Pochi giorni fa è morta una anziana signora di origine pakistana. Suo figlio, cittadino italiano, ha una moglie che è italiana per nascita e per origine al pari del figlio che è cittadino italiano per nascita e perché figlio di genitori italiani. L'intera famiglia è di religione islamica ed è residente a Vicenza, al pari della defunta; ma costei ha dovuto essere sepolta nel cimitero acattolico di Padova perché a Vicenza un analogo cimitero non c'è o, meglio, è chiuso da svariati decenni perché il suo principale utente, la comunità israelita, è ormai estremamente ridotta di numero e preferisce servirsi del luogo di sepoltura ebraico esistente a Verona. Abbiamo chiesto in numerose occasioni i misteriosi motivi per i quali i musulmani che hanno la ventura di morire a Vicenza non possano essere sepolti nell'esistente cimitero acattolico in disuso. Ci è stato risposto che vi si frappongono ragioni igieniche (scarsa profondità della falda acquifera) o artistiche (il cimitero acattolico vicentino di Via Fratelli Bandiera sarebbe sottoposto a vincolo della sovraintendenza ai monumenti in quanto considerato monumento nazionale; forse è per questo che il Comune di Vicenza lo tiene in condizioni pietose e invaso dalle erbacce). Abbiamo allora chiesto che un apposito spazio possa essere acquistato dalla comunità islamica vicentina e usato come terreno cimiteriale per poter seppellire i nostri morti in conformità alle usanze funerarie dettate dalla tradizione (Sunna), fermo restando l'obbligo di rispettare le norme igenico sanitarie dettate dalla legge italiana.
"Perché non vi servite degli spazi ordinari del cimitero comunale?". La nostra risposta è sempre stata molto semplice: perché il cimitero comunale di Vicenza non è affatto comunale ma cattolico a tutti gli effetti: vi si celebra periodicamente una messa cattolica in suffragio dei defunti; le tombe sono estremamente diversificate tra loro ed alcune testimoniano la modesta condizione economica del defunto mentre altre ostentano con statue e altri ornamenti marmorei la condizione di potenza della famiglia d'origine; e i musulmani hanno il torto di ritenere che almeno la morte rende gli esseri umani tutti uguali. I sunniti hanno anche la convinzione che nei luoghi in cui sono rappresentate figure umane in pietra o in altro materiale, le presenze angeliche, che rendono sacro un luogo, se ne vanno. Naturalmente questa convinzione viene considerata una anacronistica superstizione ma, guarda caso viene condivisa anche dagli ebrei e da numerose confessioni cristiane non cattoliche. A questo punto è necessario aggiungere che ai riti funebri musulmani, la tradizione sunnita assegna una particolare importanza e per questo essi vengono definiti nei dettagli.
Al momento dell'agonia si è soliti ricordare al morente la professione di fede ("Non vi è altro Dio fuorché Dio e Muhammad è il suo Messaggero"), poiché sui principi fondamentali del credo, una volta rimasto solo nella tomba il defunto verrà sottoposto a un interrogatorio da parte degli Angeli della Morte, Munkar e Nakir. Una volta avvenuto il decesso si devono chiudere gli occhi del defunto nel caso fossero rimasti aperti, e questo su precisa indicazione del Profeta che una volta compì personalmente questa operazione affermando: "Quando l'anima abbandona il corpo, il moribondo la segue con lo sguardo. Lamentazioni funebri debbono essere composte, perché l'anima del defunto soffrirebbe nell'udire grida di dolore troppo forti e scomposte. All'anima del defunto non vanno mai rivolte suppliche o richieste di adempimenti di voto, ne, tanto meno miracoli (i musulmani non credono agli eventi miracolosi: il potere di compierli spetta solo a Dio. E' particolarmente meritorio recitare la Sura 36 del Corano, che per alcun accenni al giudizio finale e ai destini dell'uomo viene considerata il miglior viatico nel cammino nell'aldilà.
Il cadavere viene quindi sottoposto a un lavaggio completo, alla profumazione e all'avvolgimento in un sudario. La preghiera viene recitata prima dell'inumazione ed è una vera e propria preghiera, anche se non comporta i movimenti delle regolari preghiera e consiste in una recitazione in posizione eretta e a bassa voce. Il morto viene infine sepolto con il corpo poggiato sul fianco destro e il volto rivolto in direzione della Mecca. Sul luogo di sepoltura si mette una stele funeraria che indica al massimo il nome del defunto. La tomba del Profeta Muhammad è contrassegnata da una pietra collocata nella Mosche di Medina, e l'unico russo concessole è un semplice recinto di terra battuta.
Da questa esposizione si comprende come per un musulmano osservante la sepoltura in un cimitero dove abbondano le manifestazioni di russo barocco, le invocazioni a voce alta, le richieste di atti miracolosi siano in netto contrasto con la sua fede religiosa. Pochi giorni fa ci è capitato di leggere sul Giornale di Vicenza, a corredo di una foto che raffigurava un monsignore cattolico impegnato in un affettuoso colloquio con un signore che, nonostante il lunghissimo nome, cognome e prenome che lo facevano sembrare un grande califfo di qualche antica dinastia, è un semplice musulmano di cittadinanza italiana. Le dichiarazioni arbitrarie che quest'ultimo ha rilasciato al giornalista per spiegare che lui è un esponente della COREIS Veneta, e cioè dell'entità che raccoglie l'adesione dei 50 mila musulmani italiani "moderati". In uno dei pochi colloqui che ho avuto l'onore di avere con costui, egli proclamò che la convinzione secondo la quale gli angeli si allontanano dai luoghi in cui sono presenti figure dalle sembianze umane, doveva considerarsi un anacronismo ormai superato e che quindi i musulmani possono tranquillamente farsi seppellire in un cimitero cattolico. Forse per questo signore l'essere musulmani moderati è mostrare uno spirito mondano alla moda, che non esclude per altro pratiche para-magiche con i cristalli e gli amuleti secondo le mode della new age. I musulmani ligi alla "Sunna" come, forse con l'entusiasmo del neofita, ritengono di dover restare fedele alle sue regole, sono i "non-moderati" e, magari, pericolosi fondamentalisti potenzialmente estremisti.
O forse quel signore è di quelli che ritengono che l'integrazione di un musulmano nella società occidentale, specialmente in Italia, passa attraverso la quiescenza subalterna al dettato del clero cattolico meno disponibile e non invece alla rivendicazione puntuale, rigorosa e inflessibile dei diritti umani e civili che derivano dall'essere cittadini della repubblica italiana.
Per questo, ritenendo il servizio funerario un diritto civico come la distribuzione dell'acqua, della luce e del gas e come della raccolta dei rifiuti solidi e urbani, considerato il persistente silenzio della civica amministrazione sul tema, che raggiunge il massimo della maleducazione nel silenzio tombale del sindaco e dell'assessore preposto al ramo (che pure è stato difensore civico) formalizzeremo la richiesta di un luogo di sepoltura per i musulmani residenti in Vicenza con un formale atto redatto ai sensi di legge; e nel caso di rifiuto o di silenzio prolungato oltre i termini fissati, ricorreremo al giudice amministrativo (TAR), al Consiglio di Stato e in terza istanza al Tribunale dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo. Chissà se il sindaco Variati si accorgerà dell'esistenza di una comunità islamica nella sua città quando gli arriverà sul tavolo la diffida legale in corso di preparazione.
Questo Blog si propone di dare risposta agli interrogativi e alle polemiche che più frequentemente hanno per oggetto la religione islamica e il Corano. Tale attività è particolarmente necessaria in Italia, data la totale disinformazione che gli italiani hanno sulla religione di un miliardo seicento milioni di musulmani in tutto il mondo.
mercoledì 14 settembre 2011
lunedì 12 settembre 2011
10 Settembre 2011
Ore di paura all'ambasciata israeliana
GERUSALEMME — E adesso? Il settembre nero della diplomazia israeliana — che doveva raggiungere il suo peggio fra dieci giorni con l'assemblea generale dell'Onu e la proclamazione plebiscitaria del nuovo Stato palestinese, che è già cominciato le settimane scorse col richiamo del rappresentante egiziano a Tel Aviv e con l'espulsione di quello israeliano ad Ankara — si fa d'un nero inaspettato. Quello dei baffi di fuliggine al diciassettesimo piano del palazzo di Giza, dov'è l'ambasciata israeliana assaltata nella notte del Cairo. Della cenere della bandiera con la stella di David, incendiata in strada. Del buio in cui è finita, in poche settimane, la politica estera di Bibi Netanyahu. Un attacco come non se ne vedevano dai tempi di Teheran o di Belgrado: otto ore d'assedio, 4 mila persone con mazze e martelli, un muro di protezione sfondato, tre morti, mille feriti, venti arresti, sei del Mossad salvati dal linciaggio, gli archivi consolari saccheggiati, l'ambasciatore Yitzhak Levanon costretto a fuggire con le famiglie d'altri 80 diplomatici, l'umiliazione del premier di dover chiamare Obama da Gerusalemme, l'inviso Obama, e doverlo poi ringraziare pubblicamente per il suo intervento presso gli egiziani... «Incidente serio, ma siamo impegnati a preservare la pace. È stato evitato il disastro», dice Bibi, ma si riferisce solo al fatto che l'altra notte s'è arrivati a un niente dalla fine della pace fredda, dei trent'anni di Camp David: perché qui nessuno si nasconde che adesso il peggio può arrivare.Adesso. Cioè già domani. Con la visita al Cairo del premier turco Recep Erdogan, sulla via per Tunisi e Tripoli. Prima tappa del primo tour d'un leader mondiale nei Paesi della primavera araba. Singolare tempismo: Erdogan, inferocito ex alleato d'Israele, ha appena degradato le relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico, si propone come riferimento delle nuove democrazie, promette visite a Gaza e scorte armate alle flottiglie pacifiste che ne rompano il blocco, esalta «i 500 mila che al Cairo stanno maledicendo gli ebrei», incoraggia il nuovo quartier generale di Hamas che vuole traslocare da Damasco alle Piramidi. È probabile che venga a offrire una nuova alleanza strategica al dopo-Mubarak.
Sfruttando l'ira popolare per le guardie di frontiera egiziane uccise in agosto, dopo l'attacco terroristico a Eilat. Precipitando Israele in una solitudine d'altri tempi: «Siamo impegnati a preservare la pace con l'Egitto», è il refrain di Netanyahu, assai simile al «vogliamo aggiustare i rapporti» col quale sta gestendo le intemperanze turche. Non è detto che la giunta del maresciallo Tantawi si schieri con Erdogan, per ora. In questi mesi, nonostante gli attentati al gasdotto che rifornisce Israele e le aperture all'Iran e l'annunciato richiamo dell'ambasciatore a Tel Aviv, il nuovo Egitto ha tenuto aperti canali di collaborazione. Venerdì notte, a muovere le teste di cuoio egiziane, è stato decisivo l'intervento della Casa Bianca, principale sponsor militare del Cairo, sgomenta a guardare questa rissa fra i suoi tre grandi alleati mediorientali. Tantawi promette la corte marziale per chi ha organizzato la devastazione: sostenitori di Mubarak, sostiene la stampa egiziana; Fratelli musulmani, scrivono a Gerusalemme. Il premier Essan Sharaf ha offerto le dimissioni (respinte) per non aver saputo prevedere la notte dei roghi. Ma Israele sta diventando un tabù. E la piazza ribolle: «Mandateli al diavolo! — maledice la madre d'uno degli assalitori uccisi —. Perché l'esercito egiziano protegge loro e ammazza i nostri?».
Corriere della Sera
La folla devasta l' ambasciata d' Israele tre morti e oltre mille feriti al Cairo
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE FABIO SCUTO GERUSALEMME - È stata una notte drammatica al Cairo, una notte di battaglia fra migliaia di dimostranti e la polizia seguita all' assalto della folla all' ambasciata israeliana nella capitale egiziana. Scontri che sono andati avanti fino all' alba di sabato con un bilancio di tre morti e oltre mille feriti. Uno scenario del tutto simile all' assalto all' ambasciata Usa di Teheran nel 1979. Devastata la sede diplomatica, uffici distrutti, migliaia i documenti trafugati, gettati dalle finestre; i sei addetti alla sicurezza, barricati in un ufficio, a un passo dal linciaggio sono stati salvati dall' intervento dei commandos egiziani. Febbrili telefonate si sono incrociate per tutta la nottata tra Gerusalemme, Washington e il Cairo. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu subito informato della drammatica crisi ha chiamato il presidente Usa Barack Obama per chiedere l' aiuto degli Usa, la Casa Bianca ha preso contatto al Cairo con la Giunta militare egiziana mentre il ministro israeliano della Difesa Ehud Barak era al telefono con il capo del Pentagono Leon Panetta. Solo dopo questo giro di conversazioni l' esercito egiziano è sceso con decisione nelle strade attorno Sharia Ibn-El Malek - nell' elegante zona dove si trova l' ambasciata israeliana - per disperdere le migliaia di manifestanti ed è stata guerriglia fino all' alba. In piena notte un aereo militare israeliano è arrivato al Cairo dove ha preso a bordo l' ambasciatore Yitzhak Levanon e altre 80 persone fra personale diplomatico e familiari per una «evacuazione d' emergenza». La guerriglia notturna ha provocato una riunione straordinaria del governo egiziano, dove il premier Essam Sharaf ha presentato le sue dimissioni che sono state respinte. Nello stesso vertice con la Giunta militare sono state riattivate le "leggi d' emergenza" che danno maggiori poteri per contenere le proteste, leggi che i manifestanti di Piazza Tahrir vogliono abolire. La manifestazione di venerdì sfociata poi nella guerriglia era stata convocata per chiedere al governo egiziano la stessa fermezza della Turchia nell' esigere da Israele le scuse formali per l' uccisione di sei guardie di frontiera durante i raid seguiti all' attentato di Eilat dello scorso agosto. A Gerusalemme il premier Netanyahu, ha parlato di «disastro evitato» e di «un grave incidente» che avrebbe potuto essere «ben peggiore». E ha aggiunto: «Lavoriamo con l' Egitto per rispettare e preservare la pace». Ma il crollo delle relazioni con il Cairo e la contemporanea crisi diplomatica con la Turchia è per Israele un veroe proprio tsunami. Ritirare anche temporaneamente i diplomatici dal Cairo mette in seria difficoltà il governo Netanyahu. Nonostante la nuova leadership militare egiziana abbia assicurato che rispetterà l' accordo di pace del 1979, il difficile equilibrio del dopo-Mubarakè saltato con l' uccisione delle guardie di frontiera in agosto. Con Ankara, dopo le mancate scuse per i morti turchi nell' assalto alla Freedom Flotilla, si è passati dal gelo alla guerriglia diplomatica innescando una pericolosa escalation. La Turchia ha deciso di denunciare Israele alla Corte penale internazionale dell' Aja per crimini di guerra a Gaza, di denunciare all' Aiea l' arsenale militare nucleare israeliano (mai ammesso da Israele), di attivare la Commissione Onu per i diritti umani di Ginevra, di sostenere con ogni suo mezzo la prossima dichiarazione d' indipendenza della Palestina all' Onu. E il premier Erdogan è proprio alla vigilia di una sua visita ufficiale in Egitto - la seconda in un mese - nella quale cercherà di elevare i rapporti economici e militari già ben saldi con la nuova leadership.domenica 11 settembre 2011
7 Settembre 2011
L'ultimo mistero di Gheddafi un convoglio fugge in Niger carico
di oro e banconote
di oro e banconote
TRIPOLI - Gheddafi e Seif al Islam, il figlio prediletto, l'erede a un trono che non c'è più, in fuga con la cassa forse verso il Burkina Faso via Niger. Oro e miliardi di dollari sarebbero stati portati via nottetempo dalla filiale di Sirte della Banca centrale libica. Le smentite fioccano, ma il dubbio rimane. L'imponenza stessa dei numeri - l'avvistamento, testimoniato da più fonti, di un convoglio di 200-250 veicoli civili e militari che hanno attraversato il deserto del Fezzan e sono penetrati in territorio nigerino - in qualche modo lo impone. Un tale spiegamento di forze per mettere in salvo, come vari portavoce si sono poi affrettati a spiegare, soltanto figure di secondo piano del passato regime appare poco credibile. Ciò che è certo è che il clan si è spaccato, che i figli del raìs si rimpallano le responsabilità della disfatta e che lui stesso sia vicino a realizzare che ormaiè finita. Morire con la pistola in pugno, come la propaganda vuole, essere processato come uno qualunque o vivere da nababbo lui e i suoi in quel Burkina Faso che si sarebbe detto disponibile ad accoglierlo? Tripoli non fa in tempo a svegliarsi che subito si diffonde la notizia o meglio la voce: Lui ha sgombrato il campo e si è portato via tonnellate di oro e tre miliardi di dollari. Una notizia buona quindi, la sua uscita di scena, e una cattiva: il trafugamento del tesoro dei libici, i soldi della gente. Cifre, non è escluso gonfiate, che innescano rabbia e voglia di menare le mani, visto che la partita di Bani Walid non è ancora conclusa. Occhi puntati quindi al confine con il Niger, dove viene segnalato da giorni un viavai di convogli. Nelle ultime ore un'imponente carovana di mezzi militari avrebbe attraversato la frontiera desertica, lambito la città di Agadez, culla dei Tuareg molto vicini al deposto leader e sarebbe diretto verso la capitale Niamey. La Reuters ha contato tra i 200 e i 250 veicoli e la voce insistente è che a bordo di una delle auto ci fosse Gheddafi e uno dei figli, scortati mezzi militari nigerini. Sotto l'occhio attento di Rhissa Ag Boula, una delle figure chiave delle due ribellioni Tuareg in Niger, personaggio molto vicino a Gheddafi. Se le cose stanno davvero così potrebbe non essere la solita bufala. A metà giornata però, l'Eliseo precisa di non aver elementi per poter confermare la notizia e il Dipartimento di Stato annuncia di «non credere» che Gheddafi sia arrivato in Niger. Anche se da Washington ritengono che della carovana facciano perlomeno parte alti funzionari del regime e chiedono al governo nigerino di arrestarli. Seccamente il Niger nega l'ipotesi della presenza del raìs libico sul suo territorio, ma alla domanda sull'eventualità che possa concedere asilo a Gheddafi per «ragioni umanitarie», il ministro dell'interno, Abdu Labo, ha detto: «Se la richiesta sarà fatta, ci penseremo». Dal canto suo, invece, il governo del Burkina Faso nega le voci sulla sua disponibilità a dargli ospitalità: «Escludiamo totalmente la possibilità di concedergli asilo politico», hanno dichiarato da Ougadougou. Certo è che in questo momento la frontiera col Niger in quanto traffico di mezzi libici è da bollino nero. Domenica, secondo fonti locali, il confine sarebbe stato attraversato da un'altra maxi carovana di lealisti che portavano in salvo il capo della sicurezza personale del colonnello, Mansour Daw. Molti qui rimproverano alla Nato di stare a guardare. Ma la missione d'altra parte è esclusivamente quella di proteggere i civili. Ecco perché da Bruxelles ribadiscono per l'ennesima volta che gli aerei dell'Alleanza non si metteranno a seguire le tracce di nessuno.
La "fortezza armata" di Bani Walid, per dirla con una delle ultime sparate del Colonnello, rimane assediata dalle forze ribelli che sostengono di poterla far capitolare in un paio d'ore, ma non volendo spargimenti di sangue stanno tentando di arrivare a un accordo. Per ora le armi tacciono. Ma il nodo da sciogliere è grande: catturare e processare i responsabili del regime, come vorrebbe l'ala più radicale della Libia rivoluzionaria, o amnistiare tutti, come propongono gli anziani delle tribù della città assediata. Si tratta, dunque. Di buono c'è che dagli assediati arrivano rassicuranti segnali di "pace": «I ribelli sono nostri fratelli». Comunque sia non ci saranno vendette. I negoziatori del nuovo corso hanno assicurato ai delegati di Bani Walid che «la legge sarà rispettata», che non ci saranno regolamenti di conti, saccheggi e attacchi alle proprietà degli abitanti della città.
Renato Caprile, La Repubblica
6 Settembre 2011
"Gheddafi ci dava denaro per partire verso l´Italia"
TRIPOLI - Nel porticciolo bruciato dal sole, i resti di vecchi pescherecci marciscono lentamente. Coperte luride sono appese sui fianchi delle barche tirate a secco, a creare un piccolo riparo per la popolazione dei neri arrivati troppo tardi per inseguire il sogno dell´Italia. Nigeriani, ghanesi, maliani, togolesi, nigerini: nei giorni scorsi qui a Sidi Blal erano un migliaio, accampati alla meglio sotto la flotta in disfacimento.Questa popolazione di disperati era l´"arma finale" di Gheddafi contro il governo italiano, colpevole di aver tradito la Jamahiriya appena tre anni dopo la firma del trattato di amicizia. Il colonnello voleva sommergere l´Europa, e l´Italia in particolare, con questa umanità diseredata, che adesso aspetta.
«Da qui non ci muoviamo. Siamo tutti neri, abbiamo paura di essere scambiati per mercenari», racconta padre Anthony, pastore protestante arrivato fin qui da Benin City. Il racconto è affidato a un colonnello della Marina del raìs che vuole restare anonimo: «Fino a pochi mesi prima, fermavamo i migranti africani e li arrestavamo, chiudendoli nei centri di raccolta. Poi il governo libico ha cominciato a riunirli nei porti, a Sidi Blal come a Zwara, per spedirli in Europa. C´era persino un corso di navigazione molto elementare, che comprendeva l´uso del timone e del sistema Gps. Se ne occupavano sia militari che funzionari civili», dice l´ufficiale.
La conferma viene da Hafez, immigrato sudanese che invece ha deciso di restare in Libia: «Quando il governo libico ha deciso di imbarcare la gente verso l´Europa, pagava tutto lui. Nessuno doveva sborsare niente, come con gli scafisti. Poi, quando il regime ha cominciato a mostrare segni di cedimento, i funzionari hanno preteso una tangente dai migranti, in genere qualche decina di dollari. Ma la intascavano loro direttamente».
Il porticciolo, vicino a Janzour, a pochi chilometri da Tripoli, è ancora un punto di raccolta dei migranti in arrivo dall´Africa sub-sahariana. L´accampamento è l´immagine della povertà: fra gli stracci appesi ad asciugare si diffonde un odore di cibo, da sotto una barca arriva l´eco di una discussione. A curare gli ultimi sfortunati «c´è solo qualche buon samaritano», dice padre Anthony.
L´acqua è arrivata quattro giorni fa, grazie a Médecins sans Frontières. Ora sarà l´Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati a curare lo smistamento. I neri di Sidi Blal erano venuti coltivando un sogno, raggiungere l´Occidente. Ma il sogno gli si è dissolto fra le dita, assieme alla Jamahiriya di Gheddafi. «Quando siamo arrivati qui, le barche migliori erano già partite», dice padre Anthony, indicando l´orizzonte: «Erano rimaste queste, in pessime condizioni. Fra di noi non c´è nessun marinaio, non ce la siamo sentita di affrontare il rischio. Le dico la verità, se mi potessi fidare delle barche, partirei anch´io».
Secondo il pastore, molti africani erano arrivati in Libia nel 2008, speranzosi di poter attraversare il mare. Poi il flusso si è fermato, in parecchi hanno deciso di restare, attratti da possibilità di lavoro migliori che in patria. «A febbraio e a marzo, funzionari del governo libico venivano a proporci la partenza. La meta era l´Italia. Ma negli ultimi due mesi non è partita nessuna barca. Io sono arrivato troppo tardi, altrimenti sarei già via da qui. In Europa ho parenti e amici, dicono che si sta bene», ammette padre Anthony.
Nel centro di Sidi Blal, invece, i neri hanno ancora paura. Racconta un migrante: «Uno di noi è stato annegato dal datore di lavoro libico solo perché aveva chiesto di essere pagato. Altri sono stati incarcerati per mesi, in celle sotterranee, senza motivo. Ero abituato a chiudere la mia porta alle sei di sera e non uscire per nessuna ragione. Qui ho sempre avuto l´impressione che da un momento all´altro potessero attaccarmi, pugnalarmi. Per i libici ero un animale da opprimere, da cacciare». Per Diana Eltahawy, di Amnesty International, «è la riprova dell´abitudine libica di trattare male i neri. Ed è una vergogna che Paesi come l´Italia abbiano firmato accordi con il regime libico per trattenere i migranti senza nessuna garanzia di rispetto per i loro diritti più elementari».
Giampaolo Cadalanu, La Repubblica
La Nato: "Mai raid così accurati"
TRIPOLI - A David Cameron non sono piaciute le accuse sul legame fra i servizi segreti di Sua Maestà e quelli di Muammar el Gheddafi. Il primo ministro inglese ha ordinato un´inchiesta, affidata alla Gibson Inquiry, la stessa commissione che indaga sulle accuse all´Mi-6 di aver torturato cinque britannici rinchiusi a Guantanamo. La commissione Gibson ha subito chiarito che l´incarico «fa già parte del suo mandato».Le accuse ai servizi del Regno Unito erano partite dalla scoperta da parte di Human Rights Watch nell´ufficio del capo dei servizi gheddafiani di documenti riservati che documentano come gli agenti occidentali, e in particolare la Cia e lo Mi-6, avessero lavorato per trasformare il regime di Tripoli in un alleato, dopo la rinuncia di Gheddafi alle armi di sterminio, nel 2003. Nel mirino c´è la vicenda delle rendition: l´abitudine, da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati, di consegnare i sospetti di terrorismo a regimi meno "scrupolosi" per farli interrogare pesantemente. In altre parole, alla Libia, così come ad altri Paesi in pubblico condannati per la mancanza di rispetto dei diritti umani, Usa e Gran Bretagna affidavano i detenuti da torturare. Questo era successo fra gli altri anche all´attuale capo militare di Tripoli, Abdel Hakim Belhaj, catturato dalla Cia e consegnato ai servizi libici. Belhaj adesso chiede «scuse formali» ai servizi segreti dell´Occidente.
Intanto la Nato fa un primo sommario bilancio delle operazioni: secondo il segretario generale Anders Fogh Rasmussen, l´Alleanza atlantica «ha messo in atto il suo mandato con una precisione senza precedenti». Per Rasmussen «nessuna operazione aerea simile nella storia è stata così accurata e così attenta ad evitare danni ai civili».
Sul terreno la situazione è di stallo: mentre i lealisti di Sirte aspettano la scadenza dell´ultimatum ribelle, a Bani Walid non si spara. L´offensiva dei rivoltosi contro la città in mano ai gheddafiani non è ancora partita, ma il cerchio si stringe. Gli ultimi fedelissimi del vecchio regime non sembrano disposti a cedere le armi, ancora meno lo sono i rivoluzionari. Le trattative si sono fermate proprio sul nodo degli armamenti: secondo Saadi Gheddafi, sarebbe colpa del fratello Seif al-Islam, che ha da poco pronunciato un discorso molto aggressivo contro i rivoltosi del Consiglio nazionale di transizione. Saadi ha parlato al telefono con la Cnn, dicendo di essere «poco fuori» da Bani Walid, di non avere notizie del fratello e del padre da due mesi, e di essere pronto a svolgere un ruolo di mediazione fra il Cnt e il vecchio regime, di cui «non ha mai fatto parte». Attualmente le truppe del Cnt sono ferme a 120 chilometri dall´abitato, in attesa di ordini. Alcune fonti ribelli prevedono un attacco massiccio per oggi, a meno che i fedelissimi di Gheddafi non decidano di arrendersi per evitare lo spargimento di sangue.
Giampaolo Cadalanu, La Repubblica
4 Settembre 2011
Peres benedice le primavere arabe "Un mondo nuovo, non la Jihad"
CERNOBBIO - «Può darsi che i jihadisti abbiano avuto un ruolo nella rivolta in Libia, ma a pesare di più sono stati i 42 anni di oppressione del regime, non gli incitamenti degli estremisti islamici. Le rivoluzioni arabe sono già una grande promessa per il Medio Oriente. Ho fiducia nelle giovani generazioni. Il futuro è affidato alla scienza, è costruito da relazioni pacifiche». A 88 anni Shimon Peres, il presidente di Israele, si muove al workshop di Cernobbio con la lentezza di un vecchio saggio, ma con la velocità intellettuale di un ragazzo che sa immaginare un nuovo mondo.Presidente, alla fine di settembre l´Anp di Abu Mazen chiederà un voto all´assemblea Onu per riconoscere uno Stato palestinese. Potrebbero avere l´appoggio del mondo anche se sarà un voto simbolico.
«La posizione di Israele, del popolo, del suo governo, è che uno Stato palestinese dovrà sorgere. La questione non è più il "se", ma "come" si possa raggiungere l´obiettivo garantendo anche la sicurezza di un altro Stato che già esiste: Israele. Abbiamo avuto l´esperienza di Gaza, che una volta diventata indipendente si è trasformata in una base per lanciare attacchi contro Israele. Mi chiedo: con quel voto le Nazioni Unite possono garantire la sicurezza di Israele? L´Onu può fermare il lancio di missili su Israele? Può bloccare il contrabbando di armi dall´Iran, un Paese membro della stessa Onu?».
Si metta nei panni del leader palestinese Abu Mazen: lei non farebbe lo stesso? Non chiederebbe un voto all´Onu per sbloccare un negoziato paralizzato da anni?
«Non sono sicuro del risultato di quel voto. Ho paura che sarà una mera dichiarazione che rinvierà la possibilità di un negoziato vero. Certo, è passato molto tempo, ma la pace richiede tempo: essere impazienti e ottenere solo una dichiarazione non servirà a molto».
Sappiamo che, in accordo col governo Netanyahu, lei ha avuto contatti riservati con la dirigenza palestinese.
«La risposta alle domande di arabi e israeliani sarebbe avere colloqui bilaterali e diretti. Ne sto parlando con i palestinesi, non escludo la possibilità di un accordo diretto fra noi e loro. Lo dico chiaramente: la soluzione è andare a negoziati diretti».
Israele congelerà i fondi dell´Anp, bloccherete la collaborazione con i palestinesi dopo un eventuale voto Onu?
«Sui versamenti non ci sono problemi, c´è stato un breve blocco, c´era un dibattito interno al governo, ma quei soldi appartengono ai palestinesi e vanno versati a loro. Per il resto credo che dovremmo continuare a negoziare».
Un fattore essenziale è il supporto dell´opinione pubblica: la società politica israeliana sta cambiando. Crede che gli israeliani sosterranno la pace?
«Le rispondo con un paradosso: non so se la maggioranza sosterrà la pace, ma di sicuro la pace creerà una maggioranza. Se un primo ministro si presenterà con un progetto di pace, otterrà sostegno. I sondaggi non sono il verdetto finale: sono come i profumi, gradevoli da odorare, pericolosi da bere. Se ci sarà un vero progetto di pace, la pace verrà approvata».
Di fronte a voi, la "primavera" del mondo arabo. Per Israele la rivoluzione più delicata è stata quella in Egitto. Quale sarà il futuro dei rapporti con questo Paese cruciale per la vostra sicurezza?
«Queste rivoluzioni sono già una grande promessa per tutto il Medio Oriente. Per ora, però, abbiamo dei rivoluzionari, non una vera "Rivoluzione": non hanno leader, né un´ideologia, né piani. Hanno la forza dell´età. Le giovani generazioni vedono le cose in maniera differente, in tutto il mondo. Ma far funzionare la macchina del cambiamento non è semplice. Ci vorranno tempo, elezioni e passi successivi. Aggiungo una cosa: non si può cambiare una società se non vengono garantiti uguali diritti alle donne. Una volta il presidente Obama mi ha chiesto: «Chi sono i principali oppositori alla democrazia in Medio Oriente?». Gli ho risposto: i mariti, gli uomini. Non vogliono dare diritti alle donne. La loro libertà è essenziale per la libertà delle società».
Non crede che in Egitto la giunta militare sarà portata a cavalcare i sentimenti anti-israeliani? Arriverà a mettere in dubbio la pace con Israele?
«Non c´è una sola ragione di conflitto fra noi e l´Egitto. È stato il Paese più importante del Medio Oriente, e noi ci auguriamo che rimanga il Paese più solido e importante come l´abbiamo conosciuto. La pace fra noi e l´Egitto è un interesse comune: si fanno molte critiche a Mubarak, ma per 30 anni ha preservato la pace, ha salvato la vita di migliaia di egiziani e di israeliani».
C´è un altro Paese cruciale per voi, la Siria.
«Assad sta mantenendo il potere, ma ha completamente perso la testa. Non puoi rimanere al potere se non hai la testa a posto: ha già ucciso troppi fra i suoi cittadini, non è possibile cancellare quel che ha fatto. Ammiro il coraggio dei cittadini siriani: hanno protestato per mesi, sfidando il fuoco dei fucili, per difendere la loro dignità, la loro libertà. Avendo ordinato di assassinare così tanti cittadini, Assad ha ucciso anche il suo futuro. Credo che il regime abbia raggiunto la sua fine, è solo questione di tempo».
In Libia la scomparsa di Gheddafi potrebbe assegnare un ruolo importante a leader islamisti o jihadisti?
«Può darsi che i jihadisti abbiano avuto un ruolo, ma il ruolo principale nella rivoluzione l´ha avuto Muammar Gheddafi. La rivolta del popolo libico è stata creata da Gheddafi, per i 42 anni della sua oppressione, non dagli incitamenti dei jihadisti. Ha trattato un Paese come una sua proprietà privata, difesa con violenza disumana».
Crede che in Libia la "buona politica" riuscirà a limitare il ruolo di jihadisti e terroristi?
«Io spero di sì, ma le dico una cosa: già il regime di Gheddafi era un regime estremista, terrorista. Hanno fatto attentati, hanno abbattuto aerei carichi di passeggeri innocenti, pensi a Lockerbie. Non dobbiamo dimenticarlo. Il futuro è davanti a noi: non ho mai ceduto alla previsione dello scontro fra civiltà; c´è invece uno scontro fra generazioni, ovunque nel mondo. Io ho fiducia nelle nuove generazioni. Il futuro è globale, è affidato alla scienza, è costruito da relazioni pacifiche. Il problema del Medio Oriente è il cibo, il benessere, la vita dei cittadini. La jihad può rispondere a questi problemi? Si possono mangiare i proiettili a colazione? Non credo, le risposte possono offrircele solo politiche corrette di sviluppo economico. Per questo vengo a Cernobbio, a un convegno in cui ogni volta sento parlare di economia, di sviluppo: questo è lo strumento migliore per la pace. Negoziare per favorire lo sviluppo dei popoli».
Vincenzo Nigro, La Repubblica
Torture e sequestri: così Gheddafi aiutava la Cia
TRIPOLI - Regime canaglia o meno, la Libia di Gheddafi collaborava attivamente con i servizi segreti dell´Occidente. Agli uomini di Tripoli toccava, manco a dirlo, il lavoro sporco: il «trattamento energico» dei sospetti terroristi. In parole povere, la tortura. La Libia faceva parte del programma delle «rendition», il sequestro e la consegna dei sospetti a governi le cui mani erano meno legate dalla normativa sui diritti umani. Oltre alla Libia, gli Usa hanno adoperato questo sistema con il Pakistan, l´Egitto, e altri, comprese appunto nazioni con cui i rapporti restavano difficili. Secondo Peter Bouckaert, di Human Rights Watch, il piano consisteva nel consegnare i sospetti membri di Al Qaeda perché fossero torturati per strappargli informazioni richieste. La collaborazione con i fedelissimi del colonnello, sia da parte della Cia che da parte dei colleghi britannici dell´Mi-6, era iniziata dopo il 2004, l´anno della rinuncia libica alle armi non convenzionali. Anzi, secondo una serie di documenti scoperti nell´ufficio di Moussa Koussa, capo dei servizi libici, gli agenti di Sua Maestà erano pronti persino a fare intercettazioni telefoniche per conto degli amici libici: molto probabilmente per controllare i dissidenti libici rifugiati nel Regno Unito.I documenti sono stati scoperti da Human Rights Watch. Tra questi ci sarebbe anche la bozza di una proposta di discorso di rinuncia alle armi non convenzionali scritto dagli 007 occidentali per il raìs. Per ora non ci sono garanzie sulla loro autenticità. La Cia non conferma, ma Jennifer Youngblood, portavoce dell´agenzia, ha detto al New York Times che «non dev´essere una sorpresa che l´agenzia collabori con governi stranieri per proteggere il Paese dal terrorismo e da altre minacce».Intanto a Tripoli la situazione continua a normalizzarsi: Ali Tarhouni, membro del direttivo del Consiglio nazionale di transizione e ministro "virtuale" del Petrolio, ha presentato un comitato che garantirà la sicurezza della capitale, formato in prevalenza da militari. In altre parole, i checkpoint sono ormai rari, i negozi riaprono e la vita riprende, anche se per ora gli approvvigionamenti restano difficili, e l´acqua manca ancora.
L´ambasciata italiana resta devastata e aperta, ma sul tetto sventola di nuovo il tricolore.
Giampaolo Cadalanu, La Repubblica
3 Settembre 2011
"Road Map" libica. Prima la costituente poi le presidenziali
SOPOT (Polonia) - L' Ue sostiene la delega all' Onu per aiutare la Libia nel non facile processo di stabilizzazione politica, che inizia ad essere delineato dall' autorità temporanea di Tripoli (Cnt) con una «road map» incentrata su un referendum sulla Costituzione entro otto mesi ed elezioni presidenziali e parlamentari un anno dopo. Ma l' Europa intende assumere un ruolo nella ricostruzione e nel rilancio economico del Paese, in vista dell' arrivo dei molti miliardi collegati al regime di Gheddafi in progressivo scongelamento in vari Paesi esteri. E' emerso nella riunione informale dei ministri degli Esteri dell' Ue, a Sopot in Polonia, dove il responsabile della Farnesina Franco Frattini ha annunciato di voler organizzare al più presto un incontro a Roma o Milano tra le massime autorità di Tripoli e le imprese italiane «per mantenere all' Italia il ruolo di primo partner della Libia». Frattini ha spiegato che ieri, dopo l' innalzamento della bandiera italiana nell' ambasciata d' Italia nella capitale libica, i diplomatici della Farnesina «tornano a lavorare con il governo del Cnt che opera già a Tripoli». L' Ue ha pubblicato sulla Gazzetta ufficiale le 28 entità libiche liberate dall' embargo decretato contro il regime di Gheddafi. Tra queste ci sono i porti di Tripoli, Al Khoms, Brega, Ras Lanuf, Zawiya e Zuara, la compagnia aerea «Libyan Arab Airlines», società energetiche e banche. «La Libia è potenzialmente un Paese ricco, fondamentale per l' obiettivo dell' Europa di diversificare le forniture di energia», ha detto il presidente di turno del Consiglio dei ministri degli Esteri Ue, il polacco Radoslaw Sikorski. Il responsabile degli Esteri francese, Alain Juppé, ha affermato che lo scongelamento delle attività e dei fondi consentirà alle nuove autorità di affrontare «le urgenze più immediate». Frattini vedrebbe bene l' istituzione di un «inviato speciale dell' Ue in Libia» per la ricostruzione e gli aiuti umanitari. L' Eni e altre quattro società petrolifere straniere sono tornate già a operare negli impianti libici. Sia Frattini, sia i vertici dell' Eni hanno indicato per metà ottobre il possibile ritorno in funzione del gasdotto tra la Libia e la Sicilia. Esponenti del Cnt hanno confermato il ripristino delle attività energetiche rispettando gli accordi in essere. Hanno poi smentito che l' intervento militare contro Gheddafi, promosso da Francia e Gran Bretagna, possa condizionare i futuri contratti petroliferi. Il segretario di Stato Usa Hillary Clinton ha chiesto di affrontare il caso di Abdel Baset al Megrahi, condannato per l' attentato al volo Pan Am esploso a Lockerbie e rimandato libero in Libia dalla Gran Bretagna per motivi di salute su pressione di Gheddafi. A Sopot, l' Ue ha imposto un embargo contro il petrolio siriano, per convincere il regime di Assad a bloccare la repressione delle opposizioni. L' embargo sarà operativo già da oggi, con la sola esclusione dei contratti in corso per i quali l' Italia ha ottenuto uno slittamento fino al 15 novembre. Frattini ha spiegato che l' Italia assorbe il 30% del petrolio siriano esportato in Europa e ha bisogno di «alcune settimane» per la sistemazione tecnica. I ministri degli Esteri Ue hanno cercato una linea comune sul riconoscimento dello Stato della Palestina esplorando anche l' ipotesi di uno status simile a quello della Città del Vaticano. Germania, Francia, Italia, Spagna e Polonia hanno annunciato una lettera alla responsabile Esteri Ue Catherine Ashton per lanciare la difesa militare comune con il principio della cooperazione rafforzata, che può partire con l' adesione di almeno nove Paesi membri. E che consentirebbe forti risparmi nei bilanci nazionali. 8 mesi previsti per l' istituzione di una Assemblea costituente 20 mesi necessari per arrivare alle elezioni presidenziali. La transizione Verso le elezioni Per 8 mesi il Consiglio nazionale transitorio (Cnt) guiderà la Libia in attesa che un' assemblea eletta rediga la Costituzione. Il trasloco dei leader a Tripoli è previsto per la settimana prossima Petrolio e gas L' Eni e altre 4 società petrolifere straniere sono tornate a operare negli impianti libici. L' Italia si è impegnata a rimettere in funzione il gasdotto Greenstream entro il 15 ottobre Sblocco dei fondi Annunciato l' altro ieri lo «scongelamento» immediato di beni libici bloccati per un valore di 10 miliardi di euro Fine dell' embargo L' Ue ha pubblicato la lista delle 28 entità libiche liberate dall' embargo decretato contro Gheddafi. Tra queste: i porti di Tripoli, Al Khoms, Brega, Ras Lanuf, Zawiya e Zuara, la compagnia aerea Libyan Arab Airlines, società energetiche, banche Le operazioni militari La Nato continuerà i raid finché «la situazione non si sarà stabilizzata».
Caizzi Ivo, Corriere della Sera
Ankara congela i rapporti con Israele
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME - Era il 2005. S' abbracciarono tra fiori e flash: «Da adesso abbiamo un nuovo amico», disse Ariel Sharon, ricevendo a Gerusalemme il premier turco Tayyip Erdogan. Era un secolo fa: il vecchio Arik, pochi mesi dopo, sarebbe caduto in un coma da cui non s' è mai più ripreso; il suo nuovo amico, tempo qualche anno, si sarebbe aggrovigliato in una matassa di liti, dispetti, spari di cui non s' è più visto il bandolo. «Da adesso abbiamo un nuovo nemico», parafrasa un diplomatico israeliano. Da ieri mattina, per l' esattezza: da quando il New York Times ha anticipato il rapporto Onu sulla strage della nave Marmara ed Erdogan, per l' ultima volta chieste (e non ottenute) le scuse ufficiali di Bibi Netanyahu, ha deciso la quasi rottura delle relazioni diplomatiche. Con passi che s' annunciano rapidi. Da mercoledì, se ne devono andare da Ankara l' ambasciatore israeliano Gabby Levi e la sua vice, peraltro già rimpatriati perché a fine mandato, con la rappresentanza ridotta al rango di secondo segretario. E poi: denuncia d' Israele alla Corte dell' Aja; stop all' acquisto di droni, di tank, di caccia israeliani; niente approdo nei porti turchi per i mercantili con la stella di David; sostegno a tutte le iniziative palestinesi in sede Onu; «libera navigazione» nel Mediterraneo orientale, ovvero scortando a Gaza future flotte pacifiste. Ultima freccia: l' ipotesi d' un viaggio dello stesso Erdogan nella Striscia, la tana di Hamas. Tutto per un rapporto di 105 pagine. Quello redatto dalla commissione Onu guidata da un ex premier, il neozelandese Palmer, e incaricata di chiarire il sanguinoso blitz della Marmara: i marò israeliani che una notte di maggio 2010 arrembarono la flottiglia pacifista, decisa a rompere l' embargo di Gaza, si scontrarono con attivisti turchi, spararono, uccisero nove persone. La pubblicazione del rapporto, tormentatissima, è stata rinviata tre volte in un anno e mezzo. Alla fine, spartisce torti e ragioni: a Israele riconosce che il blocco della Striscia è «una misura di sicurezza legittima»; dei turchi, accoglie la protesta per l' uso «eccessivo e irragionevole» della forza. L' Onu ammette che «ci sono seri dubbi» sulla condotta degli attivisti musulmani Ihh, finanziati dal governo di Ankara, armati di sbarre e coltelli, che catturarono tre soldati e ne ferirono altri. Però «Israele non ha dato spiegazioni soddisfacenti sull' uso eccessivo delle armi e sui cadaveri, colpiti da più proiettili, anche alle spalle o da vicino». Alla Turchia - che infatti ne rigetta le conclusioni, mentre Israele le accetta «con riserva» - il rapporto Onu non serve. Nemmeno s' aspetta che sia ufficiale: «Queste misure si dovevano prendere da tempo», ammette il presidente Abdullah Gul. Quel che ora si vuole, dice il ministro degli Esteri, Davutoglu, sono scuse formali e un risarcimento per le vittime: «E' ora che Israele paghi per le sue pretese di stare al di sopra della legge internazionale». Netanyahu si limita a ripetere «il rammarico» per quei morti e non vuole pagare, temendo che ciò passi per un' ammissione di colpa: «Non ci scuseremo mai per un atto d' autodifesa dei nostri soldati». E' esclusa al momento una contromisura, «perché - scrivono i giornali israeliani - il rapporto andava recuperato prima»: dietro la scusa delle scuse c' è una tensione che si trascina da almeno 3 anni. Lo strappo turco complica questo 2011 mediorientale. Dopo i morti di Eilat e la crisi con l' Egitto, che ha minacciato di richiamare l' ambasciatore, Israele perde in poche settimane un altro grande amico. Non solo per gli affari in ballo, tre miliardi di dollari l' anno: il neo-ottomanesimo di Erdogan raccoglie consensi in un' area rimasta senza leader e potrebbe trascinare anche l' ultimo buon vicino, la Giordania. Ad Ankara c' è un premier ambizioso che guarda all' Iran, più che all' Occidente, e una piazza che a questo lo spinge. Embargo Il rapporto Onu Redatto dalla commissione guidata dall' ex premier neozelandese Palmer: 105 pagine Il blitz Nel maggio 2010 i marò israeliani arrembarono la flottiglia pacifista diretta a Gaza: si scontrarono con attivisti turchi, uccidendo 9 persone L' embargo Quando Hamas prese il potere a Gaza nel 2007, Israele ha imposto il bocco «per impedire l' invio di armi nella Striscia». Di fatto permettendo soltanto il passaggio di «aiuti umanitari» La lista proibita Tra i beni bloccati alla frontiera in questi anni (lista compilata dall' Onu): candele, libri, materassi, scarpe, cioccolato, pasta, shampoo, strumenti musicali **** L' incidente Operazione Il 31 maggio 2010 la marina israeliana assale la Mavi Marmara, nave turca diretta a Gaza con lo scopo di forzare il blocco navale di Israele sulla Striscia di Gaza Le vittime Gli scontri tra i commandos israeliani e i pacifisti della Freedom Flotilla causano la morte di nove attivisti turchi oltre che numerosi feriti, tra cui alcuni soldati israeliani.
Francesco Battistini
SOPOT (Polonia) - L' Ue sostiene la delega all' Onu per aiutare la Libia nel non facile processo di stabilizzazione politica, che inizia ad essere delineato dall' autorità temporanea di Tripoli (Cnt) con una «road map» incentrata su un referendum sulla Costituzione entro otto mesi ed elezioni presidenziali e parlamentari un anno dopo. Ma l' Europa intende assumere un ruolo nella ricostruzione e nel rilancio economico del Paese, in vista dell' arrivo dei molti miliardi collegati al regime di Gheddafi in progressivo scongelamento in vari Paesi esteri. E' emerso nella riunione informale dei ministri degli Esteri dell' Ue, a Sopot in Polonia, dove il responsabile della Farnesina Franco Frattini ha annunciato di voler organizzare al più presto un incontro a Roma o Milano tra le massime autorità di Tripoli e le imprese italiane «per mantenere all' Italia il ruolo di primo partner della Libia». Frattini ha spiegato che ieri, dopo l' innalzamento della bandiera italiana nell' ambasciata d' Italia nella capitale libica, i diplomatici della Farnesina «tornano a lavorare con il governo del Cnt che opera già a Tripoli». L' Ue ha pubblicato sulla Gazzetta ufficiale le 28 entità libiche liberate dall' embargo decretato contro il regime di Gheddafi. Tra queste ci sono i porti di Tripoli, Al Khoms, Brega, Ras Lanuf, Zawiya e Zuara, la compagnia aerea «Libyan Arab Airlines», società energetiche e banche. «La Libia è potenzialmente un Paese ricco, fondamentale per l' obiettivo dell' Europa di diversificare le forniture di energia», ha detto il presidente di turno del Consiglio dei ministri degli Esteri Ue, il polacco Radoslaw Sikorski. Il responsabile degli Esteri francese, Alain Juppé, ha affermato che lo scongelamento delle attività e dei fondi consentirà alle nuove autorità di affrontare «le urgenze più immediate». Frattini vedrebbe bene l' istituzione di un «inviato speciale dell' Ue in Libia» per la ricostruzione e gli aiuti umanitari. L' Eni e altre quattro società petrolifere straniere sono tornate già a operare negli impianti libici. Sia Frattini, sia i vertici dell' Eni hanno indicato per metà ottobre il possibile ritorno in funzione del gasdotto tra la Libia e la Sicilia. Esponenti del Cnt hanno confermato il ripristino delle attività energetiche rispettando gli accordi in essere. Hanno poi smentito che l' intervento militare contro Gheddafi, promosso da Francia e Gran Bretagna, possa condizionare i futuri contratti petroliferi. Il segretario di Stato Usa Hillary Clinton ha chiesto di affrontare il caso di Abdel Baset al Megrahi, condannato per l' attentato al volo Pan Am esploso a Lockerbie e rimandato libero in Libia dalla Gran Bretagna per motivi di salute su pressione di Gheddafi. A Sopot, l' Ue ha imposto un embargo contro il petrolio siriano, per convincere il regime di Assad a bloccare la repressione delle opposizioni. L' embargo sarà operativo già da oggi, con la sola esclusione dei contratti in corso per i quali l' Italia ha ottenuto uno slittamento fino al 15 novembre. Frattini ha spiegato che l' Italia assorbe il 30% del petrolio siriano esportato in Europa e ha bisogno di «alcune settimane» per la sistemazione tecnica. I ministri degli Esteri Ue hanno cercato una linea comune sul riconoscimento dello Stato della Palestina esplorando anche l' ipotesi di uno status simile a quello della Città del Vaticano. Germania, Francia, Italia, Spagna e Polonia hanno annunciato una lettera alla responsabile Esteri Ue Catherine Ashton per lanciare la difesa militare comune con il principio della cooperazione rafforzata, che può partire con l' adesione di almeno nove Paesi membri. E che consentirebbe forti risparmi nei bilanci nazionali. 8 mesi previsti per l' istituzione di una Assemblea costituente 20 mesi necessari per arrivare alle elezioni presidenziali. La transizione Verso le elezioni Per 8 mesi il Consiglio nazionale transitorio (Cnt) guiderà la Libia in attesa che un' assemblea eletta rediga la Costituzione. Il trasloco dei leader a Tripoli è previsto per la settimana prossima Petrolio e gas L' Eni e altre 4 società petrolifere straniere sono tornate a operare negli impianti libici. L' Italia si è impegnata a rimettere in funzione il gasdotto Greenstream entro il 15 ottobre Sblocco dei fondi Annunciato l' altro ieri lo «scongelamento» immediato di beni libici bloccati per un valore di 10 miliardi di euro Fine dell' embargo L' Ue ha pubblicato la lista delle 28 entità libiche liberate dall' embargo decretato contro Gheddafi. Tra queste: i porti di Tripoli, Al Khoms, Brega, Ras Lanuf, Zawiya e Zuara, la compagnia aerea Libyan Arab Airlines, società energetiche, banche Le operazioni militari La Nato continuerà i raid finché «la situazione non si sarà stabilizzata».
Caizzi Ivo, Corriere della Sera
Ankara congela i rapporti con Israele
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME - Era il 2005. S' abbracciarono tra fiori e flash: «Da adesso abbiamo un nuovo amico», disse Ariel Sharon, ricevendo a Gerusalemme il premier turco Tayyip Erdogan. Era un secolo fa: il vecchio Arik, pochi mesi dopo, sarebbe caduto in un coma da cui non s' è mai più ripreso; il suo nuovo amico, tempo qualche anno, si sarebbe aggrovigliato in una matassa di liti, dispetti, spari di cui non s' è più visto il bandolo. «Da adesso abbiamo un nuovo nemico», parafrasa un diplomatico israeliano. Da ieri mattina, per l' esattezza: da quando il New York Times ha anticipato il rapporto Onu sulla strage della nave Marmara ed Erdogan, per l' ultima volta chieste (e non ottenute) le scuse ufficiali di Bibi Netanyahu, ha deciso la quasi rottura delle relazioni diplomatiche. Con passi che s' annunciano rapidi. Da mercoledì, se ne devono andare da Ankara l' ambasciatore israeliano Gabby Levi e la sua vice, peraltro già rimpatriati perché a fine mandato, con la rappresentanza ridotta al rango di secondo segretario. E poi: denuncia d' Israele alla Corte dell' Aja; stop all' acquisto di droni, di tank, di caccia israeliani; niente approdo nei porti turchi per i mercantili con la stella di David; sostegno a tutte le iniziative palestinesi in sede Onu; «libera navigazione» nel Mediterraneo orientale, ovvero scortando a Gaza future flotte pacifiste. Ultima freccia: l' ipotesi d' un viaggio dello stesso Erdogan nella Striscia, la tana di Hamas. Tutto per un rapporto di 105 pagine. Quello redatto dalla commissione Onu guidata da un ex premier, il neozelandese Palmer, e incaricata di chiarire il sanguinoso blitz della Marmara: i marò israeliani che una notte di maggio 2010 arrembarono la flottiglia pacifista, decisa a rompere l' embargo di Gaza, si scontrarono con attivisti turchi, spararono, uccisero nove persone. La pubblicazione del rapporto, tormentatissima, è stata rinviata tre volte in un anno e mezzo. Alla fine, spartisce torti e ragioni: a Israele riconosce che il blocco della Striscia è «una misura di sicurezza legittima»; dei turchi, accoglie la protesta per l' uso «eccessivo e irragionevole» della forza. L' Onu ammette che «ci sono seri dubbi» sulla condotta degli attivisti musulmani Ihh, finanziati dal governo di Ankara, armati di sbarre e coltelli, che catturarono tre soldati e ne ferirono altri. Però «Israele non ha dato spiegazioni soddisfacenti sull' uso eccessivo delle armi e sui cadaveri, colpiti da più proiettili, anche alle spalle o da vicino». Alla Turchia - che infatti ne rigetta le conclusioni, mentre Israele le accetta «con riserva» - il rapporto Onu non serve. Nemmeno s' aspetta che sia ufficiale: «Queste misure si dovevano prendere da tempo», ammette il presidente Abdullah Gul. Quel che ora si vuole, dice il ministro degli Esteri, Davutoglu, sono scuse formali e un risarcimento per le vittime: «E' ora che Israele paghi per le sue pretese di stare al di sopra della legge internazionale». Netanyahu si limita a ripetere «il rammarico» per quei morti e non vuole pagare, temendo che ciò passi per un' ammissione di colpa: «Non ci scuseremo mai per un atto d' autodifesa dei nostri soldati». E' esclusa al momento una contromisura, «perché - scrivono i giornali israeliani - il rapporto andava recuperato prima»: dietro la scusa delle scuse c' è una tensione che si trascina da almeno 3 anni. Lo strappo turco complica questo 2011 mediorientale. Dopo i morti di Eilat e la crisi con l' Egitto, che ha minacciato di richiamare l' ambasciatore, Israele perde in poche settimane un altro grande amico. Non solo per gli affari in ballo, tre miliardi di dollari l' anno: il neo-ottomanesimo di Erdogan raccoglie consensi in un' area rimasta senza leader e potrebbe trascinare anche l' ultimo buon vicino, la Giordania. Ad Ankara c' è un premier ambizioso che guarda all' Iran, più che all' Occidente, e una piazza che a questo lo spinge. Embargo Il rapporto Onu Redatto dalla commissione guidata dall' ex premier neozelandese Palmer: 105 pagine Il blitz Nel maggio 2010 i marò israeliani arrembarono la flottiglia pacifista diretta a Gaza: si scontrarono con attivisti turchi, uccidendo 9 persone L' embargo Quando Hamas prese il potere a Gaza nel 2007, Israele ha imposto il bocco «per impedire l' invio di armi nella Striscia». Di fatto permettendo soltanto il passaggio di «aiuti umanitari» La lista proibita Tra i beni bloccati alla frontiera in questi anni (lista compilata dall' Onu): candele, libri, materassi, scarpe, cioccolato, pasta, shampoo, strumenti musicali **** L' incidente Operazione Il 31 maggio 2010 la marina israeliana assale la Mavi Marmara, nave turca diretta a Gaza con lo scopo di forzare il blocco navale di Israele sulla Striscia di Gaza Le vittime Gli scontri tra i commandos israeliani e i pacifisti della Freedom Flotilla causano la morte di nove attivisti turchi oltre che numerosi feriti, tra cui alcuni soldati israeliani.
Francesco Battistini
2 Settembre 2011
"La missione Nato in Libia continua" i Grandi a Parigi scongelano 15 miliardi
PARIGI - La bandiera rosso, verde e nero sventola all´Eliseo. È l´unico simbolo di un Paese che deve ancora nascere. Ma l´anno zero della "nuova Libia", come l´hanno definita ieri Nicolas Sarkozy e David Cameron, è cominciato. Le oltre 60 delegazioni riunite a Parigi su invito del presidente francese e del premier britannico hanno tracciato una road map per la transizione verso la democrazia. Al primo punto, lo scongelamento dei fondi del regime libico bloccati all´estero, oltre 50 miliardi di euro, che il Consiglio nazionale di transizione (Cnt) reclama per affrontare l´emergenza umanitaria e la lunga ricostruzione. Solo una minima parte delle somme è stata già messa a disposizione degli insorti. «C´è un accordo unanime per sbloccare i fondi», ha detto Sarkozy. Almeno 15 miliardi dovrebbero essere subito disponibili. Per ulteriori somme, sarà necessaria una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell´Onu, osteggiata da Russia e Cina.L´altro nodo diplomatico è il prolungamento dei bombardamenti Nato, il cui mandato scade a fine mese. «Le operazioni militari andranno avanti finché sarà necessario», ha annunciato il presidente francese, auspicando «l´inizio di una nuova politica autorizzata dall´Onu, che metta la forza militare al servizio della protezione delle popolazioni che rischiano di essere martirizzate dai loro dirigenti». Per il segretario di Stato Hillary Clinton, si tratta di «evitare il massacro di civili». Incertezza anche intorno al dispiegamento di una forza Onu, chiesta da Ban Ki Moon, ma che non convince tutti i dirigenti del Cnt. Quanto alla sorte del leader libico Gheddafi, «spetta ai libici decidere se, e dove, dovrà essere giudicato», ha detto Sarkozy.
L´ex gruppo di contatto, ribattezzato "Amici della Libia", ha voluto suggellare la collaborazione con alcuni Paesi arabi. «Non c´è conflitto tra Occidente e Oriente», ha ribadito Sarkozy.
In occasione del vertice, la Russia si è decisa a riconoscere il Cnt, la Cina ha fatto sapere di «rispettare le scelte del popolo libico», e persino l´Algeria ha garantito l´appoggio al nuovo governo di Tripoli.
La data scelta per l´incontro all´Eliseo non è casuale: il 1 settembre di 42 anni fa nasceva il regime del raìs. Dietro le quinte, si è discusso dei nuovi equilibri economici. Secondo Libération, la Francia avrebbe già siglato un accordo con i ribelli per accaparrarsi oltre un terzo del petrolio del Paese. Notizia smentita dal delegato del Cnt, Guma al Gamaty. I contratti, ha detto, saranno stipulati «sulla base del merito e non per favoritismi politici». Il contrario di quello che Abdel Jalil, il numero uno del Cnt, aveva promesso la settimana scorsa. Gli interessi di Parigi in Libia non sono un mistero. Nell´era Gheddafi, la Total è sempre stata seconda all´Eni. Le riserve petrolifere della Libia sono stimate in 46 miliardi di barili. Per la spartizione del "bottino", ci sono in prima linea anche Stati Uniti e Cina.
Anais Ginori, La Repubblica
Nelle strade di Tripoli i feudi delle tribù
TRIPOLI. Se ti svegli presto trovi la città vuota. Non un cane sul lungomare pulito, elegante, con qualche automobile carbonizzata e le ruote all´aria. Montagne di immondizie nei vicoli della Medina. Folate di puzza di pesce andato a male davanti a certi negozi sprangati ma non stagni. Plastiche e cartacce sulla piazza Verde che non si chiama più cosi, ma «dei Martiri». E qua e là, agli angoli delle strade, qualche ribelle insonnolito, con il kalaschnikov tra le gambe, che non ti getta neanche uno sguardo.Si festeggia per tre giorni la fine del digiuno del Ramadan (soltanto da domani si lavora) e la gente va a letto tardi, spossata anche da sei mesi di guerra civile e dall´euforia per una libertà carica di promesse e di incertezze. Vista così, di primo mattino, è una città che ha fatto baldoria fino alle ore piccole e dove nessuno ha avuto voglia di riordinare prima di andare a dormire. Per quel che mostra, allungata com´è sul Mediterraneo, e per quel che ti fa immaginare, Tripoli è un vasto, solenne palcoscenico, in cui si svolgerà una rappresentazione di cui sfido chiunque a indovinare la trama. Il tema è la democrazia. Ma in che versione e attraverso quali drammi? O tragedie?
Anzitutto un apprezzamento. Niente saccheggi dopo il crollo del regime. Violenze, vendette, si, ce ne sono state. Ma partiti i gheddafisti si sono smorzate. E adesso Tripoli è stesa davanti a te, indifesa, stanca, esposta alle aggressioni, alle riconquiste. E non accade nulla. La guerra, almeno qui, è dunque finita sul serio. Il raìs è nascosto, cerca una fine adeguata al suo orgoglio e alla sua vanità; e il figlio fedele, Seif el Islam, urla nelle radio siriane che ventimila combattenti sono pronti alla rivincita, a Sirte, a Misurata, a Sabha. Ma la sua voce si perde inascoltata nella capitale che dorme. E che al risveglio si scoprirà ancora assetata, sporca, senz´acqua. O quasi. Infatti il Grande Fiume artificiale, il ciclopico acquedotto costato tredici anni di lavoro e trenta miliardi di dollari, che dissetava Tripoli con tubi lunghi 3.600 chilometri, lungo i quali scorreva l´acqua trovata nel Sahara, sarebbe sotto il controllo dei gheddafisti del Sud. I quali da laggiù assediano a modo loro, con la sete, la capitale ribelle.
Con un tripolino che ti aiuta a leggere i graffiti in arabo capisci che la metropoli è presidiata da gruppi concorrenti se non proprio rivali. Ognuno di questi gruppi, o brigate, occupa un quartiere, e ha scritto con lo spray il proprio nome sui muri per annunciare chi esercita l´autorità in quel luogo. Le Aquile di Misurata, arrivate in più di cinquemila dal porto mediterraneo in cui si è combattuto per mesi, si sono installate nella zona del porto, della Banca centrale e dell´ufficio del primo ministro. E adesso un vistoso graffito annuncia "piazza Misurata". I ribelli di Zintan, città sulle montagne occidentali, controllano l´ aeroporto. Ed è scritto all´ingresso. I berberi di Yafran occupano la piazza centrale, e lo fanno sapere: "Qui ci sono i rivoluzionari di Yafran". Quelli della Brigata Tripoli erano acquartierati nella zona in cui abito, quasi in riva al mare. La sera dividevo la cena con loro, ma sono partiti. Forse in direzione di Misurata, dove si potrebbe combattere allo scadere dell´ultimatum lanciato ai gheddafisti dal Consiglio nazionale di transizione. Di fatto il governo provvisorio.
Le brigate sembrano quasi indipendenti. Hanno costituito dei piccoli feudi. Ognuna afferma con fierezza l´appartenenza alla propria provincia, che spesso coincide con il clan o la tribù. E non si risparmia nel vantare le proprie imprese belliche. Le Aquile di Misurata rivendicano successi militari attribuiti alla Brigata Tripoli. E la Brigata Tripoli non si lascia fare. Sostiene con fermezza che le vittorie aggiudicatele sono autentiche. I berberi di Yafran vantano i contributi rivelatisi decisivi nella conquista della capitale, in particolare dei bunker del raìs. A queste polemiche, al limite delle rivalità, si aggiungono quelle tra gli islamisti e i laici. Le une e le altre mettono in luce la crisi di quella che dovrebbe essere l´autorità centrale, cioè il Consiglio Nazionale di Transizione. Il quale, a parte l´arrivo di qualche rappresentante, si fa aspettare a Tripoli. L´insicurezza non giustifica più il ritardo del suo insediamento nella capitale. E´ tempo di disciplinare il mosaico di forze armate che si è formato nella capitale.
Ovunque, nei paesi della Primavera araba, gli islamisti sono stati colti di sorpresa dall´insurrezione contro i raìs: in Tunisia, in Egitto e anche in Libia. Nel frattempo hanno però recuperato. La guerra civile ha favorito i jihadisti libici, molti dei quali avevano alle loro spalle una lunga esperienza di lotta armata in Afghanistan e in Iraq. I veterani del Gruppo combattente islamico libico, sciolto da tempo ma per anni alleato di Al Qaeda e dei Taliban, hanno fatto alla svelta a creare unità più abili di quelle degli shebab inesperti. I vecchi jihadisti hanno subito riconosciuto l´aiuto decisivo della Nato, ne hanno usufruito senza esaltarlo, e hanno stretto alleanze, sia pur non sempre facili, con i gruppi laici e liberali.
Il caso di Abdel Hakim Belahj (conosciuto anche come Abdel Hakim al Hasadi) è il più noto. Fondatore del Gruppo combattente islamico libico, e reduce dall´Afghanistan e dall´Iraq, oltre che da numerose prigioni, Belahj è adesso il governatore militare di Tripoli. A nominarlo a quella carica non è stato il Consiglio nazionale di transizione ma gli uomini della Brigata Tripoli, da lui organizzata (con l´aiuto della Cia), e comandata fino alla conquista dei bunker di Gheddafi.
La presenza di Belahj suscita perplessità e sospetti. Ma chi lo conosce e ha seguito le sue lunghe e tormentate revisioni ha fiducia in lui. Oltre a sottolineare le evidenti doti di comando, chi lo ha frequentato non esita a esaltare la sua attuale moderazione politica. Lo stesso presidente del Consiglio nazionale di transizione, il giudice Mustafa Abdel Jalil, pur avendo subito la sua nomina a governatore militare di Tripoli, si è fatto accompagnare da Belahj a Doha, nel Qatar, per l´incontro con la Nato. E lo ha presentato ai dirigenti dell´Alleanza affinché dimostrasse la sua affidabilità. La situazione di questi giorni a Tripoli lascia comunque prevedere la forte presenza di un partito islamista nella Libia liberata da Gheddafi. La scossa politica nel mondo musulmano, anche in quello non arabo e sciita, è robusta a tal punto da spingere Ahmadinejad, il presidente iraniano, a riconoscere di gran fretta il nuovo regime di Tripoli. Un regime nato con il contributo decisivo della Nato e con quello, per molti inquietante, degli islamisti. Ma, come dicono i laici di Bengasi, un islamista disposto a rispettare le leggi democratiche è un cittadino come gli altri.
Bernardo Valli, La Repubblica
Il raìs: resistiamo, non siamo donne Ma il suo premier lo abbandona
TRIPOLI - L' ultimo tentativo arriva attraverso la tv, con un' emittente ancora fedele: «Il popolo libico non si inginocchia, non si arrende. Non siamo donne», dice Muhammar Gheddafi ai microfoni del canale Al Rai, basato in Siria. Dieci minuti di messaggio inteso a incoraggiare gli ultimi sostenitori del regime, assediati a Sirte, e a ribadire che non si tratta di una sollevazione contro il tiranno, ma di un' impresa colonialista, da combattere fino alla morte. «Ci saranno enormi sacrifici per la libertà, ma alla fine la Nato crollerà, come crollerà la fedeltà verso la Nato dei traditori. Mettete la Libia a ferro e fuoco, trasformatela in un inferno». Il canale tv è lo stesso utilizzato mercoledì dal figlio Seif al-Islam per lanciare un simile appello alla resistenza. Ma proprio la scelta di un' emittente basata all' estero, mentre gli uffici di Jamahiriya tv sul lungomare di Tripoli ieri erano vuoti, pacificamente sorvegliati da pochi miliziani, conferma che il clan Gheddafi non sembra avere più nessuna presa sul popolo libico. Resta naturalmente la roccaforte di Sirte, a cui ieri il Consiglio nazionale di transizione ha offerto una proroga di una settimana per l' ultimatum: arrendersi o morire. Secondo gli analisti, è un segno che le trattative per la pace vanno avanti, forse anche grazie all' intervento del figlio Saadi, che chiede «una tregua per mettere fine al bagno di sangue». E non è detto che i fedelissimi del raìs siano contenti di sacrificare la vita, se lo stesso colonnello ha preferito lasciare Sirte per rifugiarsi forse ospite di tribù tuarega Bani Walid, 150 chilometri a Sud Est della capitale, assieme al primogenito Seif e al capo dei servizi segreti, Abdullah al-Senoussi, o forse per riparare nel deserto, a Sabha, 750 chilometri da Tripoli. L' intero clan di Gheddafi si sta sfaldando: nonostante le smentite via e-mail, il figlio Saadi ha preso la testa dei "moderati" e sembra disponibile alla resa, in cambio di un ruolo per la famiglia nella Libia di domani. Ma ieri alla lista dei "traditori" si è aggiunto anche il premier, Ali al-Mahmoudi al-Baghdadi, che ha abbandonato il Colonnelloe ha abbracciato la causa della rivoluzione, con un intervento in tv sull' emittente Al Arabiya. Ieri poi è arrivato per il Cnt anche il riconoscimento della Russia, che ha accettato di considerare il fronte rivoluzionario come rappresentante legittimo della Libia. La situazione va normalizzandosi anche a Tripoli: ieri sono arrivati i primi diplomatici italiani, che per ora apriranno una rappresentanza del nostro Paese nei locali dell' ex Istituto italiano di cultura, perché i locali dell' ambasciata sono ancora inagibili dopo la devastazione dei gheddafiani.Giampaolo Cadalanu
Dieci miliardi alla nuova Libia
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI - Davanti ai due «amici libici» (il presidente del Cnt Mustafa Abdel Jalil e il premier Mahmoud Jibril), Sarkozy ricorda che «i libici si sono liberati da soli, noi li abbiamo solo aiutati». Alla fine della Conferenza dei Paesi amici della Libia organizzata a Parigi, il presidente francese ha reso omaggio al coraggio degli insorti, e ha ricordato che «decine di migliaia di vite sono state salvate grazie all' intervento militare». Sul palco, Sarkozy è affiancato dal premier britannico David Cameron, dal segretario generale dell' Onu Ban Ki Moon, e dall' altro protagonista della missione, l' emiro del Qatar Hamad Ben Khalifa Al-Thani, che ha sottolineato che l' azione della Nato «si è resa necessaria perché i Paesi arabi non sono stati in grado di compierla in prima persona». È stata la conferenza della transizione «per evitare un nuovo Iraq», e della costruzione di un consenso più ampio: se 21 Paesi avevano partecipato al summit del 19 marzo che si concluse con il primo raid aereo francese, ieri erano 63 i Paesi rappresentati all' Eliseo, con la vistosa assenza del Sudafrica - «cercherò di convincere il presidente Zuma», ha detto Sarkozy - e la presenza significativa del ministro degli Esteri dell' Algeria, il Paese che nelle ultime giornate rischiava di assumere la delicata posizione di fiancheggiatore della resistenza di Gheddafi. Al di là delle dichiarazioni politiche di intesa tra Est e Ovest, di sostegno alle democrazie nascenti, di ringraziamento a Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Qatar e Italia (nelle parole del presidente Abdel Jalil), sono state prese alcune decisioni per aiutare la nuova Libia che si sta formando. «La Nato e gli alleati continueranno le operazioni militari fino a quando la situazione non si sarà stabilizzata e il nuovo governo potrà insediarsi a Tripoli», ha detto il premier britannico Cameron. Poi è stato deciso lo sblocco dei beni del passato regime congelati all' estero: «Il denaro preso da Gheddafi deve tornare ai libici. Siamo tutti impegnati a sbloccare il denaro della Libia di ieri per finanziare lo sviluppo della Libia di oggi», ha detto Sarkozy, che ha annunciato la messa a disposizione immediata di 10 miliardi di euro. Quanto all' Italia, «ci siamo impegnati per rimettere in funzione il gasdotto Greenstream entro il 15 ottobre», ha detto il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, che ha aggiunto: «Forniremo aiuto con i nostri carabinieri per formare la polizia e abbiamo messo a disposizione delle motovedette per il controllo dei confini. Inoltre forniremo con l' Eni il gas alla popolazione. L' Italia è e sarà lì per far ripartire questo popolo e farlo divenire democratico». Sul destino di Gheddafi, la priorità non è trascinarlo davanti al tribunale dell' Aja: Cameron e Sarkozy hanno ribadito che «deve essere arrestato» e sta ai libici «decidere liberamente se deve essere giudicato e dove deve essere giudicato». Le decisioni Il vertice Si è tenuta ieri a Parigi la Conferenza dei Paesi amici della Libia I fondi Il presidente francese Nicolas Sarkozy ha annunciato la messa a disposizione immediata di 10 miliardi di euro L' impegno Il premier britannico David Cameron ha detto che «la Nato e gli alleati continueranno le operazioni militari fino a quando la situazione non si sarà stabilizzata e il nuovo governo potrà insediarsi a Tripoli» L' Italia Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha ribadito l' impegno dell' Italia: «Ci siamo impegnati per rimettere in funzione il gasdotto Greenstream entro il 15 ottobre».
Stefano Montefiori, Corriere della Sera
Il Raìs rifiuta la resa «Le tribù sono con me Farò terra bruciata»
TARHUNA — Non c'è confine definito tra le linee dei ribelli e delle milizie di Gheddafi. I posti di blocco sono abbandonati da almeno ventiquattr'ore. La terra di nessuno è percorsa da qualche sparuta vettura che dribbla tra quattro camion di munizioni e una decina di jeep incenerite dai missili di precisione della Nato, in un tratto di provinciale non più lungo di 20 chilometri. L'ultima barricata controllata dalla guerriglia rivoluzionaria si trova a Suq Al Khamis: casupole basse, fattorie agricole, negozietti semichiusi con gli agricoltori che vendono uva, angurie e meloni direttamente da cassette appoggiate sull'asfalto. Fa un caldo opprimente, reso ancora piu' fastidioso dall'olezzo delle immondizie non raccolte e sparse un poco dovunque. «Benvenuti. Potete andare tranquilli, qui di gheddafiani neppure l'ombra, sono battuti, si nascondono», gridano i ragazzini con i Kalashnikov a tracolla, regalando rami carichi di datteri semiacerbi.Ma non è vero per nulla. È l'ennesima incognita di questa guerra civile dove le mappe geografiche degli spostamenti di truppe variano di continuo e le certezze della sicurezza abdicano per affidarsi alla buona stella. Appena dopo Suq Al Khamis infatti s'incontrano solo postazioni dei ribelli vuote, silenziose, spettrali. Sono state abbandonate quattro giorni fa, per permettere alla Nato di eliminare mezzi e postazioni nemiche senza il rischio di colpire gli alleati. Ogni tanto una bandiera verde impolverata sventola da un pilone della corrente. E quando entri alla periferia di Tarhuna quasi non ti accorgi di essere arrivato al cuore delle tribù ancora legate a filo doppio al Colonnello. Tra le prime case c'è il bivio che in 90 chilometri conduce a Bani Walid, la capitale della tribù dei Warfalla, un milione di persone, praticamente un sesto di tutta la popolazione libica. Due anziani accovacciati all'ombra proiettata sul marciapiede dall'edificio della loro macelleria riportano rapidamente alla realtà. «Qui siamo tutti rivoluzionari», esclamano. Perché allora non bruciano le bandiere verdi come fanno tutti poco più verso valle? Specificano che la loro rivoluzione è quella di Gheddafi nel 1969, non le sommosse del 17 febbraio. Quindi aggiungono: «Viva la lotta del Colonnello contro i topi collaborazionisti e gli invasori della Nato. Moriremo per lui». Così ieri siamo venuti a vedere sul terreno quello che potrebbe diventare il campo di battaglia delle prossime, eventuali, terribili, tensioni tribali.
Spesso i leader urbani della rivoluzione non accettano di affrontare il tema, eppure esiste un Paese rurale ancora frazionato. Finora la guerra si è giocata in prevalenza tra milizie in spostamento rapido e dove i ribelli sembravano godere del sostegno della maggioranza della popolazione. Ma non a Sirte e soprattutto non qui, tra Tarhuna e Bani Walid, dove Gheddafi ha sempre raccolto consensi entusiastici. Per decenni ha costruito il suo potere sul divide et impera, sulle frizioni secolari tra Cirenaica e Tripolitania, sullo scontro identitario tra Libia araba, africana-sahariana e berbera. Proprio per evitare inutili bagni di sangue, da Bengasi è stato prorogato l'ultimatum sino al 10 di settembre, avrebbe dovuto scadere domani. «Abbiamo preso contatto con i leader tribali delle regioni contese, speriamo di convincerli a deporre le armi e accettare il nuovo corso democratico», confermano tra le fila della rivoluzione.
Eppure Gheddafi non fa che versare benzina sul fuoco delle divisioni tribali. Sono in tanti a ritenere che possa essere nascosto tra i fedelissimi di Bani Walid. Da qui, molto più che dalla città circondata di Sirte, gli sarebbe abbastanza facile all'occorrenza sparire verso il Sahara africano. E comunque continua a lanciare il suo mantra di battaglia. Ieri pomeriggio la tv siriana Al-Rai ha diffuso un suo messaggio dai toni bellicosi: «Vincere o morire. A Sirte, Bani Walid e Sebha le tribù sono armate. Che scendano subito in campo a combattere. Dispongono di armi e munizioni a sufficienza per battere la Nato e i traditori libici al suo servizio». Ieri avrebbe voluto festeggiare in Piazza Verde a Tripoli (già ribattezzata con il vecchio nome monarchico di Piazza dei Martiri) il 42esimo anniversario della sua presa del potere e si trova invece braccato. Anche il suo ex premier, Baghdadi Al Mahmoudi, è passato ieri dalla parte dei ribelli. Giura che combatterà sino alla fine il vecchio dittatore. Se non dovesse farcela, la Libia dovrà sprofondare con lui. «Venite con noi a battervi contro gli imperialisti, gli stranieri che vogliono impossessarsi del nostro petrolio. Piuttosto che arrenderci metteremo la Libia a ferro e fuoco». Non stupisce che il leader del Consiglio nazionale transitorio, Mustafa Abdel Jalil, sostenga che Gheddafi va preso a tutti i costi, vivo o morto. «Wanted, dead or alive», è scritto sui manifesti per le strade di Tripoli, che lo mostrano in possibili travestimenti, avvolto in un foulard o con la testa rasata. Altrimenti il Raìs resterà una minaccia permanente per la Libia del nuovo corso.
Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera
Lo jihadista che disse no a Bin Laden
TRIPOLI. Non mi stupisce l´espressione dimessa, da maturo seminarista, di Abdel Hakim Belhaj, che incontro nella base aerea di Mitiga, ai margini della città. Chi sa esercitare il comando, sul campo, di solito non è uno sbruffone nella vita normale.Nasconde la durezza alternando humour e candore. Inoltre su Belhaj pesa il passato religioso. È rimasta forse nel suo atteggiamento la traccia islamista. Un islamista dedito alla jihad armata, come è stato il suo caso, è anche un soldato a suo modo mistico. Abdel Hakim Belhaj nega di avere praticato il terrorismo, anche se un tempo era alleato di Al Qaeda e dei Taliban, e diretto interlocutore di Bin Laden e del Mullah Omar. Adesso è governatore militare della capitale, liberata con il decisivo contributo della Nato e la generale benedizione occidentale. L´acrobazia ideologica è spettacolare. Mi sorprendo ad osservare Belhaj con la curiosità che merita un personaggio con un itinerario politico, militare, teologico da capogiro. Sulla sua faccia giovanile non ci sono i segni della tormentata, grande avventura, che fa di lui uno dei personaggi più contestati ed esaltati della nuova Libia. Ed anche uno dei più interessanti. Quindi discussi. Sospetti.
È inevitabile chiedergli quando ha incontrato l´ultima volta Bin Laden e lui risponde subito, con precisione, ed anche con un tono un po´ beffardo. Nel 2000. Vale a dire un anno prima dell´attacco alle Torri gemelle. «Mi ha chiamato lui. Voleva che noi libici del Gruppo combattente islamico ci unissimo alla lotta di Al Qaeda contro cristiani ed ebrei. Gli ho detto che i cristiani esistevano prima dei musulmani, e gli ebrei prima dei cristiani, e che Al Qaeda non rappresentava l´Islam. Perché non se la prendeva anche con i cinesi che adorano i sassi?». Belhaj voleva probabilmente dire le pietre, i monumenti buddisti, distrutti dai Taliban iconoclasti in Afghanistan. Fatto è che rifiutò, stando a quel mi ha detto, l´invito di Bin Laden, e così non ha combattuto contro gli americani l´anno successivo. Si era battuto contro i sovietici, alla fine degli Anni Ottanta, ma non voleva riprendere la lotta armata a fianco di Al Qaeda. Gli americani l´hanno tuttavia arrestato nel 2004, all´aeroporto di Kuala Lumpur in Malesia, dove era in transito con moglie e figli. Trasferito in una prigione di Bangkok sarebbe stato torturato da uomini della Cia. E poi consegnato ai libici.
Questi fatti, alcuni dei quali sommariamente affrontati nell´incontro, e per me incontrollabili, sono analizzati da tempo dalle intelligence occidentali, in particolare dagli americani. I quali hanno espresso la loro perplessità e chiesto chiarimenti ai responsabili politici di Bengasi. Il timore è evidente. I vecchi jihadisti come Belhaj (noto anche come Abu Abdullah al-Sadiq), che hanno partecipato alla fase decisiva dell´insurrezione contro Gheddafi, potrebbero rivelarsi col tempo "cavalli di troia" di Al Qaeda.
Pochi giorni fa, il 22 agosto, con i suoi uomini della Brigata Tripoli, Belhaj irrompeva armi alla mano sulla piazza Verde, dove Muammar Gheddafi aveva officiato per quarantadue anni, e ventiquattro ore dopo entrava nei bunker di Bab al Aziziya, roccaforte ufficiale del rais. Per queste sue ancora calde imprese belliche Belhaj, 45 anni, barba e capelli color inchiostro, e un´espressione dolce, rassicurante, è stato messo alla testa del Consiglio militare di Tripoli. Ad affidargli la carica, anzi ad eleggerlo, sono stati i suoi uomini nell´euforia della vittoria e spinti dall´entusiasmo suscitato dal comandante che li aveva guidati nel cuore della capitale armi alla mano. Il potere politico di Bengasi ha abbozzato. Non pochi dei membri del Consiglio nazionale di transizione hanno accettato a malincuore quella nomina sul campo, imposta dalla base, dalla truppa. Ma il presidente, Mustafa Abdel Jalil, il più alto personaggio del potere provvisorio, l´ha sostenuta e la sostiene. E si è prodigato per rassicurare le cancellerie occidentali. Prima a Parigi, durante l´incontro iniziale con Sarkozy, e poi a Doha, nel Qatar, durante la riunione della Nato, il prudente, laico Jalil aveva al suo fianco Belhaj. Quasi fosse l´espressione della mano armata della rivoluzione. Lui, Jalil, ha fiducia nell´ex jihadista, diventato un eroe di un´insurrezione che si dichiara ispirata da principi democratici.
Chiedo a Belhaj, infilato in una tuta mimetica sdrucita che gli sta larga, se in quanto governatore militare pensa di avere il controllo della capitale. La domanda non è rituale, è sollecitata dal fatto che i massimi responsabili del Consiglio nazionale di transizione non hanno ancora osato metterci piede, benché non ci siano più combattimenti per le strade. La sicurezza non è dunque garantita? Belhaj non se la prende per il tono polemico. Risponde con calma: «Sotto il mio comando le varie unità agiscono su due piani: su quello militare per arginare eventuali azioni nemiche, e su quello dell´ordine per proteggere i beni pubblici e privati, per evitare violenze e saccheggi. I risultati sono buoni anche grazie alla collaborazione della polizia».
Gli faccio notare che le varie brigate, arrivate da Misurata, da Zintan, da Yafran, e da altri centri, controllano diversi quartieri e affermano di non riconoscerlo come capo del Consiglio militare di Tripoli. Non è una rivolta, ma qualcosa che assomiglia a una dissidenza. «È un problema», ammette. «E noi stiamo trattando affinché le incomprensioni spariscano. Soprattutto cerchiamo di convincere quelle brigate ad abbandonare Tripoli e a ritornare nelle loro province».
Non sarà facile. L´ex jihadista assume i toni di un diplomatico, il cui compito è di ricucire le divisioni tribali del Paese, e di appianare le rivalità tra le brigate che si contendono la gloria per i successi militari. Ed anche di dissipare i sospetti dei laici nei confronti degli islamisti. Quindi anche quelli che suscita lui stesso, Belhaj, in quanto ex jihadista. Il vecchio Gruppo di combattimenti libico islamista è stato da tempo sciolto, e alcuni suoi ex membri hanno lanciato il Movimento islamico per il cambiamento. Sarà un nuovo partito in vista di future elezioni? Belhaj nega di volersi dedicare alla politica al termine della missione militare. Ma il suo tortuoso itinerario potrà difficilmente concludersi tanto presto.
Le svolte che ha dovuto compiere sono state tante. Ma quale era lo spazio per un giovane libico cresciuto nella soffocante, ossessionante dittatura di Gheddafi? Quando la Cia, nel 2004, l´ha consegnato al regime di Tripoli, come un jihadista da neutralizzare (avendo rinunciato alla ricerca nucleare, il rais libico era apprezzato dagli Stati Uniti), Belhaj è stato rinchiuso in una cella di isolamento dove non filtrava neanche un filo di luce. E c´è rimasto sei anni. Aveva partecipato a tre attentati contro Gheddafi ed era un miracolo che non venisse subito giustiziato. Nel 2010, accettando di sottoscrivere un documento di 416 pagine in cui si condannava ogni azione contro Gheddafi, e si abiuravano i principi teologici e ideologici alla base dell´azione jihadista, Belhaj è stato liberato. Seif al-Islam aveva promosso un´operazione tesa a recuperare gli islamisti, battezzata "pentimento degli eretici".
Neppure un anno dopo Belhaj è comparso sulle montagne occidentali, dove i ribelli si addestravano per attaccare Tripoli, con materiale fornito dalla Cia e da altre intelligence occidentali. Il vecchio jihadista si è imposto rapidamente per la sua attitudine al comando ed anche per la sua lunga esperienza afgana. Il 22 agosto era con i suoi uomini sulle rovine di Bab al Aziziya, e annunciava sobriamente ai cronisti: «Il tiranno è scappato e noi partiamo al suo inseguimento». Adesso i suoi successi militari gli conferiscono incarichi di responsabilità, ma il suo passato solleva sospetti. A conclusione dell´incontro il governatore militare di Tripoli mi stringe la mano, la trattiene a lungo, e mi sussurra come se fosse una preghiera: «Dica che bisogna avere fiducia in noi, che rispetteremo il mandato del Consiglio nazionale di transizione. Il nostro obiettivo è quello di creare una Libia libera». Poi Anis, il suo giovane aiutante, lo trascina via.
Bernardo Valli, La Repubblica
giovedì 1 settembre 2011
LA CHIESA CATTOLICA E LA DEMOCRAZIA
I - "Forse ci voleva anche un uomo come Benito Mussolini, come quello che la Provvidenza ci ha fatti incontrare, un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quelli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti, erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi, quanto più bruti e deformi. E, con la grazia di Dio, con molto pazienza, con molto lavoro, con l'incontro di molti e abili assecondamento, siamo riusciti a concludere un concordato che, se non è il migliore di quanti ce ne possono essere, è certo tra i migliori."
Pio XI, discorso agli allievi dell'università cattolica del Sacro Cuore, 13 Febbraio 1929
La Chiesa Cattolica ha incontrato nella sua storia dell'ultimo secolo numerosi "uomini della Provvidenza" oltre al dittatore spagnolo Francisco Franco, al Fuhrer tedesco Adolf Hitler, al dittatore ungherese ammiraglio Horthy, al dittatore slovacco Monsignor Tiso, al dittatore croato, capo degli assassini ustascia, Ante Pavlovich di cui era capo spirituale Monsignor Stetinec. Ad Abundantiam ricordiamo che tutti i dittatori che hanno insanguinato coi loro massacri, con le loro torture, con la pratica dei "desaparecidos" l'impero del sud America (Pinochet, Videla, Stroessner, Castelo Branco, generale Armas, responsabili della morte per assassinio di centinaia di migliaia di giovani). I vari papi da Pio XII a Giovanni Paolo II, hanno sempre benedetto questi gentil'uomini e non si sono vergognati di affacciarsi dalle finestre del palazzo della Moneda in Santiago del Cile affianco di Pinochet. Nessun azione di protezione l'alto clero sudamericano ha esercitato nei confronti degli oppressi e dei perseguitati (unica gloriosa eccezione, il cardinale Camara di Recife in Brasile).
II - Vogliamo anche fornire una luminosa pagina di storia che consente al dotto giornalista del Giornale di Vicenza, Marino Smiderle, di fare un raffronto storico tra la tolleranza musulmana e quella cattolica.
Pio XI, discorso agli allievi dell'università cattolica del Sacro Cuore, 13 Febbraio 1929
La Chiesa Cattolica ha incontrato nella sua storia dell'ultimo secolo numerosi "uomini della Provvidenza" oltre al dittatore spagnolo Francisco Franco, al Fuhrer tedesco Adolf Hitler, al dittatore ungherese ammiraglio Horthy, al dittatore slovacco Monsignor Tiso, al dittatore croato, capo degli assassini ustascia, Ante Pavlovich di cui era capo spirituale Monsignor Stetinec. Ad Abundantiam ricordiamo che tutti i dittatori che hanno insanguinato coi loro massacri, con le loro torture, con la pratica dei "desaparecidos" l'impero del sud America (Pinochet, Videla, Stroessner, Castelo Branco, generale Armas, responsabili della morte per assassinio di centinaia di migliaia di giovani). I vari papi da Pio XII a Giovanni Paolo II, hanno sempre benedetto questi gentil'uomini e non si sono vergognati di affacciarsi dalle finestre del palazzo della Moneda in Santiago del Cile affianco di Pinochet. Nessun azione di protezione l'alto clero sudamericano ha esercitato nei confronti degli oppressi e dei perseguitati (unica gloriosa eccezione, il cardinale Camara di Recife in Brasile).
II - Vogliamo anche fornire una luminosa pagina di storia che consente al dotto giornalista del Giornale di Vicenza, Marino Smiderle, di fare un raffronto storico tra la tolleranza musulmana e quella cattolica.
1 Settembre - Libia
"Un diritto uccidere Gheddafi" No dei ribelli alla missione di pace
TRIPOLI - La Libia farà da sola: non c´è bisogno di una missione militare internazionale. Il "no" categorico è stato affidato all´inviato delle Nazioni unite, Ian Martin, dai vertici del Consiglio nazionale di transizione. Non c´è nessun bisogno di appoggio esterno, ha detto alla Bbc il rappresentante libico all´Onu Ibrahim Dabbashi, perché «non è una guerra civile, né lo scontro fra due fazioni: è il popolo che si difende dalla dittatura».Passata in sostanziale tranquillità la prima giornata di festa dell´Eid el-Fitr, che celebra la fine del mese sacro del Ramadan, è il momento di cominciare a pianificare la Libia di domani. Secondo Martin, per l´Onu la sfida maggiore sarà l´organizzazione di future elezioni democratiche: «Dobbiamo tenere ben presente che non c´è nessuna "memoria vivente" di elezioni nel paese, né c´è una macchina elettorale, o una commissione elettorale, non c´è nemmeno una storia di partiti politici o una società civile indipendente, o media indipendenti. Sono tutte cose che nascono solo ora».
Che nonostante la fuga del dittatore per il vecchio regime sia ormai game over, come scrivono sui muri i monelli di Tripoli, cioè che la lotta sia ormai al termine lo dimostrerebbe anche la prima defezione del clan Gheddafi: è il figlio Saadi, fuggito dalla capitale in tutta fretta lasciando persino senza custodia i suoi amati leoni "adottati" nello zoo della capitale. Saadi avrebbe già offerto di consegnarsi ai ribelli, pur di non lasciare la Libia. Anche se, in serata, la Cnn ha dato notizia di una e-mail nella quale il terzo degli otto figli del raìs smentirebbe la trattativa: «Siccome i ribelli non vogliono negoziare, non andrò da loro per arrendermi».
Mentre Saadi tratta, il fratello Seif minaccia: «Vi parlo dalla periferia di Tripoli, la resistenza continua. A Sirte 20 mila uomini armati sono pronti a combattere» ha detto in un messaggio diffuso alla tv. Per Saadi la strada della clemenza potrebbe non essere difficile: al contrario di Seif al Islam e degli altri due fratelli Hannibal e Kahmis, l´ex calciatore non dovrebbe essere al centro di odi particolari. Su Seif al-Islam pende un mandato di cattura internazionale e gli altri due, considerati sadici se non psicopatici, sanno di rischiare grosso se presi vivi. Di Saadi la popolazione libica ricorda le ambizioni sportive e la passione per il lusso, auto sportive e belle donne: poco, per temere esecuzioni sommarie.
Diversa sarebbe la sorte del padre Muammar, nascosto forse, insieme con Saadi e Seif, a Bani Walid, poco lontano dalla capitale: «Se è ancora in Libia e non si arrende, è nostro diritto ucciderlo», dicono al Cnt. Ma per il portavoce Moussa Ibrahim, le offerte di pace vanno rifiutate: «Nessuno con un po´ di onore accetterebbe le proposte di un gruppo armato», ha detto il rappresentante del raìs. E complicata potrebbe essere anche la sorte di Nagi Ahrir, comandante delle guardie personali di Gheddafi, catturato il 23 agosto dagli insorti (la notizia è stata diffusa solo ieri) mentre cercava di fuggire in Tunisia con una robusta quantità di denaro e un passaporto diplomatico. Ahrir ha detto a chi lo interrogava di non sapere niente del nascondiglio di Gheddafi, ma il suo interrogatorio va avanti. Ieri sera è finito in carcere anche il ministro degli Esteri di Gheddafi Abdul Ati Al Obeidi.
Un altro segno della progressiva normalizzazione è l´avvio dell´attività diplomatica ufficiale: oggi, comunica il ministro degli Esteri Franco Frattini, riapre l´ambasciata italiana, chiusa in tutta fretta e devastata dai gheddafiani dopo l´adesione dell´Italia all´alleanza che sostiene il Consiglio dei ribelli.
Giampaolo Cadalanu, La Repubblica
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