,7 milioni.
Annan ha spiegato anche di aver contattato direttamente il governo di Damasco per chiedere che la popolazione civile intrappolata ad Homs abbia la possibilità di essere rilasciata.
Caccia turco scompare in acque siriane. Sul terreno, intanto, la situazione si fa sempre più complicata e ad aumentare la tensione si è aggiunto oggi il caso di un cacciabombardiere turco precipitato in acque territoriali siriane: per ore non è stato chiaro se fosse stato abbattuto o se si trattasse di un incidente, poi, a tarda sera, sua il premier turco Erdogan che le autorità siriane hanno confermato la prima ipotesi.
"Un aereo militare turco - ha dichiarato l'esercito di Damasco - è stato colpito da un colpo diretto, dopo essere entrato nello spazio aereo siriano. Si è schiantato in mare nelle acque territoriali siriane a circa 10 km dalle coste della provincia di Latakia". I radar siriani avevano individuato un "obiettivo non identificato" che era penetrato nello spazio aereo siriano a grande velocità e a bassa altitudine. La difesa anti-aerea ha ricevuto quindi l'ordine di aprire il fuoco.
Il governo di Ankara deciderà la sua risposta non appena saranno noti tutti i dettagli, si legge nella nota diffusa al termine di una riunione d'emergenza a cui hanno partecipato i vertici militari e dell'intelligence turchi.
Nave russa riparte sotto scorta. Mosca sembra aver trovato una soluzione per il caso della nave russa con a bordo elicotteri destinati alla Siria che era stata costretta a invertire la rotta al largo delle coste scozzesi. Il cargo ripartirà con bandiera russa e sotto scorta, hanno riferito fonti "militari-diplomatiche" all'agenzia Interfax. Martedì scorso l'imbarcazione aveva rinunciato a raggiungere la Siria, poiché bloccata dalla compagnia d'assicurazione, che ha comunicato la revoca della copertura. Il mistero sul carico è stato sciolto dal ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov in persona, che ha confermato che a bordo c'erano due elicotteri siriani revisionati e "sistemi di difesa antiaerea", a loro volta di proprietà siriana, spediti in Russia per manutenzione.
Jet turco precipita in mare «Abbattuto da Damasco»
Un episodiomisterioso che può cambiare il volto alla crisi in Siria. Un caccia turco è stato abbattuto dalla contraerea siriana perché — secondo una versione — ha violato lo spazio aereo del Paese arabo. Una verità emersa nel cuore della notte dopo tesi contrastanti e spiegazioni bizzarre, a conferma del timore per le conseguenze. Ankara non può restare a guardare ma neppure agire di impulso. Ecco perché il governo prima vuol chiarire i fatti e poi muoverà i «passi necessari con decisione». Questa lunga giornata inizia alle 10 del mattino quando due Phantom turchi decollano da Erhac, vicino a Malatya. I caccia sono impegnati in una missione non lontano dal territorio siriano. Zona ad alto rischio. Ed è qui che, 90 minuti più tardi, avviene qualcosa. Secondo due tv libanesi filo-iraniane il jet è stato abbattuto dalla contraerea di Damasco ed è caduto in mare davanti a Latakia. Da Ankara confermano di aver perso i contatti radar. Seguono notizie confuse sui due piloti. Sono «in vita » rilanciano i media turchi. Prigionieri, insistono quelli libanesi. Li cercano i mare anche con l’intervento di navi siriane. Le informazioni operative si intrecciano con quelle diplomatiche. Sale la tensione, cala la Lira turca. Ma è il premier Recep Tayyip Erdogan a stabilizzare il «termometro». Rientrato dal summit in Brasile, convoca una conferenza stampa e per 15 minuti parla d’altro. Poi, finalmente, affronta la questione del caccia. E quando gli chiedono se è vero che Damasco si è scusata sostiene di non essere sicuro neppure di quello. Affermazione quanto meno strana. Non sono d’aiuto neppure gli americani. Dal Pentagono dicono: «Il caccia era nel raggio del sistema siriano, però non possiamo confermare l’abbattimento. Una linea cauta che cambia dopo il vertice (e probabilmente contatti con gli alleati) al quale partecipano Erdogan, i principali ministri e i generali. Il comunicato passato ai media accusa la Siria di aver abbattuto il Phantom e apre scenari imprevedibili. La Turchia è un membro della Nato e potrebbe anche invocare l’assistenza dei partner. Damasco, muta per l’intera giornata, rompe il silenzio. E sostiene che il Phantom era ad appena un chilometro dalla costa siriana. Quindi la difesa ha reagito scoprendo solo dopo che si trattava di un caccia turco. Ma che cosa ha spinto la Siria a un gesto che può costare caro? La prima risposta è che pensavano potesse essere un jet israeliano. La seconda è che sia un monito disperato agli altri avversari. Da mesi sono segnalati voli da parte di droni americani, aerei spia U2 e velivoli turchi che sgancerebbero strani «oggetti elettronici». Missioni per tenere d’occhio l’esercito di Assad che si aggiungono all’appoggio agli insorti. In Turchia — dove ci sono 32 mila profughi—hanno rifugi e centri di coordinamento. Il regime ha voluto lanciare un messaggio? E’ un’ipotesi. Se volevano potevano evitare di sparare. La distruzione del caccia è forse anche un modo per rimediare al colpo della fuga del colonnello a bordo di unMig e ricompattare i ranghimentre si moltiplicano sussurri su defezioni importanti. La tesi di Damasco potrebbe anche nascondere manovre all’interno del regime. Siamo nella terra degli intrighi. Una terra dove c’è spazio anche per il ruolo di Mosca. I russi hanno una stazione radar (e d’ascolto) a Kessab, base che «guarda» verso la Turchia e decine di consiglieri militari si occupano dei missili siriani. Possibile che abbiano lasciato fare? Mosca appoggia il regime ma non le avventure. Il punto è che nel conflitto — marcato ieri da altre stragi—tutti hanno qualcosa da nascondere.
Guido Olimpio
Abbattuto un aereo militare turco
NEW YORK - Agire ora, subito. Per evitare che la Siria sprofondi in un processo di pace senza fine: l'appello alla comunità internazionale arriva per bocca di Kofi Annan. Un richiamo drammatico alla necessità di prendere provvedimenti rapidi di fronte a una situazione degenerata, che non lascia intravedere speranze. Intanto, cresce la tensione con la Turchia: un caccia di Ankara è stato abbattuto in acque siriane dalla contraerea siriana. Dopo ore di incertezza, la conferma è arrivata direttamente da Damasco.
"Più tempo aspettiamo, più il futuro della Siria sarà nero", ammonisce l'inviato speciale dell'Onu e della Lega Araba. Che critica le iniziative di alcuni governi, che "stanno mettendo in pericolo il processo di pace in Siria, rischiando di scatenare una lotta distruttiva nel Paese". E sostiene la necessità di coinvolgere tutti gli attori possibili per arrivare a una soluzione del conflitto, Iran compreso: secondo l'ex segretario generale dell'Onu, anche Teheran deve fare parte di quel gruppo di Paesi chiamati a lavorare per una soluzione della crisi in Siria.
L'inviato ha chiesto di alzare il livello di pressione sul regime di Damasco. "E' tempo che i governi con più influenza alzino il livello di pressione sulle parti e le convincano a fermare le uccisioni e iniziare il dialogo", ha detto Annan in una conferenza a Ginevra. "Ho avuto intense consultazioni nelle capitali del mondo sulla possibilità di concordare una riunione per discutere le misure da adottare" per applicare il piano di pace, ha aggiunto Annan. "È tempo" che i vari Paesi della comunità internazionale "aumentino la pressione" sulle parti coinvolte, "è tempo di agire ora," ha ripetuto. Una conferenza internazionale, ha annunciato, è in programma a fine mese in Svizzera, con l'obiettivo di trovare una soluzione alla crisi siriana.
"Il mio desiderio personale - ha spiegato Annan - è di fare appello a tutti i combattenti affinché depongano le armi per il bene del popolo". L'inviato speciale ha quindi ribadito come la situazione umanitaria continui a deteriorarsi ogni giorno. "Ora sono 1,5 milioni i siriani che necessitano di assistenza", ha detto, sottolineando come servano 180 milioni di dollari da inviare nel Paese, mentre sinora ne sono stati raccolti solo 42,7 milioni.
Annan ha spiegato anche di aver contattato direttamente il governo di Damasco per chiedere che la popolazione civile intrappolata ad Homs abbia la possibilità di essere rilasciata.
Caccia turco scompare in acque siriane. Sul terreno, intanto, la situazione si fa sempre più complicata e ad aumentare la tensione si è aggiunto oggi il caso di un cacciabombardiere turco precipitato in acque territoriali siriane: per ore non è stato chiaro se fosse stato abbattuto o se si trattasse di un incidente, poi, a tarda sera, sua il premier turco Erdogan che le autorità siriane hanno confermato la prima ipotesi.
"Un aereo militare turco - ha dichiarato l'esercito di Damasco - è stato colpito da un colpo diretto, dopo essere entrato nello spazio aereo siriano. Si è schiantato in mare nelle acque territoriali siriane a circa 10 km dalle coste della provincia di Latakia". I radar siriani avevano individuato un "obiettivo non identificato" che era penetrato nello spazio aereo siriano a grande velocità e a bassa altitudine. La difesa anti-aerea ha ricevuto quindi l'ordine di aprire il fuoco.
Il governo di Ankara deciderà la sua risposta non appena saranno noti tutti i dettagli, si legge nella nota diffusa al termine di una riunione d'emergenza a cui hanno partecipato i vertici militari e dell'intelligence turchi.
Nave russa riparte sotto scorta. Mosca sembra aver trovato una soluzione per il caso della nave russa con a bordo elicotteri destinati alla Siria che era stata costretta a invertire la rotta al largo delle coste scozzesi. Il cargo ripartirà con bandiera russa e sotto scorta, hanno riferito fonti "militari-diplomatiche" all'agenzia Interfax. Martedì scorso l'imbarcazione aveva rinunciato a raggiungere la Siria, poiché bloccata dalla compagnia d'assicurazione, che ha comunicato la revoca della copertura. Il mistero sul carico è stato sciolto dal ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov in persona, che ha confermato che a bordo c'erano due elicotteri siriani revisionati e "sistemi di difesa antiaerea", a loro volta di proprietà siriana, spediti in Russia per manutenzione.
Jet turco precipita in mare «Abbattuto da Damasco»
Un episodiomisterioso che può cambiare il volto alla crisi in Siria. Un caccia turco è stato abbattuto dalla contraerea siriana perché — secondo una versione — ha violato lo spazio aereo del Paese arabo. Una verità emersa nel cuore della notte dopo tesi contrastanti e spiegazioni bizzarre, a conferma del timore per le conseguenze. Ankara non può restare a guardare ma neppure agire di impulso. Ecco perché il governo prima vuol chiarire i fatti e poi muoverà i «passi necessari con decisione». Questa lunga giornata inizia alle 10 del mattino quando due Phantom turchi decollano da Erhac, vicino a Malatya. I caccia sono impegnati in una missione non lontano dal territorio siriano. Zona ad alto rischio. Ed è qui che, 90 minuti più tardi, avviene qualcosa. Secondo due tv libanesi filo-iraniane il jet è stato abbattuto dalla contraerea di Damasco ed è caduto in mare davanti a Latakia. Da Ankara confermano di aver perso i contatti radar. Seguono notizie confuse sui due piloti. Sono «in vita » rilanciano i media turchi. Prigionieri, insistono quelli libanesi. Li cercano i mare anche con l’intervento di navi siriane. Le informazioni operative si intrecciano con quelle diplomatiche. Sale la tensione, cala la Lira turca. Ma è il premier Recep Tayyip Erdogan a stabilizzare il «termometro». Rientrato dal summit in Brasile, convoca una conferenza stampa e per 15 minuti parla d’altro. Poi, finalmente, affronta la questione del caccia. E quando gli chiedono se è vero che Damasco si è scusata sostiene di non essere sicuro neppure di quello. Affermazione quanto meno strana. Non sono d’aiuto neppure gli americani. Dal Pentagono dicono: «Il caccia era nel raggio del sistema siriano, però non possiamo confermare l’abbattimento. Una linea cauta che cambia dopo il vertice (e probabilmente contatti con gli alleati) al quale partecipano Erdogan, i principali ministri e i generali. Il comunicato passato ai media accusa la Siria di aver abbattuto il Phantom e apre scenari imprevedibili. La Turchia è un membro della Nato e potrebbe anche invocare l’assistenza dei partner. Damasco, muta per l’intera giornata, rompe il silenzio. E sostiene che il Phantom era ad appena un chilometro dalla costa siriana. Quindi la difesa ha reagito scoprendo solo dopo che si trattava di un caccia turco. Ma che cosa ha spinto la Siria a un gesto che può costare caro? La prima risposta è che pensavano potesse essere un jet israeliano. La seconda è che sia un monito disperato agli altri avversari. Da mesi sono segnalati voli da parte di droni americani, aerei spia U2 e velivoli turchi che sgancerebbero strani «oggetti elettronici». Missioni per tenere d’occhio l’esercito di Assad che si aggiungono all’appoggio agli insorti. In Turchia — dove ci sono 32 mila profughi—hanno rifugi e centri di coordinamento. Il regime ha voluto lanciare un messaggio? E’ un’ipotesi. Se volevano potevano evitare di sparare. La distruzione del caccia è forse anche un modo per rimediare al colpo della fuga del colonnello a bordo di unMig e ricompattare i ranghimentre si moltiplicano sussurri su defezioni importanti. La tesi di Damasco potrebbe anche nascondere manovre all’interno del regime. Siamo nella terra degli intrighi. Una terra dove c’è spazio anche per il ruolo di Mosca. I russi hanno una stazione radar (e d’ascolto) a Kessab, base che «guarda» verso la Turchia e decine di consiglieri militari si occupano dei missili siriani. Possibile che abbiano lasciato fare? Mosca appoggia il regime ma non le avventure. Il punto è che nel conflitto — marcato ieri da altre stragi—tutti hanno qualcosa da nascondere.
Guido Olimpio
LA GIUNTA MILITARE COSTRUISCE A RALLENTATORE IL GOLPE
I militari egiziani minacciano la piazza
Le decine di migliaia di persone che hanno rioccupato Tahrir, le pressioni esplicite degli Usa e dell’Europa che per la prima volta hanno messo in guardia la Giunta, il compromesso che pare raggiunto tra i Fratelli musulmani e i generali starebbero finalmente per mettere fine al caos seguito alle presidenziali di domenica. Il nuovo raìs, ha reso noto la tv di Stato, sarà proclamato oggi. E sarà, sostengono molte fonti, Mohammed Morsi. Il candidato della Fratellanza aveva già annunciato la vittoria dopo la chiusura dei seggi, i giudici indipendenti avevano poi confermato il risultato. Ma lo sfidante Ahmed Shafiq, ultimo premier di Mubarak, ha continuato a contestarlo. Soprattutto, i militari al potere da un anno e mezzo non lo hanno riconosciuto, ritardando l’annuncio. Insieme allo scioglimento del Parlamento a maggioranza islamica e al decreto che concentra enormi poteri sulla Giunta, l’evidente resistenza di quest’ultima ad ammettere un raìs islamico ha creato un clima tesissimo, accresciuto dalle voci più allarmistiche: tra le tante, quella della «morte» di Mubarak, mai avvenuta e nemmeno sfiorata. La protesta a Tahrir, ancora in corso, è ben diversa da quella di un anno e mezzo fa. Questa volta è guidata dagli islamici, Fratelli e salafiti. Alcuni giovani della Rivoluzione e liberali l’hanno appoggiata ma in piazza ieri erano essenzialmente uomini barbuti a urlare «abbasso la Giunta», «oh nostra patria», qualche «Allahu Akbar» e «Morsi presidente». Non ci sono state violenze, ma il segnale era chiaro: i vertici della Fratellanza si sono impegnati a mantenere pacifiche le proteste ma la piazza, hanno avvertito, può sfuggire anche a loro. I veri giochi però sono dietro alle quinte, non a Tahrir. Con la minaccia di una rivolta islamica (e non solo) e le pressioni degli Usa, la Giunta ha dovuto trattare con la Fratellanza. Con la minaccia di far vincere Shafiq, la Fratellanza è stata costretta, o così pare, ad accettare molti limiti per avere il suo presidente. Quest’ultima ha poi dovuto trattare con la parte della Rivoluzione che ha appoggiato Morsi pur di battere Shafiq. Ieri Morsi ha così tenuto una conferenza stampa dove per la prima volta non si è detto vincitore, ha riconosciuto il «patriottismo» dei militari pur criticandone «recenti errori». Ha detto che «se sarà eletto» formerà un governo di unità nazionale. Al suo fianco c’erano il capo dei giovani Ahmed Maher, il noto editorialista Hamdi Qandil e l’attivista Wael Ghoneim, tre leader laici della Rivoluzione. E con lui da vicepresidenti dovrebbero trovare posto due aspiranti raìs, sconfitti ma con molti voti: il nasseriano Hamdin Sabahi e l’ex Fratello Abul Futuh. Anche il Nobel Mohammed El Baradei potrebbe avere un ruolo, forse di «mediatore». Ancora una volta nulla è certo fino all’ultimo nel più importante Paese arabo. E la Giunta ha ribadito ieri che agirà «con estrema fermezza» contro ogni tentativo di destabilizzare l’Egitto. Ma pare si sia rassegnata, se non convinta, ad accettare Morsi come il male minore. Un annuncio diverso, oggi, avrebbe conseguenze ben più gravi.
Cecilia Zecchinelli
Migliaia a piazza Tahrir contro i militari
Ma il Consiglio promette il pugno duro
IL CAIRO - Decine di migliaia di persone scese nuovamente in piazza 1Tahrir al Cairo per manifestare contro la riforma costituzionale varata la scorsa settimana dal Consiglio militare. Alla massiccia presenza dei dimostranti, affluiti verso la piazza simbolo della primavera araba, i militari hanno reagito con durezza: "Affronteremo tutti i tentativi di mettere a rischio il paese con la più grande fermezza e forza", hanno messo in guardia, mentre la tensione nel Paese sale alle stelle.
I Fratelli musulmani e altre forze politiche hanno chiamato la gente in piazza dopo la preghiera del venerdì
per una nuova protesta contro il "colpo di Stato" dello scioglimento del parlamento egiziano 2, ispirato dai militari. A centinaia hanno dormito accampati, mentre il paese attende nervosamente i risultati ufficiali del ballottaggio delle presidenziali.
In un comunicato diffuso dal Consiglio militare egiziano letto alla televisione di Stato i militari promettono di usare il pugno duro contro chi, dicono, minaccia di mettere a rischio il paese e difendono quello che per i manifestanti invece è un golpe: la dichiarazione costituzionale, sostengono, è "una necessità imposta dalle condizioni della gestione del Paese in questo periodo critico". E se la prendono con i candidati alle presidenziali per aver annunciato prematuramente la loro vittoria, creando divisioni politiche e confusione. La dichiarazione anticipata dei risultati delle presidenziali egiziane è "completamente ingiustificata ed è una delle ragioni della divisione attuale", si sostiene nel comunicato.
Essam El-Erian, numero 2 del partito Giustizia e Libertà, espressione dei Fratelli Musulmani, ha dichiarato che il sit-in continuerà fino a quando non sarà reinsediato il Parlamento uscito dalle elezioni svoltesi a cavallo tra fine 2011 e inizio 2012. I Fratelli rivendicano con forza la vittoria del loro candidato Mohammed Morsi e sono impegnati in colloqui con gli altri movimenti laici sulla crisi politica in corso. Dal canto suo, anche il rivale Ahmed Shafiq, ex premier sotto Mubarak, si dice vincitore 4.
Le tensioni si sono acuite dopo che il Supremo consiglio delle forze armate, che governa il paese dalla caduta di Hosni Mubarak, ha preso il controllo del potere legislativo, approfittando della decisione della Corte suprema del Cairo di sciogliere il parlamento, in cui i Fratelli musulmani avevano la maggioranza.
Le decine di migliaia di persone che hanno rioccupato Tahrir, le pressioni esplicite degli Usa e dell’Europa che per la prima volta hanno messo in guardia la Giunta, il compromesso che pare raggiunto tra i Fratelli musulmani e i generali starebbero finalmente per mettere fine al caos seguito alle presidenziali di domenica. Il nuovo raìs, ha reso noto la tv di Stato, sarà proclamato oggi. E sarà, sostengono molte fonti, Mohammed Morsi. Il candidato della Fratellanza aveva già annunciato la vittoria dopo la chiusura dei seggi, i giudici indipendenti avevano poi confermato il risultato. Ma lo sfidante Ahmed Shafiq, ultimo premier di Mubarak, ha continuato a contestarlo. Soprattutto, i militari al potere da un anno e mezzo non lo hanno riconosciuto, ritardando l’annuncio. Insieme allo scioglimento del Parlamento a maggioranza islamica e al decreto che concentra enormi poteri sulla Giunta, l’evidente resistenza di quest’ultima ad ammettere un raìs islamico ha creato un clima tesissimo, accresciuto dalle voci più allarmistiche: tra le tante, quella della «morte» di Mubarak, mai avvenuta e nemmeno sfiorata. La protesta a Tahrir, ancora in corso, è ben diversa da quella di un anno e mezzo fa. Questa volta è guidata dagli islamici, Fratelli e salafiti. Alcuni giovani della Rivoluzione e liberali l’hanno appoggiata ma in piazza ieri erano essenzialmente uomini barbuti a urlare «abbasso la Giunta», «oh nostra patria», qualche «Allahu Akbar» e «Morsi presidente». Non ci sono state violenze, ma il segnale era chiaro: i vertici della Fratellanza si sono impegnati a mantenere pacifiche le proteste ma la piazza, hanno avvertito, può sfuggire anche a loro. I veri giochi però sono dietro alle quinte, non a Tahrir. Con la minaccia di una rivolta islamica (e non solo) e le pressioni degli Usa, la Giunta ha dovuto trattare con la Fratellanza. Con la minaccia di far vincere Shafiq, la Fratellanza è stata costretta, o così pare, ad accettare molti limiti per avere il suo presidente. Quest’ultima ha poi dovuto trattare con la parte della Rivoluzione che ha appoggiato Morsi pur di battere Shafiq. Ieri Morsi ha così tenuto una conferenza stampa dove per la prima volta non si è detto vincitore, ha riconosciuto il «patriottismo» dei militari pur criticandone «recenti errori». Ha detto che «se sarà eletto» formerà un governo di unità nazionale. Al suo fianco c’erano il capo dei giovani Ahmed Maher, il noto editorialista Hamdi Qandil e l’attivista Wael Ghoneim, tre leader laici della Rivoluzione. E con lui da vicepresidenti dovrebbero trovare posto due aspiranti raìs, sconfitti ma con molti voti: il nasseriano Hamdin Sabahi e l’ex Fratello Abul Futuh. Anche il Nobel Mohammed El Baradei potrebbe avere un ruolo, forse di «mediatore». Ancora una volta nulla è certo fino all’ultimo nel più importante Paese arabo. E la Giunta ha ribadito ieri che agirà «con estrema fermezza» contro ogni tentativo di destabilizzare l’Egitto. Ma pare si sia rassegnata, se non convinta, ad accettare Morsi come il male minore. Un annuncio diverso, oggi, avrebbe conseguenze ben più gravi.
Cecilia Zecchinelli
Migliaia a piazza Tahrir contro i militari
Ma il Consiglio promette il pugno duro
IL CAIRO - Decine di migliaia di persone scese nuovamente in piazza 1Tahrir al Cairo per manifestare contro la riforma costituzionale varata la scorsa settimana dal Consiglio militare. Alla massiccia presenza dei dimostranti, affluiti verso la piazza simbolo della primavera araba, i militari hanno reagito con durezza: "Affronteremo tutti i tentativi di mettere a rischio il paese con la più grande fermezza e forza", hanno messo in guardia, mentre la tensione nel Paese sale alle stelle.
I Fratelli musulmani e altre forze politiche hanno chiamato la gente in piazza dopo la preghiera del venerdì
per una nuova protesta contro il "colpo di Stato" dello scioglimento del parlamento egiziano 2, ispirato dai militari. A centinaia hanno dormito accampati, mentre il paese attende nervosamente i risultati ufficiali del ballottaggio delle presidenziali.
In un comunicato diffuso dal Consiglio militare egiziano letto alla televisione di Stato i militari promettono di usare il pugno duro contro chi, dicono, minaccia di mettere a rischio il paese e difendono quello che per i manifestanti invece è un golpe: la dichiarazione costituzionale, sostengono, è "una necessità imposta dalle condizioni della gestione del Paese in questo periodo critico". E se la prendono con i candidati alle presidenziali per aver annunciato prematuramente la loro vittoria, creando divisioni politiche e confusione. La dichiarazione anticipata dei risultati delle presidenziali egiziane è "completamente ingiustificata ed è una delle ragioni della divisione attuale", si sostiene nel comunicato.
Essam El-Erian, numero 2 del partito Giustizia e Libertà, espressione dei Fratelli Musulmani, ha dichiarato che il sit-in continuerà fino a quando non sarà reinsediato il Parlamento uscito dalle elezioni svoltesi a cavallo tra fine 2011 e inizio 2012. I Fratelli rivendicano con forza la vittoria del loro candidato Mohammed Morsi e sono impegnati in colloqui con gli altri movimenti laici sulla crisi politica in corso. Dal canto suo, anche il rivale Ahmed Shafiq, ex premier sotto Mubarak, si dice vincitore 4.
Le tensioni si sono acuite dopo che il Supremo consiglio delle forze armate, che governa il paese dalla caduta di Hosni Mubarak, ha preso il controllo del potere legislativo, approfittando della decisione della Corte suprema del Cairo di sciogliere il parlamento, in cui i Fratelli musulmani avevano la maggioranza.
lunedì 18 giugno 2012
SIRIA
La coscienza dell' Occidente e il mattatoio di Damasco
MI AUGURO che un giorno Bashar al-Assad, non più presidente, compaia davanti alla Corte penale internazionale per rispondere dell' accusa di crimini contro l' umanità. Le violenze a opera di altre forze nel conflitto che ormai in Siria ha assunto le caratteristiche di guerra civile non possono sminuire le sue responsabilità. Va ricordato che tutto è iniziato sotto forma di manifestazioni non violente, nel miglior stile della vera Primavera araba. Assad avrebbe potuto rispondervi attuando importanti riforme, di cui ha accarezzato l' idea: aprire negoziati, oppure consentire una transizione pacifica con una onorevole e soddisfacente uscita di scena per sé e per la sua famiglia. Ha scelto invece di mantenere il potere ricorrendo ad una brutale repressione, come già suo padre prima di lui, arrivando a bombardare indiscriminatamente la popolazione civile. Mentre la sua elegantissima moglie, Asma, educata in Gran Bretagna, falcava pavimenti di marmo sui tacchi delle sue Christian Louboutin i soldati e i feroci miliziani di Assad massacravano donne e bambini innocenti nella polvere. L' opposizione popolare in Siria si è mantenuta rigorosamente non violenta di fronte alla spietata repressione, poi ha perduto la disciplina. Le defezioni dall' esercito e le armi provenienti dall' esterno l' hanno trasformata dapprima in insurrezione armata. Poi l' hanno fatta diventare una guerra civile, con il regime assediato, l' opposizione spaccata, alawiti, sunniti e rispettivi sostenitori esterni tutti impegnati in un conflitto complesso, a tratti torbido. La rivoltante novità è che oltre a massacrare i civili, l' esercito e la milizia hanno usato i bambini come scudi umani. Anche alcuni ribelli avrebbero reclutato minorenni nelle loro fila. Ma come ha dichiarato lo stesso Assad in un' intervista televisiva prima che tutto avesse inizio, la responsabilità di ciò che accade in Siria è la sua. Se non avesse scelto la via della repressione il suo Paese non sarebbe arrivato alla guerra civile. Forse Assad ha pianto, in privato, sulla spalla profumata di Asma, io lo vedo come un uomo debole che cerca di esser forte. Ma, come ha scritto W. H. Auden invertendo i verbi di una frase famosa, "quando pianse, i bambini morivano per strada". Come è logico si levano sempre più alti gli appelli all' intervento per porre fine alla carneficina. In un discorso tenuto in aprile al Museo dell' Olocausto di Washington, Elie Wiesel si è chiesto se la storia ci abbia insegnato qualcosa, «se sì, come mai Assad è ancora al potere?», ha aggiunto. Se l' unico requisito necessario a giustificare l' intervento umanitario fosse il numero di morti e feriti trai civili innocenti, la Siria lo avrebbe soddisfatto. Ma la teoria della responsabilità di proteggere, approvata dall' Onu, ossia il sistema più rigoroso ed equo di cui disponiamo oggi per riflettere su questo genere di sfide, prevede che l' azione abbia prospettive ragionevoli di successo. L' intervento è attuabile se, sulla base di una valutazione informata, è verosimilmente in grado di migliorare la situazione nel Paese in oggetto. Questo requisito ahimè non è soddisfatto dalla Siria. Bernard-Henri Levy potrà anche sentenziare disinvoltamente che l' intervento è «realizzabile e possibile», ma cosa ne sa? Il problema non è limitato alle dimensioni, agli armamenti e al livello di addestramento delle forze di repressione di Assad, e alle fratture regionalie settarie interne al Paese. Esiste anche un coinvolgimento diretto di potenze regionali e globali che appoggiano apertamente o meno le varie parti in lotta nella guerra civile. È chiarissimo che l' Iran sciita e la Russia putinista sostengono direttamente il regime di Assad, simpatizzando con la sua base alawita, mentre le potenze sunnite, come l' Arabia Saudita e il Qatar, armerebbero i ribelli. Il russo rispondeva a Hillary Clinton che ha accusato il suo Paese di fornire elicotteri d' attacco al regime di Assad. Nel frattempo gli appelli all' intervento si fanno sempre più insistenti in seno al congresso e sui media americani, ma non al Pentagono, che procede a una lucida analisi delle possibili implicazioni. È facile che un intervento umanitario ai minimi termini possa trasformarsi in un' occupazione travagliata e prolungata, o addirittura in una sorta di guerra per procura. Al contempo le opzioni puramente politiche finora ipotizzate appaiono deboli o irrealizzabili. Il piano di pace di Kofi Annan è andato in fumo. Un inasprimento delle sanzioni contro la famiglia Assad e i suoi accoliti potrebbe portare ad un crollo degli ordini via internet di scarpe Christian Louboutin, ma non fermerà un dittatore con le spalle al muro, che lotta per evitare di fare la fine di Gheddafi. C' è chi propone un fronte popolare interno per la pace in Siria, che veda la stretta collaborazione tra Usa e Arabia Saudita, Iran e Russia. È un' ipotesi probabile quanto un matrimonio tra il papa e Madonna (la popstar). L' idea di un' opposizione siriana più coesa, che si impegni per una transizione non violenta e negoziata, è valida per il passato e per il futuro, ma non è una soluzione per il presente nel bel mezzo di una guerra civile. La posizione della Russia sulla Siria è scioccante, menzognera e indifendibile. I russi hanno più volte bloccato le iniziative tese ad ottenere dall' Onu misure più drastiche per la soluzione del conflitto, ricorrendo ad argomentazioni ipocrite che non celano l' interesse nazionale russo a mantenere un punto d' appoggio militare, economico e politico in Medio Oriente. Sono stati i russi ad addestrare l' esercito siriano che massacra i civili e oggi, se va dato credito alla Clinton, forniscono elicotteri d' attacco per aiutare gli uomini di Assad a uccidere ancora. Non si vergognano? Domanda inutile nel caso della Russia di Putin. Non hanno altri interessi nazionali che in fin dei conti potrebbero contare di più? Questa invece è una domanda utile. Se davvero vogliamo fermare la carneficina in Siria noi in Occidente dobbiamo riflettere su come usare al meglio il bastone e la carota , anche a nostre spese, per far cambiare atteggiamento ai russi. La via di Damasco passa per Moscae la conversione di Putin non sarà opera di nessun Dio.
Timothy Garton Ash
sabato 16 giugno 2012
I TENTATIVI DI GOLPE IN EGITTO, SOGNI AD OCCHI APERTI DEGLI PSEUDO DEMOCRATICI DI CASA NOSTRA
Nel probabile tentativo di bloccare il secondo turno delle elezioni presidenziali egiziane, la corte suprema egiziana, quasi certamente ispirata da quei componenti delle forze armate che sperano con un golpe di bloccare l'irreversibile processo in atto nel paese egiziano, ha annullato le elezioni del parlamento accampando l'incostituzionalità della legge che ne regola lo svolgimento.
Come al solito in Italia vi è stato chi ha visto recepite le preghiere che invocavano, senza confessarlo esplicitamente, un "ritorno all'ordine", e cioè alla dittatura nel più grande paese musulmano del Mediterraneo. Fortunatamente ci sono stati anche giornalisti che, per intima condizione e per pudore o decenza, non sono stati così smaccatamente entusiasti per l'eventualità.
Riportiamo così due di questi articoli e poi, come titolo di perenne vergogna per la giornalista che l'ha scritto, un florilegio di sciocchezze che sembrano ispirate dalla penna di Oriana Fallaci.
LA TRINCEA DEI GENERALI
NELLE rivoluzioni quel che è accaduto nelle ultime ore al Cairo si chiama di solito un tentativo di restaurazione.
O più brutalmente un golpe. Un colpo di Stato "legale", perché attuato con decreti emessi dalla Corte costituzionale, dicono i più puntigliosi. O più semplicemente una mossa controrivoluzionaria, promossa dai generali. Per la società militare egiziana la democrazia equivale a un suicidio, significa la perdita di un potere che si estende all'economia, alla finanza, alla giustizia, alla polizia e alla politica estera, in quanto garante degli accordi di Camp David con Israele. Quindi, alla vigilia di una elezione presidenziale (prevista per questo week end, il 16e il 17 giugno) che rischia o rischiava di esautorarli, i generali hanno sciolto il Parlamento.
EHANNO creato le condizioni per facilitare l'ascesa alla massima carica dello Stato di un autorevole collega in pensione, l'ex generale Ahmed Shafiq. La Corte costituzionale che ha decretato lo scioglimento del Parlamento è ancora quella nominata dall'ex rais, Hosni Mubarak, appena condannato all'ergastolo. Come del resto sono stati nominati da Mubarak i componenti del Supremo comando delle Forze armate, nelle cui mani risiede il vero potere, e al quale i giudici dell'Alta Corte devono obbedienza. E sempre un uomo dell'ergastolano Mubarak è il generale Shafiq, il quale è stato il suo ultimo primo ministro. Il tentativo di restaurare sostanzialmente il vecchio regime, sia pure in modo gattopardesco (cambiando perché nulla cambi) è evidente. Hosni Mubarak, nelle ultime ore dato per moribondo nella prigione militare in cui è rinchiuso, è stato sacrificato dai suoi compagni d'arme, nel febbraio 2011, per placare la rivoluzione. Ma egli resta un punto di riferimento, in quanto espressione della casta militare. Ci si chiede adesso come reagirà piazza Tahrir, ossia la rivoluzione rimasta ai margini dello scontro tra militari e Fratelli musulmani, questi ultimi dominanti nel Parlamento, insieme ai Salafiti, gli integralisti islamici.
L'elezione del Parlamento, avvenuta in condizioni democraticamente accettabili nella primavera scorsa, costituiva una minaccia per il potere militare.
L'imminente nomina, altrettanto democratica, del capo dello Stato significherebbe l'esautorazione del Supremo consiglio delle Forze armate (Scaf) incaricato di gestire la transizione tra la destituzione del rais e il promesso avvento della democrazia. Bisognava dunque azzerare il Parlamento dichiarando incostituzionale la sua elezione. Il pretesto è stato trovato nel doppio sistema di scrutinio, in parte uninominale e in parte alla proporzionale.
Due procedure ritenute illegali perché non avrebbero garantito identici diritti ai candidati. La Corte costituzionale ha così tolto di mezzo gli eletti, disarmati ma forti dei loro mandati e quindi in grado di infastidire i generali. Anche grazie alla capillare organizzazione dei Fratelli musulmani, la cui espressione parlamentare era il Partito della libertà e della giustizia. I deputati avevano già affrontato i generali dichiarando ineleggibili i ministri e i gerarchi del passato regime. La legge colpiva direttamente il generale Shafiq, il quale poteva essere escluso dal ballottaggio con l'esponente dei Fratelli musulmani, Mohammed Morsi, un eventuale capo dello Stato scomodo per i militari. La Corte costituzionale ha scavalcato la legge del Parlamento e ha deciso che Shafiq potrà concorrere per la presidenza della Repubblica. Ma si è forse dimenticata, almeno per ora, di sciogliere l'Assemblea costituente, formata in gran parte da membri del Parlamento giudicato illegale. Quindi la suddetta Corte costituzionale esercita la sua funzione sulla base dei principi del vecchio regime, non essendo neppure cominciati i lavori per la nuova promessa Costituzione democratica. In sostanza il potere resta nelle mani dei generali e il nuovo presidente, se verrà eletto, dipenderà da loro.
Le mosse ora precipitose ora tardive dei militari rivelano la grande confusione che regna negli stati maggiore e nelle caserme. Ed è un'indecisione che apre uno spazio di manovra ai movimenti democratici, laicio religiosi, di piazza Tahrir. Nel primo turno delle elezioni i loro candidati, il giornalista Hamden Sabahi e il musulmano moderato Abdel Moneim Abul Fotouh sono arrivati a ridosso dei primi due, del fratello musulmano Morsi e del generale Shafiq. Uniti li avrebbero superati. Essi non sono comunque usciti di scena e nelle ultime ore sono comparsi in piazza Tahrir, con l'intenzione di creare un "comitato presidenziale" incaricato di sorvegliare lo svolgimento dell'elezione di sabato e domenica prossimi. Li ha raggiunti Morsi, il fratello musulmano, appena è arrivata la notizia dello scioglimento del Parlamento. Si è dunque formata un'opposizione ai militari molto ampia. La dinamica accesa dai moti insurrezionali del febbraio 2011 non si è del tutto fermata.
I militari non vogliono perdere il potere, a tratti esitano, danno l'impressione di assecondare la svolta democratica, temono il giudizio degli americani (dai quali ricevono un sostanziale aiuto in dollari e in armi), ma al momento delle scelte indietreggiano, rinnegano gli impegni, o compiono precipitose fughe in avanti. Si considerano una forza laica capace di arginare l'ondata islamica, provocata dal successo elettorale dei moderati Fratelli musulmani e dei salafiti integralisti, e contano su una parte della popolazione intimorita dalla svolta religiosa e dalle punte di fanatismo. Sia pur approssimativi, e probabilmente non del tutto attendibili, i sondaggi davano negli ultimi giorni alla pari i due finalisti delle presidenziali: il generale e il musulmano. Ma l'astensione di protestaè molto ampia e quindi quelle indagini d'opinione non riflettono gli umori del paese. Oltre che sul timore che ispirano i musulmani in alcuni strati della società, i militari contano sulla crisi economica e il desiderio di un ritorno all'ordine.
Per ora hanno deciso di non rinviare il voto. Ma se avverrà sul serio non mancherà la protesta. E non sarà facile arginarla. La restaurazione è stata tentata, ma non è detto che la "Primavera araba" sia morta in Egitto. La provocazione può ridarle energia.
Bernardo Valli
Nell'Egitto che torna in piazza: "Avete sciolto il parlamento, questo è un nuovo golpe"
IL CAIRO - Quindici mesi dopo, la rivoluzione egiziana sembra tornata al punto di partenza. «Ladri», urlano le centinaia di manifestanti fuori della Corte Suprema lungo la Corniche El Nil, incuranti del sole impietoso che brucia anche il respiro, all'indirizzo dei giudici che hanno appena dichiarato decaduto il Parlamento dominato dagli islamisti e dichiarato eleggibile Ahmad Shafiq, l'ultimo premier di Hosni Mubarak, alle presidenziali di sabato e domenica prossima.
Il palazzo che ospita l'Alta Corte è incartato nel filo spinato e i blindati dell'esercito tengono a distanza la folla. Urla. Maledizioni. Un vecchio agita verso gli impassibili soldati le scarpe e mostra la suola dove ha incollato la foto di Shafiq e di Mubarak, il massimo segno di disprezzo per un arabo. Ma nessun tentativo di forzare il blocco, nessuna violenza. Perché lo schieramento in divisa è impressionante e perché la Fratellanza Musulmana ha dato ordini chiari: nessun incidente deve turb a r e q u e s t i giorni che precedono le elezioni. La Confraternita e il suo candidato Mohammed Morsi pensano di avere la vittoria in tasca, annunciano che riconosceranno solo il voto che porterà questo ingegnere, senza nessuna esperienza né parlamentare né di governo, alla guida del più popoloso e influente Paese del Medio Oriente. Non mancano le voci che nella dirigenza della Fratellanza denunciano la decisione della Corte come «un golpe strisciante» e passeranno cinque lunghe ore - con il Politbjuro islamista riunito per decidere come reagire alle due sentenze che rimescolano completamente le carte - prima che Mohammed Morsi annunci in serata che «le decisioni della Corte vanno rispettate» e confermando la sua candidatura al voto che si apre tra meno di 24 ore. Ma il potere di fatto è tornato nelle mani della Giunta militare.
È stato certamente un boccone amaro da deglutire per Morsi lo scioglimento del Parlamento, per vizio di alcuni articoli della legge elettorale, dominato dal suo Partito e dai salafiti di "Al Nour". Certo la Camera in questi mesi non ha dato una grande prova di sé, per l'inconsistenza del dibattito politico, per l'insensatezza delle proposte di legge, incapace di designare una Assemblea Costituente, mentre l'Egitto continuava a scivolare in una transizione post-Mubarak segnata più volte dal sangue, dalla violenza, dalle stragi.
La seconda sentenza ha scaldato gli animi degli islamisti anche più della prima. La Corte ha giudicato illegittimo il provvedimento che escludeva dalla vita politica gli esponenti dell'ex regime, come appunto Ahmed Shafiq, che nel ballottaggio di domanie domenica sfiderà Mohammed Morsi. Dopo la sentenza la corsa presidenziale di Shafiq è senza ostacoli, le intenzioni di voto lo danno in crescita costante. La Fratellanza con le proposte sulla sharia, il ruolo preminente della religione nella società, ha allarmato molti musulmani moderati, i laici e la minoranza cristiana, vede i suoi consensi scendere.
Poco dopo l'annuncio della Corte in una conferenza stampa fra sostenitori entusiasti, che si è aperta sulle note dell'inno egiziano Shafiq commentava: «È una giornata storica, perché è storica la sentenza della Corte Costituzionale che chiude l'era della resa dei conti». Una sua possibile vittoria alle elezioni presidenziali sarebbe stata inconcepibile appena un anno fa con quel fervore anti-regime che animava l'Egitto. È stato l'ultimo primo ministro del Faraone, investito quando ormai la rivolta divampava e licenziato dalla Giunta militare solo due settimane più tardi. Ma l'ex comandante dell'Aviazionee amico personale di Mubarak, sta raccogliendo ampi consensi. Ha fatto una campagna elettorale apertamente come candidato anti-rivoluzione, puntando sulla sicurezzae stabilità, cercando i voti di quegli egiziani esasperati dai continui disordini e dalla disastrosa situazione economica in cui versa l'Egitto dopo la sua "Primavera" e spaventati dalle proposte islamiste.
Sospesi tra lo spettro di un passato che potrebbe tornare e un salto nel vuoto verso l'islamizzazione, oltre cinquanta milioni di egiziani sono chiamati alle urne da domani in un clima «da film di Bollywood», dice Raghed Mohammed, leader del Movimento 6 aprile, che ha svolto un ruolo preminente durante la rivoluzione di gennaio. Il primo turno è stato dominato dall'astensione e poco meno di 13 milioni hanno espresso voti validi. Il risultato premiò Morsi con il 25 per cento seguitoa ruota da Shafiq con il 24; il 22 andò a un candidato della sinistra, il nasseriano Hamdeen Sabbahi, il 18 a un ex Fratello Musulmano, islamico moderato, Abdel Aboul Fotouh, e l'11 per cento ad Amr Mussa, al quale sondaggi risultati inattendibili attribuivano una concreta possibilità di vittoria. Per il secondo turno resta l'incognita se l'astensionismo, che la commissione elettorale ha rilevato a poco meno del 60 per cento nel primo, terrà ancora lontano dalle urne molta parte del popolo egiziano o se gli avvenimenti delle ultime ore indurranno una partecipazione più sostenuta. A favore di questa seconda possibilità potrebbero contribuire tanto un maggior impegno nel raccogliere voti per Morsi da parte della potente confraternita dei Fratelli Musulmani, quanto un risvegliato interesse di tutti coloro che rifiutano la prospettiva di uno Stato guidato da un presidente dalla forte caratterizzazione islamica, e per scongiurare questo sono pronti a votare per l'ex premier di Mubarak.
Dello "spirito" di Piazza Tahrir è rimasto ben poco. Ieri sera poche centinaia di manifestanti si sono riversati nel luogo simbolo della rivoluzione per protestare contro le sentenze. La gente è arrivata in piazza alla rinfusa, senza che ci fosse una convocazione da parte dei gruppi di attivisti, mandando in tilt l'intera zona, tra ingorghi e lunghe file di auto. La piccola folla ha lanciato soprattutto slogan religiosi. Non c'era il popolo di Facebook, non c'erano i ragazzi delle università, gli avvocati e gli ingegneri, i medici e le donne, che hanno animato per mesi la Piazza con la loro presenza, con le loro speranze, dandole un'anima che adesso non c'è più. «L'egoismo dei partiti e delle Confraternite ci ha fatto perdere la rivoluzione», dice scura in volto Sally Torna, leader della Coalizione dei giovani rivoluzionari, «e adesso hanno perso anche loro».
Fabio Scuto
Come esempio di articolo di impronta "fallaciana" vogliamo citare un articolo pubblicato dal Corriere della Sera a firma di Cecilia Zecchinelli.
L’Egitto torna in mano ai militari
Una doppia sentenza dell’Alta Corte Costituzionale sembra aver messo fine in pochi minuti al sogno di potere dei Fratelli musulmani e alla paura del mondo di un nuovo Califfato sulle rive del Nilo. Ma ha anche cancellato, secondo molti egiziani, la Rivoluzione più importante e in apparenza vittoriosa delmondo arabo, i 16 mesi di «transizione » difficile ma tollerata perché premessa di democrazia, le speranze di chi vedeva l’era Mubarak chiusa per sempre. La cautela è necessaria nell’immaginare cosa accadrà in un Paese che ha finora smentito ogni previsione. Di certo c’è comunque che ieri i 18 membri del massimo tribunale egiziano, riuniti nell’edificio neofaraonico di Maadi tra filo spinato, blindati e agenti antisommossa, hanno riscombinato ogni gioco. «Incostituzionale», secondo il loro giudizio inappellabile, è infatti il Parlamento eletto in inverno dove la Fratellanza e i salafiti controllano quasi il 70 per cento dei seggi. Un terzo dei candidati avrebbe dovuto essere scelto tra gli «indipendenti», mentre molti erano uomini di partito: l’intera Assemblea è da ieri sciolta e nuove elezioni si terranno in autunno. E difficilmente i partiti islamici avranno ancora così tanti voti. «Incostituzionale» è anche la legge che avrebbe proibito all’ex generale e ultimo premier di Mubarak, Ahmed Shafiq, di presentarsi al ballottaggio in programma domani e dopo per nominare il nuovo raìs, proprio perché colluso con il regime abbattuto. Dato per favorito contro il candidato dei Fratelli musulmani Mohammed Morsi—che al primo turno in maggio si era piazzato primo per pochi voti—Shafiq si troverà presidente di un Paese senza Costituzione né Parlamento. Restano in carica il Senato, ma con ben poco potere, e il governo, dove però si prevede presto un rimpasto. E resta fermamente in controllo del Paese la Giunta guidata dal maresciallo Hussein Tantawi. Nel caso, meno probabile, di una vittoria di Morsi lo scenario non è comunque più semplice. Avversati dai militari, dai cristiani, dallo «Stato profondo» dei burocrati, dal business, da molti laici e perfino da alcuni integralisti islamici, i Fratelli musulmani e il loro raìs si troverebbero soli. «Rispettiamo la decisione della Corte», ha dichiarato Morsi, smentendo le voci di un suo ritiro dal ballottaggio. Ma, nella notte, ha sostenuto che le sentenze indicano che «qualcuno trama contro l’Egitto», accusando i «criminali del regime di Mubarak» ancora al potere. Alti dirigenti della Fratellanza hanno quindi accusato la Giunta e i giudici di «colpo di Stato» e previsto che il Paese entrerà in «un tunnel oscuro se il Parlamento sarà davvero dissolto» (e lo sarà). Di golpe ha parlato chiaramente Abdel Moneim Abul Futuh, islamico moderato ed ex Fratello, battuto al primo turno in maggio: «Non solo per i due verdetti ma per la legge che permette ai militari di arrestare i civili», ha spiegato riferendosi a una norma approvata tre giorni fa senza clamore, che di fatto reintroduce le leggi d’emergenza appena abolite. Mohammed ElBaradei, il premio Nobel amato dalla Rivoluzione ma ritiratosi dalle presidenziali, ha definito la situazione dell’Egitto — un raìs senza Costituzione né Parlamento — come «degna della peggiore dittatura». E commenti simili sono arrivati dai blog, dalle tv, da tutti gli indignati. Da quelli che non pensano, come Shafiq, che ieri la Corte abbia invece emesso «due sentenze storiche ». Una parte dell’Egitto che però non è maggioritaria, ed è comunque estenuata: mentre si moltiplicavano le promesse di nuove proteste oceaniche, la piazza simbolo della Rivoluzione, Tahrir, ieri sera era vuota.
Cecilia Zecchinelli appartiene di diritto a quella categoria di giornalisti che confondono gli avvenimenti con le loro intime aspirazioni. La giornalista è fra coloro che considerano l'Islam la sentina di tutti i mali e l'Occidente il più fulgido esempio di democrazie realizzate. Se in qualche parte del mondo una forza politica non europea ne americana vince alla grande libere elezioni senza brogli e con una entusiasmante partecipazione di popolo come è stato nelle elezioni legislative egiziane, e i militari, colonnelli o generali, fanno un bel golpe, la democrazia occidentale è ugualmente in marcia. Per la Zecchinelli i Fratelli Musulmani che ella pervicacemente seguita a chiamare "Islamisti" o "Fondamentalisti Islamici", un golpe organizzato dai fedeli di quel ladrone assassino che un tribunale egiziano ha condannato a morte per tutto quel che ha combinato da ultra-trentennale dittatore, è sicuramente una vittoria per i democratici, anche perché secondo quelli come lei, l'eventuale vittoria elettorale di forze politiche che, tutte assieme, non arrivano a raccogliere più del 20% dei voti, è il non-plus-ultra della vera democrazia rappresentativa.
L'argomento principe utilizzato dalla signora e da chi è come lei è che i Fratelli Musulmani farebbero ripiombare il mondo arabo e l'Islam in genere nel più profondo Medioevo. La stessa convinzione è espressa da scrittori di origine medio orientale tipo Cristiano Magdi Allam e il marocchino Tahar Ben Jelloun.
Questi personaggi sembrano dimenticare:
I - Ciò che noi chiamiamo Medioevo è stato per l'Islam l'epoca di massimo splendore e di massima fioritura culturale ed economica, non solo in medio oriente o in Egitto, ma anche in parti d'Europa come la Sicilia e la Spagna. Il sogno dei musulmani è quello che faceva negli anni della prima guerra mondiale lo sceicco hascemita Feisal: "Ma io sogno l'università araba di Toledo, i giardini di Palermo e i kilometri di illuminazione pubblica notturna di Cordoba";
II - Non c'erano nel Medioevo arabo mostruosità che somigliassero al Sant'Uffizio, all'Inquisizione e alla totale libertà di pensiero che hanno imperato in Europa fino alla Rivoluzione Francese; e non fa capo all'Islam la sequela di atrocità senza limite come le guerre di religione che hanno sconvolto l'Europa per oltre 200 anni, le 2 guerre mondiali e le prodezze delle camicie brune naziste e di quelle nere fasciste (e neppure lo sterminio di interi popoli e la tratta dei neri d'Africa);
III - Il Medioevo arabo è iniziato e si è affermato quando le potenze coloniali europee si sono avventate sui paesi musulmani come locuste affamate e hanno tolto a popolazioni di antichissima civiltà l'indipendenza politica la dignità culturale, la creatività e il senso della libertà. Da musulmani non possiamo che auspicare che uomini come Erdogan, i Fratelli Musulmani d'Egitto e il partito Ennahda, vincitore delle elezioni in Tunisia, restituiscano ai loro popoli lo splendore di un tempo, spazzando via dittatori e bande di pretoriani armati. Ci riusciranno perché Dio è il più Grande, Allahu Akbar.
Egitto, tra i fedeli che si ribellano al golpe “Reagiremo, la presidenza sarà di Morsi”
IL CAIRO — I bravi fedeli hanno messo giù i tappeti anche per strada invadendo la Main
Street di Giza, il centro urbano cresciuto attorno alle Piramidi e che è ormai inglobato
dall’avanzare del Cairo, che ogni anno attira mezzo milione di nuovi abitanti e allarga i suoi
slumfatti di fango e sabbia dove la Fratellanza musulmana ha la sua base elettorale. La piccola
moschea El Rahman non può ospitare tutti dentro, ogni venerdì la gente viene qui anche dai
centri vicini perché il verbo del Sayyed Ali Ben Hassa è suadente come una musica per le loro
orecchie. Un arabo morbido, dai toni pacati, che sa far breccia nel cuore del fedele. Il sermone
non tocca temi squisitamente politici in un Paese scosso dagli eventi delle ultime 24 ore come
lo scioglimento del Parlamento e la corsa alle presidenziali, ma è parallelo: verte sulla centralità
dell’Islam nella vita sociale. I commenti su quel che sta succedendo in Egitto in questi giorni
vengono fuori alla fine, quando i fedeli riavvolgono il tappeto da preghiera e si incamminano
verso i caffè più vicini.
«Si era capito fin dalla sentenza contro Mubarak che le cose non stavano andando per il verso
giusto », dice secco Nabil, che di mestiere fa l’ingegnere, «e lo scioglimento del Parlamento è
stato un golpe, molto soft ma sempre un golpe. Ma reagiremo, vinceremo le presidenziali e
anche quelle per la nuova Assemblea del popolo». Non ci sono dubbi nel popolo dei fedeli sulla
certa elezione di Mohammed Morsi — il candidato della Fratellanza musulmana — alla
presidenza. Nessuno parla delle aspettative o delle speranze nate da Piazza Tahrir, la libertà, la
democrazia, il cambiamento. Quella rivoluzione — a cui peraltro la Confraternita aderì
tardivamente
solo dopo la caduta di Mubarak — è stata lentamente sfiancata, erosa e alla fine soffocata dai
Partiti e dalle Confraternite, adesso viene esibita come un feticcio ogni volta che torna comodo.
Il movimento islamico adesso sostiene che «tutte le conquiste democratiche ottenute con la
rivoluzione potrebbero essere spazzate via con la salita al potere di uno dei simboli dell’era
precedente », Ahmad Shafiq, l’ultimo premier di Mubarak prima del crollo riammesso alla corsa
presidenziale per il voto di oggi e domani.
Il massimalismo della Fratellanza, il velo alle donne, la Sharia in tribunale, le spiagge del Mar
Rosso chiuse ai bagnanti in costume, il divieto di vendere alcolici, l’obbligo della preghiera negli
uffici pubblici e altre imposizioni di stile integralista, hanno spaventato l’elettorato islamico
moderato, i laici, la minoranza cristiana (10 milioni). Non ci sono sondaggi affidabili in Egitto —
è ancora troppo “giovane” il voto libero — ma i consensi per Morsi scendono, al primo turno ha
ottenuto quasi 5 milioni di voti, cioè metà di quelli che il suo partito ha aveva ricevuto solo 6
mesi prima alle legislative. Ahmad Shafiq invece vede i suoi consensi salire. Sicurezza,
stabilità, progresso, ha ripetuto come un mantra per tutta la campagna elettorale, e nel caos
istituzionale in cui si trova l’Egitto potrebbe essere un messaggio vincente. I giovani dei gruppi
che hanno animato la rivolta contro Mubarak solo un anno fa, sono stanchi, delusi, divisi. Come
se quella scintilla che li ha accesi e resi protagonisti della Storia si fosse persa adesso in buio
cosmico. C’è chi sostiene Morsi come il Movimento del 6 aprile e chi Shafik come i Giovani
della Rivoluzione.
Da oggi 52 milioni di egiziani vanno alle urne per scegliere il loro presidente tra un ingegnere
religiosissimo e un ex generale dell’Aviazione. Finora tutti i presidenti egiziani — Gamal Abdel
Nasser, Anwar Sadat e Hosni Mubarak — sono venuti dalle fila della Difesa. Al primo turno le
elezioni sono state dominate dall’astensionismo e solo 13 milioni di schede sono state giudicate valide. Gli egiziani votano per un capo di Stato i cui poteri ancora non sono stati stabiliti, perché
nella sua breve vita il Parlamento non è stato in grado di nominare un Assemblea Costituente
che redigesse una nuova Carta dopo l’abolizione
di quella in vigore sotto Mubarak. Il presidente di norma giura davanti al Parlamento, ma
l’Assemblea del popolo è stata sciolta giovedì dall’Alta Corte. È il caos istituzionale perfetto,
nemmeno nei political thriller di Ahmed Mourad c’è un finale così incerto. I vincitori del voto
saranno comunque i militari della Giunta, che hanno dimostrato in questa complessa partita una
raffinatezza e un’astuzia politica che nessuno in Egitto gli attribuiva. Sciolto il Parlamento — ieri
sera è stato sigillato dall’Esercito per impedire l’ingresso agli ormai ex-deputati — il potere
legislativo è tornato nelle loro mani, il neo-presidente dovrà giurare davanti al maresciallo
Mohammed Tantawi e ai suoi generali. «Da voi si chiama democrazia una roba così?», mi
chiede senza giri di parole Ahmed Kamel, che fa un mestiere difficile in Egitto: l’avvocato della
Lega per i diritti umani.
Fabio Scuto
Sarebbe troppo fisicamente impegnativo pubblicare tutti gli articoli con le loro varie sciocchezze che la gran parte della stampa italiana ha scritto sulle elezioni egiziane: brilla fra tutti la recidiva Cecilia Zecchinelli, ma non sono da meno gli stringati servizi che tutte le reti televisive hanno dedicato alle elezioni egiziane. Eppure l'Egitto è uno dei più grandi paesi che si affaccia sul "Mare Nostrum" e, con la Turchia, è uno dei più importanti centri del mondo culturale e spirituale islamico. L'Egitto è anche una delle principali mete turistiche degli italiani in vacanza: senza contare che i maestosi reperti della sua antichissima storia sono tra le principali mete dei viaggiatori di tutto il mondo. Naturalmente i mezzi di informazione italiani, nella settimana precedente il voto di ballottaggio tra i due candidati alla carica di presidente della repubblica, hanno fatto un tifo quasi da stadio per l'ex primo ministro dell'ultimo governo di Mubarak: è superfluo ricordare che questo signore era in carica quando il suo principale si rendeva responsabile dei massacri di massa per i quali un tribunale egiziano l'ha condannato all'ergastolo.
Voglio soltanto limitarmi a mettere in evidenza talune stranezze presenti nei commenti giornalistici italiani, che non riteniamo meritevoli di pubblicazione integrale, e che tuttavia hanno al loro interno talune idiozie che qualificano il livello di incultura spaziosa e rozza dei loro autori e delle loro autrici:
I - La Zecchinelli, sempre lei, ha scritto che le elezioni di Domenica si sono svolte con i seggi elettorali in mano ai militari. La gentile signora finge di ignorare che anche in Italia e in tutta Europa quando si vota i seggi sono presidiati da poliziotti e da carabinieri per ovvi motivi di ordine pubblico;
II - Sempre la Zecchinelli ha ripetuto fino alla nausea che il candidato della giunta militare, contrapposto a quello dei Fratelli Musulmani, era in costante crescita nei sondaggi pre-voto. La signora dispone evidentemente di un suo personale sondaggista perché fino a questo momento non è stato possibile sapere da una televisione italiana chi abbia vinto le elezioni egiziane. Con molte reticenze si arriva a dire che, sembra, il candidato dei Fratelli Musulmani è in testa: naturalmente quello della giunta militare sostiene che i dati sono incompleti e, comunque, viziati da gravi brogli nel voto;
III - I finti seguaci della democrazia, che si appoggiano su possibili movimenti golpisti, si danno tempo prima di svelare l'arcana verità: e cioè che gli "islamisti" hanno stravinto con una percentuale vicino al 60% dei voti. Naturalmente i campioni nostrani della democrazia sono sempre pronti a brindare a un'eventuale colpo di mano che annulli le elezioni presidenziali come già è stato fatto per quelle del parlamento.
P.S: Chissà se qualche telespettatore non ha notato fra le signore egiziane in fila nei seggi, delle donne completamente vestite di nero con tanto di velo integrale a coprire la testa e un paio di guanti dello stesso colore a coprire persino le mani? Siamo costretti a deludere i tanti numerosi anti-musulmani presenti in Italia: quelle signore portavano sul petto una vistosa croce di legno, segno evidente che erano di religione cristiano-copta.
Come al solito in Italia vi è stato chi ha visto recepite le preghiere che invocavano, senza confessarlo esplicitamente, un "ritorno all'ordine", e cioè alla dittatura nel più grande paese musulmano del Mediterraneo. Fortunatamente ci sono stati anche giornalisti che, per intima condizione e per pudore o decenza, non sono stati così smaccatamente entusiasti per l'eventualità.
Riportiamo così due di questi articoli e poi, come titolo di perenne vergogna per la giornalista che l'ha scritto, un florilegio di sciocchezze che sembrano ispirate dalla penna di Oriana Fallaci.
LA TRINCEA DEI GENERALI
NELLE rivoluzioni quel che è accaduto nelle ultime ore al Cairo si chiama di solito un tentativo di restaurazione.
O più brutalmente un golpe. Un colpo di Stato "legale", perché attuato con decreti emessi dalla Corte costituzionale, dicono i più puntigliosi. O più semplicemente una mossa controrivoluzionaria, promossa dai generali. Per la società militare egiziana la democrazia equivale a un suicidio, significa la perdita di un potere che si estende all'economia, alla finanza, alla giustizia, alla polizia e alla politica estera, in quanto garante degli accordi di Camp David con Israele. Quindi, alla vigilia di una elezione presidenziale (prevista per questo week end, il 16e il 17 giugno) che rischia o rischiava di esautorarli, i generali hanno sciolto il Parlamento.
EHANNO creato le condizioni per facilitare l'ascesa alla massima carica dello Stato di un autorevole collega in pensione, l'ex generale Ahmed Shafiq. La Corte costituzionale che ha decretato lo scioglimento del Parlamento è ancora quella nominata dall'ex rais, Hosni Mubarak, appena condannato all'ergastolo. Come del resto sono stati nominati da Mubarak i componenti del Supremo comando delle Forze armate, nelle cui mani risiede il vero potere, e al quale i giudici dell'Alta Corte devono obbedienza. E sempre un uomo dell'ergastolano Mubarak è il generale Shafiq, il quale è stato il suo ultimo primo ministro. Il tentativo di restaurare sostanzialmente il vecchio regime, sia pure in modo gattopardesco (cambiando perché nulla cambi) è evidente. Hosni Mubarak, nelle ultime ore dato per moribondo nella prigione militare in cui è rinchiuso, è stato sacrificato dai suoi compagni d'arme, nel febbraio 2011, per placare la rivoluzione. Ma egli resta un punto di riferimento, in quanto espressione della casta militare. Ci si chiede adesso come reagirà piazza Tahrir, ossia la rivoluzione rimasta ai margini dello scontro tra militari e Fratelli musulmani, questi ultimi dominanti nel Parlamento, insieme ai Salafiti, gli integralisti islamici.
L'elezione del Parlamento, avvenuta in condizioni democraticamente accettabili nella primavera scorsa, costituiva una minaccia per il potere militare.
L'imminente nomina, altrettanto democratica, del capo dello Stato significherebbe l'esautorazione del Supremo consiglio delle Forze armate (Scaf) incaricato di gestire la transizione tra la destituzione del rais e il promesso avvento della democrazia. Bisognava dunque azzerare il Parlamento dichiarando incostituzionale la sua elezione. Il pretesto è stato trovato nel doppio sistema di scrutinio, in parte uninominale e in parte alla proporzionale.
Due procedure ritenute illegali perché non avrebbero garantito identici diritti ai candidati. La Corte costituzionale ha così tolto di mezzo gli eletti, disarmati ma forti dei loro mandati e quindi in grado di infastidire i generali. Anche grazie alla capillare organizzazione dei Fratelli musulmani, la cui espressione parlamentare era il Partito della libertà e della giustizia. I deputati avevano già affrontato i generali dichiarando ineleggibili i ministri e i gerarchi del passato regime. La legge colpiva direttamente il generale Shafiq, il quale poteva essere escluso dal ballottaggio con l'esponente dei Fratelli musulmani, Mohammed Morsi, un eventuale capo dello Stato scomodo per i militari. La Corte costituzionale ha scavalcato la legge del Parlamento e ha deciso che Shafiq potrà concorrere per la presidenza della Repubblica. Ma si è forse dimenticata, almeno per ora, di sciogliere l'Assemblea costituente, formata in gran parte da membri del Parlamento giudicato illegale. Quindi la suddetta Corte costituzionale esercita la sua funzione sulla base dei principi del vecchio regime, non essendo neppure cominciati i lavori per la nuova promessa Costituzione democratica. In sostanza il potere resta nelle mani dei generali e il nuovo presidente, se verrà eletto, dipenderà da loro.
Le mosse ora precipitose ora tardive dei militari rivelano la grande confusione che regna negli stati maggiore e nelle caserme. Ed è un'indecisione che apre uno spazio di manovra ai movimenti democratici, laicio religiosi, di piazza Tahrir. Nel primo turno delle elezioni i loro candidati, il giornalista Hamden Sabahi e il musulmano moderato Abdel Moneim Abul Fotouh sono arrivati a ridosso dei primi due, del fratello musulmano Morsi e del generale Shafiq. Uniti li avrebbero superati. Essi non sono comunque usciti di scena e nelle ultime ore sono comparsi in piazza Tahrir, con l'intenzione di creare un "comitato presidenziale" incaricato di sorvegliare lo svolgimento dell'elezione di sabato e domenica prossimi. Li ha raggiunti Morsi, il fratello musulmano, appena è arrivata la notizia dello scioglimento del Parlamento. Si è dunque formata un'opposizione ai militari molto ampia. La dinamica accesa dai moti insurrezionali del febbraio 2011 non si è del tutto fermata.
I militari non vogliono perdere il potere, a tratti esitano, danno l'impressione di assecondare la svolta democratica, temono il giudizio degli americani (dai quali ricevono un sostanziale aiuto in dollari e in armi), ma al momento delle scelte indietreggiano, rinnegano gli impegni, o compiono precipitose fughe in avanti. Si considerano una forza laica capace di arginare l'ondata islamica, provocata dal successo elettorale dei moderati Fratelli musulmani e dei salafiti integralisti, e contano su una parte della popolazione intimorita dalla svolta religiosa e dalle punte di fanatismo. Sia pur approssimativi, e probabilmente non del tutto attendibili, i sondaggi davano negli ultimi giorni alla pari i due finalisti delle presidenziali: il generale e il musulmano. Ma l'astensione di protestaè molto ampia e quindi quelle indagini d'opinione non riflettono gli umori del paese. Oltre che sul timore che ispirano i musulmani in alcuni strati della società, i militari contano sulla crisi economica e il desiderio di un ritorno all'ordine.
Per ora hanno deciso di non rinviare il voto. Ma se avverrà sul serio non mancherà la protesta. E non sarà facile arginarla. La restaurazione è stata tentata, ma non è detto che la "Primavera araba" sia morta in Egitto. La provocazione può ridarle energia.
Bernardo Valli
Nell'Egitto che torna in piazza: "Avete sciolto il parlamento, questo è un nuovo golpe"
IL CAIRO - Quindici mesi dopo, la rivoluzione egiziana sembra tornata al punto di partenza. «Ladri», urlano le centinaia di manifestanti fuori della Corte Suprema lungo la Corniche El Nil, incuranti del sole impietoso che brucia anche il respiro, all'indirizzo dei giudici che hanno appena dichiarato decaduto il Parlamento dominato dagli islamisti e dichiarato eleggibile Ahmad Shafiq, l'ultimo premier di Hosni Mubarak, alle presidenziali di sabato e domenica prossima.
Il palazzo che ospita l'Alta Corte è incartato nel filo spinato e i blindati dell'esercito tengono a distanza la folla. Urla. Maledizioni. Un vecchio agita verso gli impassibili soldati le scarpe e mostra la suola dove ha incollato la foto di Shafiq e di Mubarak, il massimo segno di disprezzo per un arabo. Ma nessun tentativo di forzare il blocco, nessuna violenza. Perché lo schieramento in divisa è impressionante e perché la Fratellanza Musulmana ha dato ordini chiari: nessun incidente deve turb a r e q u e s t i giorni che precedono le elezioni. La Confraternita e il suo candidato Mohammed Morsi pensano di avere la vittoria in tasca, annunciano che riconosceranno solo il voto che porterà questo ingegnere, senza nessuna esperienza né parlamentare né di governo, alla guida del più popoloso e influente Paese del Medio Oriente. Non mancano le voci che nella dirigenza della Fratellanza denunciano la decisione della Corte come «un golpe strisciante» e passeranno cinque lunghe ore - con il Politbjuro islamista riunito per decidere come reagire alle due sentenze che rimescolano completamente le carte - prima che Mohammed Morsi annunci in serata che «le decisioni della Corte vanno rispettate» e confermando la sua candidatura al voto che si apre tra meno di 24 ore. Ma il potere di fatto è tornato nelle mani della Giunta militare.
È stato certamente un boccone amaro da deglutire per Morsi lo scioglimento del Parlamento, per vizio di alcuni articoli della legge elettorale, dominato dal suo Partito e dai salafiti di "Al Nour". Certo la Camera in questi mesi non ha dato una grande prova di sé, per l'inconsistenza del dibattito politico, per l'insensatezza delle proposte di legge, incapace di designare una Assemblea Costituente, mentre l'Egitto continuava a scivolare in una transizione post-Mubarak segnata più volte dal sangue, dalla violenza, dalle stragi.
La seconda sentenza ha scaldato gli animi degli islamisti anche più della prima. La Corte ha giudicato illegittimo il provvedimento che escludeva dalla vita politica gli esponenti dell'ex regime, come appunto Ahmed Shafiq, che nel ballottaggio di domanie domenica sfiderà Mohammed Morsi. Dopo la sentenza la corsa presidenziale di Shafiq è senza ostacoli, le intenzioni di voto lo danno in crescita costante. La Fratellanza con le proposte sulla sharia, il ruolo preminente della religione nella società, ha allarmato molti musulmani moderati, i laici e la minoranza cristiana, vede i suoi consensi scendere.
Poco dopo l'annuncio della Corte in una conferenza stampa fra sostenitori entusiasti, che si è aperta sulle note dell'inno egiziano Shafiq commentava: «È una giornata storica, perché è storica la sentenza della Corte Costituzionale che chiude l'era della resa dei conti». Una sua possibile vittoria alle elezioni presidenziali sarebbe stata inconcepibile appena un anno fa con quel fervore anti-regime che animava l'Egitto. È stato l'ultimo primo ministro del Faraone, investito quando ormai la rivolta divampava e licenziato dalla Giunta militare solo due settimane più tardi. Ma l'ex comandante dell'Aviazionee amico personale di Mubarak, sta raccogliendo ampi consensi. Ha fatto una campagna elettorale apertamente come candidato anti-rivoluzione, puntando sulla sicurezzae stabilità, cercando i voti di quegli egiziani esasperati dai continui disordini e dalla disastrosa situazione economica in cui versa l'Egitto dopo la sua "Primavera" e spaventati dalle proposte islamiste.
Sospesi tra lo spettro di un passato che potrebbe tornare e un salto nel vuoto verso l'islamizzazione, oltre cinquanta milioni di egiziani sono chiamati alle urne da domani in un clima «da film di Bollywood», dice Raghed Mohammed, leader del Movimento 6 aprile, che ha svolto un ruolo preminente durante la rivoluzione di gennaio. Il primo turno è stato dominato dall'astensione e poco meno di 13 milioni hanno espresso voti validi. Il risultato premiò Morsi con il 25 per cento seguitoa ruota da Shafiq con il 24; il 22 andò a un candidato della sinistra, il nasseriano Hamdeen Sabbahi, il 18 a un ex Fratello Musulmano, islamico moderato, Abdel Aboul Fotouh, e l'11 per cento ad Amr Mussa, al quale sondaggi risultati inattendibili attribuivano una concreta possibilità di vittoria. Per il secondo turno resta l'incognita se l'astensionismo, che la commissione elettorale ha rilevato a poco meno del 60 per cento nel primo, terrà ancora lontano dalle urne molta parte del popolo egiziano o se gli avvenimenti delle ultime ore indurranno una partecipazione più sostenuta. A favore di questa seconda possibilità potrebbero contribuire tanto un maggior impegno nel raccogliere voti per Morsi da parte della potente confraternita dei Fratelli Musulmani, quanto un risvegliato interesse di tutti coloro che rifiutano la prospettiva di uno Stato guidato da un presidente dalla forte caratterizzazione islamica, e per scongiurare questo sono pronti a votare per l'ex premier di Mubarak.
Dello "spirito" di Piazza Tahrir è rimasto ben poco. Ieri sera poche centinaia di manifestanti si sono riversati nel luogo simbolo della rivoluzione per protestare contro le sentenze. La gente è arrivata in piazza alla rinfusa, senza che ci fosse una convocazione da parte dei gruppi di attivisti, mandando in tilt l'intera zona, tra ingorghi e lunghe file di auto. La piccola folla ha lanciato soprattutto slogan religiosi. Non c'era il popolo di Facebook, non c'erano i ragazzi delle università, gli avvocati e gli ingegneri, i medici e le donne, che hanno animato per mesi la Piazza con la loro presenza, con le loro speranze, dandole un'anima che adesso non c'è più. «L'egoismo dei partiti e delle Confraternite ci ha fatto perdere la rivoluzione», dice scura in volto Sally Torna, leader della Coalizione dei giovani rivoluzionari, «e adesso hanno perso anche loro».
Fabio Scuto
Come esempio di articolo di impronta "fallaciana" vogliamo citare un articolo pubblicato dal Corriere della Sera a firma di Cecilia Zecchinelli.
L’Egitto torna in mano ai militari
Una doppia sentenza dell’Alta Corte Costituzionale sembra aver messo fine in pochi minuti al sogno di potere dei Fratelli musulmani e alla paura del mondo di un nuovo Califfato sulle rive del Nilo. Ma ha anche cancellato, secondo molti egiziani, la Rivoluzione più importante e in apparenza vittoriosa delmondo arabo, i 16 mesi di «transizione » difficile ma tollerata perché premessa di democrazia, le speranze di chi vedeva l’era Mubarak chiusa per sempre. La cautela è necessaria nell’immaginare cosa accadrà in un Paese che ha finora smentito ogni previsione. Di certo c’è comunque che ieri i 18 membri del massimo tribunale egiziano, riuniti nell’edificio neofaraonico di Maadi tra filo spinato, blindati e agenti antisommossa, hanno riscombinato ogni gioco. «Incostituzionale», secondo il loro giudizio inappellabile, è infatti il Parlamento eletto in inverno dove la Fratellanza e i salafiti controllano quasi il 70 per cento dei seggi. Un terzo dei candidati avrebbe dovuto essere scelto tra gli «indipendenti», mentre molti erano uomini di partito: l’intera Assemblea è da ieri sciolta e nuove elezioni si terranno in autunno. E difficilmente i partiti islamici avranno ancora così tanti voti. «Incostituzionale» è anche la legge che avrebbe proibito all’ex generale e ultimo premier di Mubarak, Ahmed Shafiq, di presentarsi al ballottaggio in programma domani e dopo per nominare il nuovo raìs, proprio perché colluso con il regime abbattuto. Dato per favorito contro il candidato dei Fratelli musulmani Mohammed Morsi—che al primo turno in maggio si era piazzato primo per pochi voti—Shafiq si troverà presidente di un Paese senza Costituzione né Parlamento. Restano in carica il Senato, ma con ben poco potere, e il governo, dove però si prevede presto un rimpasto. E resta fermamente in controllo del Paese la Giunta guidata dal maresciallo Hussein Tantawi. Nel caso, meno probabile, di una vittoria di Morsi lo scenario non è comunque più semplice. Avversati dai militari, dai cristiani, dallo «Stato profondo» dei burocrati, dal business, da molti laici e perfino da alcuni integralisti islamici, i Fratelli musulmani e il loro raìs si troverebbero soli. «Rispettiamo la decisione della Corte», ha dichiarato Morsi, smentendo le voci di un suo ritiro dal ballottaggio. Ma, nella notte, ha sostenuto che le sentenze indicano che «qualcuno trama contro l’Egitto», accusando i «criminali del regime di Mubarak» ancora al potere. Alti dirigenti della Fratellanza hanno quindi accusato la Giunta e i giudici di «colpo di Stato» e previsto che il Paese entrerà in «un tunnel oscuro se il Parlamento sarà davvero dissolto» (e lo sarà). Di golpe ha parlato chiaramente Abdel Moneim Abul Futuh, islamico moderato ed ex Fratello, battuto al primo turno in maggio: «Non solo per i due verdetti ma per la legge che permette ai militari di arrestare i civili», ha spiegato riferendosi a una norma approvata tre giorni fa senza clamore, che di fatto reintroduce le leggi d’emergenza appena abolite. Mohammed ElBaradei, il premio Nobel amato dalla Rivoluzione ma ritiratosi dalle presidenziali, ha definito la situazione dell’Egitto — un raìs senza Costituzione né Parlamento — come «degna della peggiore dittatura». E commenti simili sono arrivati dai blog, dalle tv, da tutti gli indignati. Da quelli che non pensano, come Shafiq, che ieri la Corte abbia invece emesso «due sentenze storiche ». Una parte dell’Egitto che però non è maggioritaria, ed è comunque estenuata: mentre si moltiplicavano le promesse di nuove proteste oceaniche, la piazza simbolo della Rivoluzione, Tahrir, ieri sera era vuota.
Cecilia Zecchinelli appartiene di diritto a quella categoria di giornalisti che confondono gli avvenimenti con le loro intime aspirazioni. La giornalista è fra coloro che considerano l'Islam la sentina di tutti i mali e l'Occidente il più fulgido esempio di democrazie realizzate. Se in qualche parte del mondo una forza politica non europea ne americana vince alla grande libere elezioni senza brogli e con una entusiasmante partecipazione di popolo come è stato nelle elezioni legislative egiziane, e i militari, colonnelli o generali, fanno un bel golpe, la democrazia occidentale è ugualmente in marcia. Per la Zecchinelli i Fratelli Musulmani che ella pervicacemente seguita a chiamare "Islamisti" o "Fondamentalisti Islamici", un golpe organizzato dai fedeli di quel ladrone assassino che un tribunale egiziano ha condannato a morte per tutto quel che ha combinato da ultra-trentennale dittatore, è sicuramente una vittoria per i democratici, anche perché secondo quelli come lei, l'eventuale vittoria elettorale di forze politiche che, tutte assieme, non arrivano a raccogliere più del 20% dei voti, è il non-plus-ultra della vera democrazia rappresentativa.
L'argomento principe utilizzato dalla signora e da chi è come lei è che i Fratelli Musulmani farebbero ripiombare il mondo arabo e l'Islam in genere nel più profondo Medioevo. La stessa convinzione è espressa da scrittori di origine medio orientale tipo Cristiano Magdi Allam e il marocchino Tahar Ben Jelloun.
Questi personaggi sembrano dimenticare:
I - Ciò che noi chiamiamo Medioevo è stato per l'Islam l'epoca di massimo splendore e di massima fioritura culturale ed economica, non solo in medio oriente o in Egitto, ma anche in parti d'Europa come la Sicilia e la Spagna. Il sogno dei musulmani è quello che faceva negli anni della prima guerra mondiale lo sceicco hascemita Feisal: "Ma io sogno l'università araba di Toledo, i giardini di Palermo e i kilometri di illuminazione pubblica notturna di Cordoba";
II - Non c'erano nel Medioevo arabo mostruosità che somigliassero al Sant'Uffizio, all'Inquisizione e alla totale libertà di pensiero che hanno imperato in Europa fino alla Rivoluzione Francese; e non fa capo all'Islam la sequela di atrocità senza limite come le guerre di religione che hanno sconvolto l'Europa per oltre 200 anni, le 2 guerre mondiali e le prodezze delle camicie brune naziste e di quelle nere fasciste (e neppure lo sterminio di interi popoli e la tratta dei neri d'Africa);
III - Il Medioevo arabo è iniziato e si è affermato quando le potenze coloniali europee si sono avventate sui paesi musulmani come locuste affamate e hanno tolto a popolazioni di antichissima civiltà l'indipendenza politica la dignità culturale, la creatività e il senso della libertà. Da musulmani non possiamo che auspicare che uomini come Erdogan, i Fratelli Musulmani d'Egitto e il partito Ennahda, vincitore delle elezioni in Tunisia, restituiscano ai loro popoli lo splendore di un tempo, spazzando via dittatori e bande di pretoriani armati. Ci riusciranno perché Dio è il più Grande, Allahu Akbar.
Egitto, tra i fedeli che si ribellano al golpe “Reagiremo, la presidenza sarà di Morsi”
IL CAIRO — I bravi fedeli hanno messo giù i tappeti anche per strada invadendo la Main
Street di Giza, il centro urbano cresciuto attorno alle Piramidi e che è ormai inglobato
dall’avanzare del Cairo, che ogni anno attira mezzo milione di nuovi abitanti e allarga i suoi
slumfatti di fango e sabbia dove la Fratellanza musulmana ha la sua base elettorale. La piccola
moschea El Rahman non può ospitare tutti dentro, ogni venerdì la gente viene qui anche dai
centri vicini perché il verbo del Sayyed Ali Ben Hassa è suadente come una musica per le loro
orecchie. Un arabo morbido, dai toni pacati, che sa far breccia nel cuore del fedele. Il sermone
non tocca temi squisitamente politici in un Paese scosso dagli eventi delle ultime 24 ore come
lo scioglimento del Parlamento e la corsa alle presidenziali, ma è parallelo: verte sulla centralità
dell’Islam nella vita sociale. I commenti su quel che sta succedendo in Egitto in questi giorni
vengono fuori alla fine, quando i fedeli riavvolgono il tappeto da preghiera e si incamminano
verso i caffè più vicini.
«Si era capito fin dalla sentenza contro Mubarak che le cose non stavano andando per il verso
giusto », dice secco Nabil, che di mestiere fa l’ingegnere, «e lo scioglimento del Parlamento è
stato un golpe, molto soft ma sempre un golpe. Ma reagiremo, vinceremo le presidenziali e
anche quelle per la nuova Assemblea del popolo». Non ci sono dubbi nel popolo dei fedeli sulla
certa elezione di Mohammed Morsi — il candidato della Fratellanza musulmana — alla
presidenza. Nessuno parla delle aspettative o delle speranze nate da Piazza Tahrir, la libertà, la
democrazia, il cambiamento. Quella rivoluzione — a cui peraltro la Confraternita aderì
tardivamente
solo dopo la caduta di Mubarak — è stata lentamente sfiancata, erosa e alla fine soffocata dai
Partiti e dalle Confraternite, adesso viene esibita come un feticcio ogni volta che torna comodo.
Il movimento islamico adesso sostiene che «tutte le conquiste democratiche ottenute con la
rivoluzione potrebbero essere spazzate via con la salita al potere di uno dei simboli dell’era
precedente », Ahmad Shafiq, l’ultimo premier di Mubarak prima del crollo riammesso alla corsa
presidenziale per il voto di oggi e domani.
Il massimalismo della Fratellanza, il velo alle donne, la Sharia in tribunale, le spiagge del Mar
Rosso chiuse ai bagnanti in costume, il divieto di vendere alcolici, l’obbligo della preghiera negli
uffici pubblici e altre imposizioni di stile integralista, hanno spaventato l’elettorato islamico
moderato, i laici, la minoranza cristiana (10 milioni). Non ci sono sondaggi affidabili in Egitto —
è ancora troppo “giovane” il voto libero — ma i consensi per Morsi scendono, al primo turno ha
ottenuto quasi 5 milioni di voti, cioè metà di quelli che il suo partito ha aveva ricevuto solo 6
mesi prima alle legislative. Ahmad Shafiq invece vede i suoi consensi salire. Sicurezza,
stabilità, progresso, ha ripetuto come un mantra per tutta la campagna elettorale, e nel caos
istituzionale in cui si trova l’Egitto potrebbe essere un messaggio vincente. I giovani dei gruppi
che hanno animato la rivolta contro Mubarak solo un anno fa, sono stanchi, delusi, divisi. Come
se quella scintilla che li ha accesi e resi protagonisti della Storia si fosse persa adesso in buio
cosmico. C’è chi sostiene Morsi come il Movimento del 6 aprile e chi Shafik come i Giovani
della Rivoluzione.
Da oggi 52 milioni di egiziani vanno alle urne per scegliere il loro presidente tra un ingegnere
religiosissimo e un ex generale dell’Aviazione. Finora tutti i presidenti egiziani — Gamal Abdel
Nasser, Anwar Sadat e Hosni Mubarak — sono venuti dalle fila della Difesa. Al primo turno le
elezioni sono state dominate dall’astensionismo e solo 13 milioni di schede sono state giudicate valide. Gli egiziani votano per un capo di Stato i cui poteri ancora non sono stati stabiliti, perché
nella sua breve vita il Parlamento non è stato in grado di nominare un Assemblea Costituente
che redigesse una nuova Carta dopo l’abolizione
di quella in vigore sotto Mubarak. Il presidente di norma giura davanti al Parlamento, ma
l’Assemblea del popolo è stata sciolta giovedì dall’Alta Corte. È il caos istituzionale perfetto,
nemmeno nei political thriller di Ahmed Mourad c’è un finale così incerto. I vincitori del voto
saranno comunque i militari della Giunta, che hanno dimostrato in questa complessa partita una
raffinatezza e un’astuzia politica che nessuno in Egitto gli attribuiva. Sciolto il Parlamento — ieri
sera è stato sigillato dall’Esercito per impedire l’ingresso agli ormai ex-deputati — il potere
legislativo è tornato nelle loro mani, il neo-presidente dovrà giurare davanti al maresciallo
Mohammed Tantawi e ai suoi generali. «Da voi si chiama democrazia una roba così?», mi
chiede senza giri di parole Ahmed Kamel, che fa un mestiere difficile in Egitto: l’avvocato della
Lega per i diritti umani.
Fabio Scuto
Sarebbe troppo fisicamente impegnativo pubblicare tutti gli articoli con le loro varie sciocchezze che la gran parte della stampa italiana ha scritto sulle elezioni egiziane: brilla fra tutti la recidiva Cecilia Zecchinelli, ma non sono da meno gli stringati servizi che tutte le reti televisive hanno dedicato alle elezioni egiziane. Eppure l'Egitto è uno dei più grandi paesi che si affaccia sul "Mare Nostrum" e, con la Turchia, è uno dei più importanti centri del mondo culturale e spirituale islamico. L'Egitto è anche una delle principali mete turistiche degli italiani in vacanza: senza contare che i maestosi reperti della sua antichissima storia sono tra le principali mete dei viaggiatori di tutto il mondo. Naturalmente i mezzi di informazione italiani, nella settimana precedente il voto di ballottaggio tra i due candidati alla carica di presidente della repubblica, hanno fatto un tifo quasi da stadio per l'ex primo ministro dell'ultimo governo di Mubarak: è superfluo ricordare che questo signore era in carica quando il suo principale si rendeva responsabile dei massacri di massa per i quali un tribunale egiziano l'ha condannato all'ergastolo.
Voglio soltanto limitarmi a mettere in evidenza talune stranezze presenti nei commenti giornalistici italiani, che non riteniamo meritevoli di pubblicazione integrale, e che tuttavia hanno al loro interno talune idiozie che qualificano il livello di incultura spaziosa e rozza dei loro autori e delle loro autrici:
I - La Zecchinelli, sempre lei, ha scritto che le elezioni di Domenica si sono svolte con i seggi elettorali in mano ai militari. La gentile signora finge di ignorare che anche in Italia e in tutta Europa quando si vota i seggi sono presidiati da poliziotti e da carabinieri per ovvi motivi di ordine pubblico;
II - Sempre la Zecchinelli ha ripetuto fino alla nausea che il candidato della giunta militare, contrapposto a quello dei Fratelli Musulmani, era in costante crescita nei sondaggi pre-voto. La signora dispone evidentemente di un suo personale sondaggista perché fino a questo momento non è stato possibile sapere da una televisione italiana chi abbia vinto le elezioni egiziane. Con molte reticenze si arriva a dire che, sembra, il candidato dei Fratelli Musulmani è in testa: naturalmente quello della giunta militare sostiene che i dati sono incompleti e, comunque, viziati da gravi brogli nel voto;
III - I finti seguaci della democrazia, che si appoggiano su possibili movimenti golpisti, si danno tempo prima di svelare l'arcana verità: e cioè che gli "islamisti" hanno stravinto con una percentuale vicino al 60% dei voti. Naturalmente i campioni nostrani della democrazia sono sempre pronti a brindare a un'eventuale colpo di mano che annulli le elezioni presidenziali come già è stato fatto per quelle del parlamento.
P.S: Chissà se qualche telespettatore non ha notato fra le signore egiziane in fila nei seggi, delle donne completamente vestite di nero con tanto di velo integrale a coprire la testa e un paio di guanti dello stesso colore a coprire persino le mani? Siamo costretti a deludere i tanti numerosi anti-musulmani presenti in Italia: quelle signore portavano sul petto una vistosa croce di legno, segno evidente che erano di religione cristiano-copta.
Iscriviti a:
Post (Atom)