domenica 11 settembre 2011

2 Settembre 2011


"La missione Nato in Libia continua" i Grandi a Parigi scongelano 15 miliardi

PARIGI - La bandiera rosso, verde e nero sventola all´Eliseo. È l´unico simbolo di un Paese che deve ancora nascere. Ma l´anno zero della "nuova Libia", come l´hanno definita ieri Nicolas Sarkozy e David Cameron, è cominciato. Le oltre 60 delegazioni riunite a Parigi su invito del presidente francese e del premier britannico hanno tracciato una road map per la transizione verso la democrazia. Al primo punto, lo scongelamento dei fondi del regime libico bloccati all´estero, oltre 50 miliardi di euro, che il Consiglio nazionale di transizione (Cnt) reclama per affrontare l´emergenza umanitaria e la lunga ricostruzione. Solo una minima parte delle somme è stata già messa a disposizione degli insorti. «C´è un accordo unanime per sbloccare i fondi», ha detto Sarkozy. Almeno 15 miliardi dovrebbero essere subito disponibili. Per ulteriori somme, sarà necessaria una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell´Onu, osteggiata da Russia e Cina.
L´altro nodo diplomatico è il prolungamento dei bombardamenti Nato, il cui mandato scade a fine mese. «Le operazioni militari andranno avanti finché sarà necessario», ha annunciato il presidente francese, auspicando «l´inizio di una nuova politica autorizzata dall´Onu, che metta la forza militare al servizio della protezione delle popolazioni che rischiano di essere martirizzate dai loro dirigenti». Per il segretario di Stato Hillary Clinton, si tratta di «evitare il massacro di civili». Incertezza anche intorno al dispiegamento di una forza Onu, chiesta da Ban Ki Moon, ma che non convince tutti i dirigenti del Cnt. Quanto alla sorte del leader libico Gheddafi, «spetta ai libici decidere se, e dove, dovrà essere giudicato», ha detto Sarkozy.
L´ex gruppo di contatto, ribattezzato "Amici della Libia", ha voluto suggellare la collaborazione con alcuni Paesi arabi. «Non c´è conflitto tra Occidente e Oriente», ha ribadito Sarkozy.
In occasione del vertice, la Russia si è decisa a riconoscere il Cnt, la Cina ha fatto sapere di «rispettare le scelte del popolo libico», e persino l´Algeria ha garantito l´appoggio al nuovo governo di Tripoli.
La data scelta per l´incontro all´Eliseo non è casuale: il 1 settembre di 42 anni fa nasceva il regime del raìs. Dietro le quinte, si è discusso dei nuovi equilibri economici. Secondo Libération, la Francia avrebbe già siglato un accordo con i ribelli per accaparrarsi oltre un terzo del petrolio del Paese. Notizia smentita dal delegato del Cnt, Guma al Gamaty. I contratti, ha detto, saranno stipulati «sulla base del merito e non per favoritismi politici». Il contrario di quello che Abdel Jalil, il numero uno del Cnt, aveva promesso la settimana scorsa. Gli interessi di Parigi in Libia non sono un mistero. Nell´era Gheddafi, la Total è sempre stata seconda all´Eni. Le riserve petrolifere della Libia sono stimate in 46 miliardi di barili. Per la spartizione del "bottino", ci sono in prima linea anche Stati Uniti e Cina.

Anais Ginori, La Repubblica



Nelle strade di Tripoli i feudi delle tribù

TRIPOLI. Se ti svegli presto trovi la città vuota. Non un cane sul lungomare pulito, elegante, con qualche automobile carbonizzata e le ruote all´aria. Montagne di immondizie nei vicoli della Medina. Folate di puzza di pesce andato a male davanti a certi negozi sprangati ma non stagni. Plastiche e cartacce sulla piazza Verde che non si chiama più cosi, ma «dei Martiri». E qua e là, agli angoli delle strade, qualche ribelle insonnolito, con il kalaschnikov tra le gambe, che non ti getta neanche uno sguardo.
Si festeggia per tre giorni la fine del digiuno del Ramadan (soltanto da domani si lavora) e la gente va a letto tardi, spossata anche da sei mesi di guerra civile e dall´euforia per una libertà carica di promesse e di incertezze. Vista così, di primo mattino, è una città che ha fatto baldoria fino alle ore piccole e dove nessuno ha avuto voglia di riordinare prima di andare a dormire. Per quel che mostra, allungata com´è sul Mediterraneo, e per quel che ti fa immaginare, Tripoli è un vasto, solenne palcoscenico, in cui si svolgerà una rappresentazione di cui sfido chiunque a indovinare la trama. Il tema è la democrazia. Ma in che versione e attraverso quali drammi? O tragedie?
Anzitutto un apprezzamento. Niente saccheggi dopo il crollo del regime. Violenze, vendette, si, ce ne sono state. Ma partiti i gheddafisti si sono smorzate. E adesso Tripoli è stesa davanti a te, indifesa, stanca, esposta alle aggressioni, alle riconquiste. E non accade nulla. La guerra, almeno qui, è dunque finita sul serio. Il raìs è nascosto, cerca una fine adeguata al suo orgoglio e alla sua vanità; e il figlio fedele, Seif el Islam, urla nelle radio siriane che ventimila combattenti sono pronti alla rivincita, a Sirte, a Misurata, a Sabha. Ma la sua voce si perde inascoltata nella capitale che dorme. E che al risveglio si scoprirà ancora assetata, sporca, senz´acqua. O quasi. Infatti il Grande Fiume artificiale, il ciclopico acquedotto costato tredici anni di lavoro e trenta miliardi di dollari, che dissetava Tripoli con tubi lunghi 3.600 chilometri, lungo i quali scorreva l´acqua trovata nel Sahara, sarebbe sotto il controllo dei gheddafisti del Sud. I quali da laggiù assediano a modo loro, con la sete, la capitale ribelle.
Con un tripolino che ti aiuta a leggere i graffiti in arabo capisci che la metropoli è presidiata da gruppi concorrenti se non proprio rivali. Ognuno di questi gruppi, o brigate, occupa un quartiere, e ha scritto con lo spray il proprio nome sui muri per annunciare chi esercita l´autorità in quel luogo. Le Aquile di Misurata, arrivate in più di cinquemila dal porto mediterraneo in cui si è combattuto per mesi, si sono installate nella zona del porto, della Banca centrale e dell´ufficio del primo ministro. E adesso un vistoso graffito annuncia "piazza Misurata". I ribelli di Zintan, città sulle montagne occidentali, controllano l´ aeroporto. Ed è scritto all´ingresso. I berberi di Yafran occupano la piazza centrale, e lo fanno sapere: "Qui ci sono i rivoluzionari di Yafran". Quelli della Brigata Tripoli erano acquartierati nella zona in cui abito, quasi in riva al mare. La sera dividevo la cena con loro, ma sono partiti. Forse in direzione di Misurata, dove si potrebbe combattere allo scadere dell´ultimatum lanciato ai gheddafisti dal Consiglio nazionale di transizione. Di fatto il governo provvisorio.
Le brigate sembrano quasi indipendenti. Hanno costituito dei piccoli feudi. Ognuna afferma con fierezza l´appartenenza alla propria provincia, che spesso coincide con il clan o la tribù. E non si risparmia nel vantare le proprie imprese belliche. Le Aquile di Misurata rivendicano successi militari attribuiti alla Brigata Tripoli. E la Brigata Tripoli non si lascia fare. Sostiene con fermezza che le vittorie aggiudicatele sono autentiche. I berberi di Yafran vantano i contributi rivelatisi decisivi nella conquista della capitale, in particolare dei bunker del raìs. A queste polemiche, al limite delle rivalità, si aggiungono quelle tra gli islamisti e i laici. Le une e le altre mettono in luce la crisi di quella che dovrebbe essere l´autorità centrale, cioè il Consiglio Nazionale di Transizione. Il quale, a parte l´arrivo di qualche rappresentante, si fa aspettare a Tripoli. L´insicurezza non giustifica più il ritardo del suo insediamento nella capitale. E´ tempo di disciplinare il mosaico di forze armate che si è formato nella capitale.
Ovunque, nei paesi della Primavera araba, gli islamisti sono stati colti di sorpresa dall´insurrezione contro i raìs: in Tunisia, in Egitto e anche in Libia. Nel frattempo hanno però recuperato. La guerra civile ha favorito i jihadisti libici, molti dei quali avevano alle loro spalle una lunga esperienza di lotta armata in Afghanistan e in Iraq. I veterani del Gruppo combattente islamico libico, sciolto da tempo ma per anni alleato di Al Qaeda e dei Taliban, hanno fatto alla svelta a creare unità più abili di quelle degli shebab inesperti. I vecchi jihadisti hanno subito riconosciuto l´aiuto decisivo della Nato, ne hanno usufruito senza esaltarlo, e hanno stretto alleanze, sia pur non sempre facili, con i gruppi laici e liberali.
Il caso di Abdel Hakim Belahj (conosciuto anche come Abdel Hakim al Hasadi) è il più noto. Fondatore del Gruppo combattente islamico libico, e reduce dall´Afghanistan e dall´Iraq, oltre che da numerose prigioni, Belahj è adesso il governatore militare di Tripoli. A nominarlo a quella carica non è stato il Consiglio nazionale di transizione ma gli uomini della Brigata Tripoli, da lui organizzata (con l´aiuto della Cia), e comandata fino alla conquista dei bunker di Gheddafi.
La presenza di Belahj suscita perplessità e sospetti. Ma chi lo conosce e ha seguito le sue lunghe e tormentate revisioni ha fiducia in lui. Oltre a sottolineare le evidenti doti di comando, chi lo ha frequentato non esita a esaltare la sua attuale moderazione politica. Lo stesso presidente del Consiglio nazionale di transizione, il giudice Mustafa Abdel Jalil, pur avendo subito la sua nomina a governatore militare di Tripoli, si è fatto accompagnare da Belahj a Doha, nel Qatar, per l´incontro con la Nato. E lo ha presentato ai dirigenti dell´Alleanza affinché dimostrasse la sua affidabilità. La situazione di questi giorni a Tripoli lascia comunque prevedere la forte presenza di un partito islamista nella Libia liberata da Gheddafi. La scossa politica nel mondo musulmano, anche in quello non arabo e sciita, è robusta a tal punto da spingere Ahmadinejad, il presidente iraniano, a riconoscere di gran fretta il nuovo regime di Tripoli. Un regime nato con il contributo decisivo della Nato e con quello, per molti inquietante, degli islamisti. Ma, come dicono i laici di Bengasi, un islamista disposto a rispettare le leggi democratiche è un cittadino come gli altri.

Bernardo Valli, La Repubblica



Il raìs: resistiamo, non siamo donne Ma il suo premier lo abbandona

TRIPOLI - L' ultimo tentativo arriva attraverso la tv, con un' emittente ancora fedele: «Il popolo libico non si inginocchia, non si arrende. Non siamo donne», dice Muhammar Gheddafi ai microfoni del canale Al Rai, basato in Siria. Dieci minuti di messaggio inteso a incoraggiare gli ultimi sostenitori del regime, assediati a Sirte, e a ribadire che non si tratta di una sollevazione contro il tiranno, ma di un' impresa colonialista, da combattere fino alla morte. «Ci saranno enormi sacrifici per la libertà, ma alla fine la Nato crollerà, come crollerà la fedeltà verso la Nato dei traditori. Mettete la Libia a ferro e fuoco, trasformatela in un inferno». Il canale tv è lo stesso utilizzato mercoledì dal figlio Seif al-Islam per lanciare un simile appello alla resistenza. Ma proprio la scelta di un' emittente basata all' estero, mentre gli uffici di Jamahiriya tv sul lungomare di Tripoli ieri erano vuoti, pacificamente sorvegliati da pochi miliziani, conferma che il clan Gheddafi non sembra avere più nessuna presa sul popolo libico. Resta naturalmente la roccaforte di Sirte, a cui ieri il Consiglio nazionale di transizione ha offerto una proroga di una settimana per l' ultimatum: arrendersi o morire. Secondo gli analisti, è un segno che le trattative per la pace vanno avanti, forse anche grazie all' intervento del figlio Saadi, che chiede «una tregua per mettere fine al bagno di sangue». E non è detto che i fedelissimi del raìs siano contenti di sacrificare la vita, se lo stesso colonnello ha preferito lasciare Sirte per rifugiarsi forse ospite di tribù tuarega Bani Walid, 150 chilometri a Sud Est della capitale, assieme al primogenito Seif e al capo dei servizi segreti, Abdullah al-Senoussi, o forse per riparare nel deserto, a Sabha, 750 chilometri da Tripoli. L' intero clan di Gheddafi si sta sfaldando: nonostante le smentite via e-mail, il figlio Saadi ha preso la testa dei "moderati" e sembra disponibile alla resa, in cambio di un ruolo per la famiglia nella Libia di domani. Ma ieri alla lista dei "traditori" si è aggiunto anche il premier, Ali al-Mahmoudi al-Baghdadi, che ha abbandonato il Colonnelloe ha abbracciato la causa della rivoluzione, con un intervento in tv sull' emittente Al Arabiya. Ieri poi è arrivato per il Cnt anche il riconoscimento della Russia, che ha accettato di considerare il fronte rivoluzionario come rappresentante legittimo della Libia. La situazione va normalizzandosi anche a Tripoli: ieri sono arrivati i primi diplomatici italiani, che per ora apriranno una rappresentanza del nostro Paese nei locali dell' ex Istituto italiano di cultura, perché i locali dell' ambasciata sono ancora inagibili dopo la devastazione dei gheddafiani.


Giampaolo Cadalanu


Dieci miliardi alla nuova Libia
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI - Davanti ai due «amici libici» (il presidente del Cnt Mustafa Abdel Jalil e il premier Mahmoud Jibril), Sarkozy ricorda che «i libici si sono liberati da soli, noi li abbiamo solo aiutati». Alla fine della Conferenza dei Paesi amici della Libia organizzata a Parigi, il presidente francese ha reso omaggio al coraggio degli insorti, e ha ricordato che «decine di migliaia di vite sono state salvate grazie all' intervento militare». Sul palco, Sarkozy è affiancato dal premier britannico David Cameron, dal segretario generale dell' Onu Ban Ki Moon, e dall' altro protagonista della missione, l' emiro del Qatar Hamad Ben Khalifa Al-Thani, che ha sottolineato che l' azione della Nato «si è resa necessaria perché i Paesi arabi non sono stati in grado di compierla in prima persona». È stata la conferenza della transizione «per evitare un nuovo Iraq», e della costruzione di un consenso più ampio: se 21 Paesi avevano partecipato al summit del 19 marzo che si concluse con il primo raid aereo francese, ieri erano 63 i Paesi rappresentati all' Eliseo, con la vistosa assenza del Sudafrica - «cercherò di convincere il presidente Zuma», ha detto Sarkozy - e la presenza significativa del ministro degli Esteri dell' Algeria, il Paese che nelle ultime giornate rischiava di assumere la delicata posizione di fiancheggiatore della resistenza di Gheddafi. Al di là delle dichiarazioni politiche di intesa tra Est e Ovest, di sostegno alle democrazie nascenti, di ringraziamento a Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Qatar e Italia (nelle parole del presidente Abdel Jalil), sono state prese alcune decisioni per aiutare la nuova Libia che si sta formando. «La Nato e gli alleati continueranno le operazioni militari fino a quando la situazione non si sarà stabilizzata e il nuovo governo potrà insediarsi a Tripoli», ha detto il premier britannico Cameron. Poi è stato deciso lo sblocco dei beni del passato regime congelati all' estero: «Il denaro preso da Gheddafi deve tornare ai libici. Siamo tutti impegnati a sbloccare il denaro della Libia di ieri per finanziare lo sviluppo della Libia di oggi», ha detto Sarkozy, che ha annunciato la messa a disposizione immediata di 10 miliardi di euro. Quanto all' Italia, «ci siamo impegnati per rimettere in funzione il gasdotto Greenstream entro il 15 ottobre», ha detto il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, che ha aggiunto: «Forniremo aiuto con i nostri carabinieri per formare la polizia e abbiamo messo a disposizione delle motovedette per il controllo dei confini. Inoltre forniremo con l' Eni il gas alla popolazione. L' Italia è e sarà lì per far ripartire questo popolo e farlo divenire democratico». Sul destino di Gheddafi, la priorità non è trascinarlo davanti al tribunale dell' Aja: Cameron e Sarkozy hanno ribadito che «deve essere arrestato» e sta ai libici «decidere liberamente se deve essere giudicato e dove deve essere giudicato». Le decisioni Il vertice Si è tenuta ieri a Parigi la Conferenza dei Paesi amici della Libia I fondi Il presidente francese Nicolas Sarkozy ha annunciato la messa a disposizione immediata di 10 miliardi di euro L' impegno Il premier britannico David Cameron ha detto che «la Nato e gli alleati continueranno le operazioni militari fino a quando la situazione non si sarà stabilizzata e il nuovo governo potrà insediarsi a Tripoli» L' Italia Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha ribadito l' impegno dell' Italia: «Ci siamo impegnati per rimettere in funzione il gasdotto Greenstream entro il 15 ottobre».


Stefano Montefiori, Corriere della Sera



Il Raìs rifiuta la resa «Le tribù sono con me Farò terra bruciata»

TARHUNA — Non c'è confine definito tra le linee dei ribelli e delle milizie di Gheddafi. I posti di blocco sono abbandonati da almeno ventiquattr'ore. La terra di nessuno è percorsa da qualche sparuta vettura che dribbla tra quattro camion di munizioni e una decina di jeep incenerite dai missili di precisione della Nato, in un tratto di provinciale non più lungo di 20 chilometri. L'ultima barricata controllata dalla guerriglia rivoluzionaria si trova a Suq Al Khamis: casupole basse, fattorie agricole, negozietti semichiusi con gli agricoltori che vendono uva, angurie e meloni direttamente da cassette appoggiate sull'asfalto. Fa un caldo opprimente, reso ancora piu' fastidioso dall'olezzo delle immondizie non raccolte e sparse un poco dovunque. «Benvenuti. Potete andare tranquilli, qui di gheddafiani neppure l'ombra, sono battuti, si nascondono», gridano i ragazzini con i Kalashnikov a tracolla, regalando rami carichi di datteri semiacerbi.
Ma non è vero per nulla. È l'ennesima incognita di questa guerra civile dove le mappe geografiche degli spostamenti di truppe variano di continuo e le certezze della sicurezza abdicano per affidarsi alla buona stella. Appena dopo Suq Al Khamis infatti s'incontrano solo postazioni dei ribelli vuote, silenziose, spettrali. Sono state abbandonate quattro giorni fa, per permettere alla Nato di eliminare mezzi e postazioni nemiche senza il rischio di colpire gli alleati. Ogni tanto una bandiera verde impolverata sventola da un pilone della corrente. E quando entri alla periferia di Tarhuna quasi non ti accorgi di essere arrivato al cuore delle tribù ancora legate a filo doppio al Colonnello. Tra le prime case c'è il bivio che in 90 chilometri conduce a Bani Walid, la capitale della tribù dei Warfalla, un milione di persone, praticamente un sesto di tutta la popolazione libica. Due anziani accovacciati all'ombra proiettata sul marciapiede dall'edificio della loro macelleria riportano rapidamente alla realtà. «Qui siamo tutti rivoluzionari», esclamano. Perché allora non bruciano le bandiere verdi come fanno tutti poco più verso valle? Specificano che la loro rivoluzione è quella di Gheddafi nel 1969, non le sommosse del 17 febbraio. Quindi aggiungono: «Viva la lotta del Colonnello contro i topi collaborazionisti e gli invasori della Nato. Moriremo per lui». Così ieri siamo venuti a vedere sul terreno quello che potrebbe diventare il campo di battaglia delle prossime, eventuali, terribili, tensioni tribali.
Spesso i leader urbani della rivoluzione non accettano di affrontare il tema, eppure esiste un Paese rurale ancora frazionato. Finora la guerra si è giocata in prevalenza tra milizie in spostamento rapido e dove i ribelli sembravano godere del sostegno della maggioranza della popolazione. Ma non a Sirte e soprattutto non qui, tra Tarhuna e Bani Walid, dove Gheddafi ha sempre raccolto consensi entusiastici. Per decenni ha costruito il suo potere sul divide et impera, sulle frizioni secolari tra Cirenaica e Tripolitania, sullo scontro identitario tra Libia araba, africana-sahariana e berbera. Proprio per evitare inutili bagni di sangue, da Bengasi è stato prorogato l'ultimatum sino al 10 di settembre, avrebbe dovuto scadere domani. «Abbiamo preso contatto con i leader tribali delle regioni contese, speriamo di convincerli a deporre le armi e accettare il nuovo corso democratico», confermano tra le fila della rivoluzione.
Eppure Gheddafi non fa che versare benzina sul fuoco delle divisioni tribali. Sono in tanti a ritenere che possa essere nascosto tra i fedelissimi di Bani Walid. Da qui, molto più che dalla città circondata di Sirte, gli sarebbe abbastanza facile all'occorrenza sparire verso il Sahara africano. E comunque continua a lanciare il suo mantra di battaglia. Ieri pomeriggio la tv siriana Al-Rai 
ha diffuso un suo messaggio dai toni bellicosi: «Vincere o morire. A Sirte, Bani Walid e Sebha le tribù sono armate. Che scendano subito in campo a combattere. Dispongono di armi e munizioni a sufficienza per battere la Nato e i traditori libici al suo servizio». Ieri avrebbe voluto festeggiare in Piazza Verde a Tripoli (già ribattezzata con il vecchio nome monarchico di Piazza dei Martiri) il 42esimo anniversario della sua presa del potere e si trova invece braccato. Anche il suo ex premier, Baghdadi Al Mahmoudi, è passato ieri dalla parte dei ribelli. Giura che combatterà sino alla fine il vecchio dittatore. Se non dovesse farcela, la Libia dovrà sprofondare con lui. «Venite con noi a battervi contro gli imperialisti, gli stranieri che vogliono impossessarsi del nostro petrolio. Piuttosto che arrenderci metteremo la Libia a ferro e fuoco». Non stupisce che il leader del Consiglio nazionale transitorio, Mustafa Abdel Jalil, sostenga che Gheddafi va preso a tutti i costi, vivo o morto. «Wanted, dead or alive», è scritto sui manifesti per le strade di Tripoli, che lo mostrano in possibili travestimenti, avvolto in un foulard o con la testa rasata. Altrimenti il Raìs resterà una minaccia permanente per la Libia del nuovo corso.

Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera



Lo jihadista che disse no a Bin Laden

TRIPOLI. Non mi stupisce l´espressione dimessa, da maturo seminarista, di Abdel Hakim Belhaj, che incontro nella base aerea di Mitiga, ai margini della città. Chi sa esercitare il comando, sul campo, di solito non è uno sbruffone nella vita normale.
Nasconde la durezza alternando humour e candore. Inoltre su Belhaj pesa il passato religioso. È rimasta forse nel suo atteggiamento la traccia islamista. Un islamista dedito alla jihad armata, come è stato il suo caso, è anche un soldato a suo modo mistico. Abdel Hakim Belhaj nega di avere praticato il terrorismo, anche se un tempo era alleato di Al Qaeda e dei Taliban, e diretto interlocutore di Bin Laden e del Mullah Omar. Adesso è governatore militare della capitale, liberata con il decisivo contributo della Nato e la generale benedizione occidentale. L´acrobazia ideologica è spettacolare. Mi sorprendo ad osservare Belhaj con la curiosità che merita un personaggio con un itinerario politico, militare, teologico da capogiro. Sulla sua faccia giovanile non ci sono i segni della tormentata, grande avventura, che fa di lui uno dei personaggi più contestati ed esaltati della nuova Libia. Ed anche uno dei più interessanti. Quindi discussi. Sospetti.
È inevitabile chiedergli quando ha incontrato l´ultima volta Bin Laden e lui risponde subito, con precisione, ed anche con un tono un po´ beffardo. Nel 2000. Vale a dire un anno prima dell´attacco alle Torri gemelle. «Mi ha chiamato lui. Voleva che noi libici del Gruppo combattente islamico ci unissimo alla lotta di Al Qaeda contro cristiani ed ebrei. Gli ho detto che i cristiani esistevano prima dei musulmani, e gli ebrei prima dei cristiani, e che Al Qaeda non rappresentava l´Islam. Perché non se la prendeva anche con i cinesi che adorano i sassi?». Belhaj voleva probabilmente dire le pietre, i monumenti buddisti, distrutti dai Taliban iconoclasti in Afghanistan. Fatto è che rifiutò, stando a quel mi ha detto, l´invito di Bin Laden, e così non ha combattuto contro gli americani l´anno successivo. Si era battuto contro i sovietici, alla fine degli Anni Ottanta, ma non voleva riprendere la lotta armata a fianco di Al Qaeda. Gli americani l´hanno tuttavia arrestato nel 2004, all´aeroporto di Kuala Lumpur in Malesia, dove era in transito con moglie e figli. Trasferito in una prigione di Bangkok sarebbe stato torturato da uomini della Cia. E poi consegnato ai libici.
Questi fatti, alcuni dei quali sommariamente affrontati nell´incontro, e per me incontrollabili, sono analizzati da tempo dalle intelligence occidentali, in particolare dagli americani. I quali hanno espresso la loro perplessità e chiesto chiarimenti ai responsabili politici di Bengasi. Il timore è evidente. I vecchi jihadisti come Belhaj (noto anche come Abu Abdullah al-Sadiq), che hanno partecipato alla fase decisiva dell´insurrezione contro Gheddafi, potrebbero rivelarsi col tempo "cavalli di troia" di Al Qaeda.
Pochi giorni fa, il 22 agosto, con i suoi uomini della Brigata Tripoli, Belhaj irrompeva armi alla mano sulla piazza Verde, dove Muammar Gheddafi aveva officiato per quarantadue anni, e ventiquattro ore dopo entrava nei bunker di Bab al Aziziya, roccaforte ufficiale del rais. Per queste sue ancora calde imprese belliche Belhaj, 45 anni, barba e capelli color inchiostro, e un´espressione dolce, rassicurante, è stato messo alla testa del Consiglio militare di Tripoli. Ad affidargli la carica, anzi ad eleggerlo, sono stati i suoi uomini nell´euforia della vittoria e spinti dall´entusiasmo suscitato dal comandante che li aveva guidati nel cuore della capitale armi alla mano. Il potere politico di Bengasi ha abbozzato. Non pochi dei membri del Consiglio nazionale di transizione hanno accettato a malincuore quella nomina sul campo, imposta dalla base, dalla truppa. Ma il presidente, Mustafa Abdel Jalil, il più alto personaggio del potere provvisorio, l´ha sostenuta e la sostiene. E si è prodigato per rassicurare le cancellerie occidentali. Prima a Parigi, durante l´incontro iniziale con Sarkozy, e poi a Doha, nel Qatar, durante la riunione della Nato, il prudente, laico Jalil aveva al suo fianco Belhaj. Quasi fosse l´espressione della mano armata della rivoluzione. Lui, Jalil, ha fiducia nell´ex jihadista, diventato un eroe di un´insurrezione che si dichiara ispirata da principi democratici.
Chiedo a Belhaj, infilato in una tuta mimetica sdrucita che gli sta larga, se in quanto governatore militare pensa di avere il controllo della capitale. La domanda non è rituale, è sollecitata dal fatto che i massimi responsabili del Consiglio nazionale di transizione non hanno ancora osato metterci piede, benché non ci siano più combattimenti per le strade. La sicurezza non è dunque garantita? Belhaj non se la prende per il tono polemico. Risponde con calma: «Sotto il mio comando le varie unità agiscono su due piani: su quello militare per arginare eventuali azioni nemiche, e su quello dell´ordine per proteggere i beni pubblici e privati, per evitare violenze e saccheggi. I risultati sono buoni anche grazie alla collaborazione della polizia».
Gli faccio notare che le varie brigate, arrivate da Misurata, da Zintan, da Yafran, e da altri centri, controllano diversi quartieri e affermano di non riconoscerlo come capo del Consiglio militare di Tripoli. Non è una rivolta, ma qualcosa che assomiglia a una dissidenza. «È un problema», ammette. «E noi stiamo trattando affinché le incomprensioni spariscano. Soprattutto cerchiamo di convincere quelle brigate ad abbandonare Tripoli e a ritornare nelle loro province».
Non sarà facile. L´ex jihadista assume i toni di un diplomatico, il cui compito è di ricucire le divisioni tribali del Paese, e di appianare le rivalità tra le brigate che si contendono la gloria per i successi militari. Ed anche di dissipare i sospetti dei laici nei confronti degli islamisti. Quindi anche quelli che suscita lui stesso, Belhaj, in quanto ex jihadista. Il vecchio Gruppo di combattimenti libico islamista è stato da tempo sciolto, e alcuni suoi ex membri hanno lanciato il Movimento islamico per il cambiamento. Sarà un nuovo partito in vista di future elezioni? Belhaj nega di volersi dedicare alla politica al termine della missione militare. Ma il suo tortuoso itinerario potrà difficilmente concludersi tanto presto.
Le svolte che ha dovuto compiere sono state tante. Ma quale era lo spazio per un giovane libico cresciuto nella soffocante, ossessionante dittatura di Gheddafi? Quando la Cia, nel 2004, l´ha consegnato al regime di Tripoli, come un jihadista da neutralizzare (avendo rinunciato alla ricerca nucleare, il rais libico era apprezzato dagli Stati Uniti), Belhaj è stato rinchiuso in una cella di isolamento dove non filtrava neanche un filo di luce. E c´è rimasto sei anni. Aveva partecipato a tre attentati contro Gheddafi ed era un miracolo che non venisse subito giustiziato. Nel 2010, accettando di sottoscrivere un documento di 416 pagine in cui si condannava ogni azione contro Gheddafi, e si abiuravano i principi teologici e ideologici alla base dell´azione jihadista, Belhaj è stato liberato. Seif al-Islam aveva promosso un´operazione tesa a recuperare gli islamisti, battezzata "pentimento degli eretici".
Neppure un anno dopo Belhaj è comparso sulle montagne occidentali, dove i ribelli si addestravano per attaccare Tripoli, con materiale fornito dalla Cia e da altre intelligence occidentali. Il vecchio jihadista si è imposto rapidamente per la sua attitudine al comando ed anche per la sua lunga esperienza afgana. Il 22 agosto era con i suoi uomini sulle rovine di Bab al Aziziya, e annunciava sobriamente ai cronisti: «Il tiranno è scappato e noi partiamo al suo inseguimento». Adesso i suoi successi militari gli conferiscono incarichi di responsabilità, ma il suo passato solleva sospetti. A conclusione dell´incontro il governatore militare di Tripoli mi stringe la mano, la trattiene a lungo, e mi sussurra come se fosse una preghiera: «Dica che bisogna avere fiducia in noi, che rispetteremo il mandato del Consiglio nazionale di transizione. Il nostro obiettivo è quello di creare una Libia libera». Poi Anis, il suo giovane aiutante, lo trascina via.

Bernardo Valli, La Repubblica



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