sabato 24 settembre 2011

PALESTINA, IL VOTO DELL'ASSEMBLEA DELL'ONU


Il giorno più lungo della Palestina Ma l' America ci ha tradito

HEBRON - Se ne sta chino sulla macchina da cucire a pedali Nabil, il fabbricante di bandiere più famoso di tutta la città. Messe da parte quelle del "Barcelona F.C." e del "Real Madrid" che si vendono come niente nella Città vecchia di Gerusalemme, da giorni sotto i suoi sfilano chilometri di stoffa bianca, rossa, verde e nera: i colori della bandiera palestinese. Migliaia e migliaia sono uscite da questo laboratorio che di colpo si è affollato di parenti vicini e lontani di Nabil, venuti a cucire per far fronte alle richieste di queste settimane. «Il mio sogno è di confezionare quella destinata a sventolare davanti al Palazzo di Vetro dell' Onu, la mia vita sarebbe appagata, uno Stato e la nostra bandiera che sventola con tutte quelle altre a New York». Il sogno di Nabil però per il momento è destinato a aspettare, si infrange sul muro di gomma alzato dal presidente americano Barack Obama sulla richiesta di riconoscimento all' Onu che Abu Mazen a nome della Palestina intende chiedere. Fra i due ieri notte a New York c' è stato un nuovo incontro - il capo della Casa Bianca ha visto anche il premier israeliano Netanyahu - che però non ha mutato la sostanza: l' America metterà il veto al Consiglio di Sicurezza perché rifiuta "la scorciatoia" - così il presidente ha definito la richiesta palestinese - delle Nazioni Unite. Abu Mazen non intende cedere alle pressioni e alle velate minacce americane e porterà il caso all' Assemblea generale dell' Onu, dove oggi pronuncerà il discorso più importante della sua vita da quando è succeduto a Yasser Arafat nel gennaio 2005 per chiedere un seggio per la Palestina. C' è più rabbia che sorpresa nelle strade di Hebron - sulfurea città dove Hamas alle ultime elezioni ha fatto il pieno ma che ora è sotto il controllo militare dell' Anp - per il «tradimento» di Obama. I palestinesi se l' aspettavano. «Quando è arrivato alla Casa Bianca le sue idee e le sue aspirazioni ci hanno dato speranza. Quel che ha detto all' Onu dimostra che non è differente dai suoi predecessori», incalza Mohammad Zidane delegato della federazione sindacale mobilitata a sostegno del discorso che Abu Mazen terrà a New York. Manifestazioni pacifiche sono previste in tuttii centri della Cisgiordania, con discorsi nelle piazze, canti, balli tradizionali. «Deve essere un giorno di festa e facciamolo restare tale», ha ordinato il presidente palestinese prima di partire ai capi della sicurezza. Ma la tensione è palpabile, l' incendio potrebbe essere improvviso. L' ultimo sondaggio dice che Abu Mazen nonè mai stato così popolare da quando è presidente, oltre l' 83% dei palestinesi sostiene il ricorso all' Onu. Ed è piaciuta alla gente anche quella sua fermezza davanti alle pressioni di Usa e Europa, non sempre benevole. Ma è un appoggio intriso di cautela e scetticismo e passare con facilità dalla disillusione alla rabbia. «E' la prima cosa positiva in vent' anni e forse è l' ultima chance per una soluzione pacifica per i due Stati», dice Abdul Rahman, direttore di una Ong palestinese, il futuro della Palestina nonè così roseo visto da Hebron. Qui, dove vivono 165 mila palestinesi, ci sono 3000 soldati israeliani che proteggono 300 coloni asserragliati a ridosso del mercato nel centro della città. E' un continuo di intemperanze, provocazioni, sassaiole e scontri sfociati spesso nel sangue. Chi spera di ballare sulle ceneri della richiesta palestinese all' Onu sono gli uomini di Hamas, che hanno sempre visto con scetticismo l' iniziativa pronti a sfruttare una possibile débacle di Abu Mazen a loro favore. «E' stato sbagliato in partenza andare all' Onu», dice al telefono da "Gazastan" Sami Abu Zuhri, portavoce del movimento che controlla la Striscia dal 2007. «Il discorso di Obama riflette la tendenza americana a favore di Israele e dell' occupazione militare, dimostra che gli arabi e i palestinesi hanno sbagliato a continuare a puntare sugli americani». 


Fabio Scuto



Abu Mazen: "Riconoscete la Palestina"

NEW YORK - L´uomo in grigio che rinunciò alla kefia sbandiera la domanda di ammissione all´umanità: «Eccellenze, ladies and gentlemen, ho il piacere di informarvi che prima di pronunciare questa dichiarazione ho presentato domanda per l´ammissione della Palestina alle Nazioni Unite». L´assemblea generale dell´Onu esplode in un boato da stadio come se Mahmoud Abbas, il presidente palestinese che non ha nulla del carisma di Yasser Arafat, fosse il leader dei leader. Ma davvero ha ragione Barack Obama: fosse così semplice arrivare all´indipendenza, ha detto da questo stesso podio, l´avremmo fatto da tempo.
Vedremo. La sfida è lanciata e adesso tocca al Consiglio di Sicurezza non fare precipitare tutto nel caos. La standing ovation che chiude il discorso è la conferma che tutti sanno: la maggioranza dei 193 Stati è pronta ad accettare la 194esima nazione. Ma finora l´unica pace che la richiesta è riuscita a suggellare è quella tra Israele e l´amico americano.
«Non credo ci sia nessun con un briciolo di coscienza» dice il palestinese «che possa rifiutare la nostra richiesta». Invece c´è. Gli Stati Uniti, che hanno promesso il veto, sarebbero riusciti a neutralizzare la mossa coalizzando al Consiglio una maggioranza di blocco di 9 voti: l´ultimo paese deciso ad astenersi sarebbe la Bosnia Erzegovina. Ma la speranza è di riallacciare i colloqui prima di un voto che comunque non ci sarà prima di settimane o mesi. Come? «Nell´anno della primavera Araba è venuto il momento della Primavera Palestinese» grida Abbas scatenando la platea. E proprio la lezione della primavera e il metodo-Libia potrebbero guidare le mosse del Quartetto - Onu, Usa, Ue e Russia. Con i francesi in un ruolo più attivo - Nicolas Sarkozy ha già stilato proprio qui una road map - e l´America ormai troppo ingombrante in posizione appunto più defilata. La proposta: palestinesi e israeliani si rivedano entro un mese impegnandosi a raggiungere un accordo in un anno. «Approfittatene» si appella ai duellanti di rimbalzo la Clinton. «E´ l´unica strada». Basterà?
«Dividiamo la stessa patria, dividiamo la stessa terra» dice il premier israeliano Bibi Netanyahu dallo stesso podio mezz´ora dopo: «Siamo qui sotto lo stesso tetto, incontriamoci ora per discutere». La claque degli israeliani strategicamente piazzati nel loggione del Palazzo di Vetro si scatena. Ma lo sa lo stesso Bibi che sono parole. E´ lui che ha bloccato il dialogo evitando di fermare quegli insediamenti «che sono il nucleo» accusa Abu Mazen «della politica di occupazione coloniale e della brutalità dell´aggressione e della discriminazione razziale contro il nostro popolo». Di più: l´occupazione è «una violazione della legge internazionali e delle risoluzioni dell´Onu». E diventando stato, si sa, la Palestina potrebbe chiederne conto: trascinando Israele davanti alla Corte di giustizia.
Netanyahu contrattacca: «Non sono venuto qui per raccogliere gli applausi ma raccontare la verità». Difficile d´altronde pretendere applausi prendendosi gioco dell´assemblea. Senza offesa per nessuno, dice, ma quando per la prima volta arrivai qui un rabbino mi disse che mi andavo a infilare «nella casa delle bugie». Sfodera tutta la sua grinta: contro di noi da qui sono partite più risoluzioni che contro tutti gli altri paesi insieme. E sentenzia: qui è «un teatro dell´assurdo».
Un teatro che si infiamma però alle parole di Abu Mazen: «E´ venuto il tempo per i nostri uomini, le nostre donne e i nostri bambini di vivere vite normali. Di andare a letto senza aspettare il peggio che il giorno dopo porterà. E´ venuto il tempo per le nostre mamme di essere sicure che i bambini possano tornare a casa senza paura di essere uccisi, arrestati, umiliati». E che dialogo aprire con Netanyahu che gli risponde ironico che da quando Israele ha alleggerito i checkpoint, in fondo, la Palestina «ha potuto godere della crescita dell´economia»? Sì, bibi continua a dire che è venuto fin lì «per tendere ancora la mano». Ma è sempre Abbas a eccitare l´assemblea ricordando proprio Arafat che nella stessa aula invitò «a non lasciare cadere il ramo di ulivo dalla mia mano». Non ricorda, il premier dal nome di battaglia di Abu Mazen, che nell´altra mano, in aula, Yasser stringeva anche la pistola del guerrigliero. E Netanyahu lo sfida ancora: Abbas dice che i palestinesi sono armati solo di «sogni e speranze»? «Sì: sogni, speranze e 10mila missili forniti dall´Iran».
Abbas si indigna: «Il mio popolo aspetta di sentire la risposta del mondo: permetterà a Israele di continuare 

l´unica occupazione della terra?». Lunedì il consiglio comincia a discutere: la risposta arriverà. Col tempo.


Angelo Aquaro, Vincenzo Nigro



Lacrime, canti e bandiere nelle piazze di Ramallah "Siamo entrati nella storia"

RAMALLAH - Il passaggio storico per il Medio Oriente con il discorso di Abu Mazen dal podio dell´Onu sembra nelle piazze di Ramallah quasi una finale del mondiale di calcio, con la Palestina in vantaggio sull´avversario. Nella Al Manara Square decine di migliaia di occhi sono puntati sui maxi-schermi, bandiere, t-shirt con la scritta "Palestine 194", bambini con i colori nazionali palestinesi dipinti sul volto, canti, balli, qualcuno che distribuisce dolcetti, ci sono i banchetti con i succhi di frutta. Bar e caffè sono pieni qui, così come tutte le piazze delle principali città della Cisgiordania dove sono stati montati i maxi-schermi, a Nablus, Jenin, Hebron. Una festa, la festa della Palestina. Solo a Gaza ognuno ha seguito il discorso di Abu Mazen da casa perché Hamas ha vietato ogni manifestazione.
Le parole del presidente, certamente meno retoriche e teatrali di quelle con cui Arafat nel 1974 si rivolse al mondo dallo stesso podio («Vengo qui con un fucile e un ramo d´olivo: non lasciate che il ramoscello cada dalla mia mano»), hanno suscitato applausi, commosso la gente. Abu Mazen ha saputo toccare davvero - forse per la prima volta - il cuore della sua gente. Quella sua fermezza, nonostante le pressioni di Usa e Europa, ha fatto breccia nell´uomo della strada. Fermezza ribadita poco prima di salire sul podio quando ha voluto personalmente consegnare al segretario generale Ban Ki-Moon una cartellina bianca con al centro l´aquila palestinese contenente la richiesta di adesione «a pieno titolo» della Palestina all´Onu. Applausi scroscianti dalla folla quando Abu Mazen ha denunciato l´occupazione, «l´attività criminale» e «la pulizia etnica» a cui sono sottoposti i palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, le violenze dei coloni. Ma questo, dice Abu Mazen, non ha mutato la nostra posizione: siamo con la mano tesa verso Israele per una pace giusta e durevole. E quando al termine il presidente mostra la richiesta di adesione all´Onu sale un boato dalla folla, e poi quando ha detto visibilmente commosso che i «palestinesi non possono mancare l´appuntamento con la storia, con l´indipendenza, con la libertà» è venuto giù il cielo: urla, lacrime, applausi. Poi un solo slogan urlato da migliaia di voci: «Palestine, Palestine».
Una festa macchiata solo da qualche incidente sporadico, visto anche il forte dispositivo di sicurezza messo in campo sia dall´Anp che da Israele, con migliaia di uomini mobilitati. Un palestinese è morto negli scontri con coloni israeliani in un villaggio a sud di Nablus, in Cisgiordania. L´uomo è stato centrato da un proiettile di gomma sparato dai soldati israeliani intervenuti per sedare le violenze. Tutto era cominciato nel pomeriggio quando una cinquantina di coloni, provenienti dal vicino settlement di Esh Kodesh, aveva attaccato il villaggio di Qusra, spaccando le finestre delle case con pietre e bastoni. I residenti hanno risposto con lancio di sassi, innescando gli scontri. Sulla scena sono intervenuti i soldati israeliani che hanno utilizzato gas lacrimogeni e proiettili di gomma per dividere le due parti. La tensione nella città è altissima, nei giorni scorsi due moschee nella zona sono state bruciate e migliaia di alberi d´ulivo sono stati abbattuti; diversi coloni sono stati fermati dopo questi episodi. Qualche scaramuccia è avvenuta in altre località, a Bilin, a Naalin e Har Gilo, tutti insediamenti colonici della Cisgiordania.



Fabio Scuto


La moltiplicazione dei rischi
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu merita comprensione quando oppone un rifiuto categorico alla nascita, chiesta ieri all'Onu da Abu Mazen, di uno Stato palestinese. Cosa vede attorno a sé, oggi, il governo di Gerusalemme?
Vede l'incerto procedere delle «primavere arabe» in Tunisia e soprattutto in Egitto, dove salgono le quotazioni dei Fratelli musulmani e alcuni cominciano a dire, dopo l'assalto all'ambasciata israeliana al Cairo, che «il trattato di pace firmato da Sadat non è sacro». Vede che la guerra in Libia non è finita, e teme il futuro ruolo degli islamisti a Tripoli. Vede che i programmi atomici dell'Iran sono stati rallentati ma non fermati.
Vede che l'Iraq va verso l'ignoto dopo il ritiro, a fine anno, delle forze Usa. Vede che la nuova potenza regionale, la Turchia, tende a volgersi contro Israele. Vede fuoco e fiamme nello Yemen, una Arabia Saudita fragile, e soprattutto una Siria lacerata che può dar fuoco anche al confinante Libano. Se oggi non si opponesse a uno Stato palestinese nato autonomamente all'Onu, senza accordo con Gerusalemme e dunque capace di esaltare la voglia di rivincita tanto diffusa tra gli arabi, Netanyahu verrebbe meno al suo primo dovere che è quello di difendere la sicurezza di Israele. E di prevenire, come ha detto ieri, «una nuova Gaza».
Ma per quanto la sicurezza di Israele stia a cuore anche a noi, figli di una memoria che non vogliamo e non possiamo eludere, oggi Benjamin Netanyahu non ha soltanto ragione. Perché il premier ha anche accumulato, da quando guida il governo più a destra della storia di Israele, torti che in futuro rischiano di pesare proprio su quella sicurezza che vorremmo veder efficacemente tutelata.
Tener duro sui temi tradizionali del contenzioso (i confini di uno Stato palestinese già accettato in linea di principio, il diritto al ritorno dei rifugiati e lo status di Gerusalemme) poteva essere da parte di Netanyahu una buona tattica per andare al confronto. Si poteva sperare che proprio lui, uomo di destra, riuscisse a concludere quell'accordo che nessun laburista israeliano potrebbe sottoscrivere senza farsi travolgere dalle accuse di cedimento. Invece Netanyahu, anche a causa della composizione del suo governo, falco lo è stato davvero. E a forza di autorizzare nuovi insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gerusalemme Est (con un solo periodo di sospensione strappato da Obama), ha finito per indebolire Abu Mazen e per rendere impossibile quel negoziato che non a caso ora i palestinesi sarebbero disposti a rilanciare soltanto se fosse fermata la costruzione delle colonie.
Certo, non è stato Netanyahu a determinare gli sconvolgimenti e i timori di oggi, da Tripoli a Damasco. Ma è stato Netanyahu, ieri, a scegliere l'immobilismo, a chiudersi nella politica del bunker, e a perdere così l'occasione, che oggi ci sarebbe forse stata, di far partecipare Israele alle nuove dinamiche che scuotono Mediterraneo e Medio Oriente. Nelle parole del politologo americano Joseph Nye, Israele per la sua sicurezza ha bisogno di dimostrare che possiede anche un soft power . Ipotesi questa che Netanyahu non sembra aver preso in considerazione, restringendo le sue opzioni anche se adesso offre al leader palestinese di «incontrarci subito, qui, all'Onu».
Poi c'è il tormentato Obama. Il presidente spera di non dover usare il veto quando il Consiglio di sicurezza voterà (e non sarà subito), dal momento che basterebbero nove voti contrari a bloccare la richiesta di Abu Mazen. Ma se dovrà usarlo, lo farà. Perché nelle ore gravi l'America è sempre con Israele. Perché è cominciata, ormai, la campagna elettorale. Ma anche con tutta l'amarezza di un presidente costretto a contraddirsi, lui che aveva puntato moltissimo su nuovi rapporti con il mondo musulmano e sulla nascita concordata di uno Stato palestinese.
E c'è il rantolo europeo, con una Unione divisa che vorrebbe votare insieme ma non sa come farlo (non sarebbe il caso di considerare l'unità un valore supremo, e astenersi?), con Sarkozy che propone un «suo» piano poi ripreso nella sostanza dal Quartetto, con l'Italia e la Germania che sono i più vicini al no.
A conti fatti, dall'esercizio del Palazzo di Vetro vengono rischi per tutti. Per Netanyahu, che vince nell'immediato ma rischia l'isolamento. Per Abu Mazen, che potrà cercare parziale soddisfazione elevando il rango palestinese in Assemblea generale ma, davanti alla mancanza di cambiamenti concreti, è esposto al boomerang della delusione del suo stesso popolo. Per Obama, che si sparerà sui piedi nel Mondo arabo se dovrà usare il veto. Per l'Europa, che paga molto (in denaro) e si avvia a contare ancor meno di prima se manterrà le sue divisioni. Per le «primavere arabe» in odore di elezioni, dove il no del Consiglio di sicurezza potrebbe favorire estremisti e Fratelli musulmani. E, quel che più conta, per israeliani e palestinesi, con un eventuale nuovo negoziato che nascerebbe fragile e con un accordo di pace ancora lontanissimo. Oltre l'orizzonte, verrebbe da dire, a meno che Obama ottenga un secondo mandato e ricordi le contorsioni di questi giorni.



Franco Venturini









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