giovedì 15 settembre 2011

FINALMENTE STA PER NASCERE LO STATO DELLA PALESTINA


Palestina, lo stato promesso

Tra cinque giorni, il 20 settembre, sarà presentata alle Nazioni Unite la candidatura della Palestina come Stato indipendente. L´incertezza sussiste, poiché in queste ore sono in corso frenetiche azioni diplomatiche. C´è chi tenta di impedire (o edulcorare) l´iniziativa; e chi al contrario vuole solennizzarla, darle un carattere storico. Dopo un periodo di stagnazione e di frustrazione, la questione israelo-palestinese sta per diventare di nuovo dinamica (e incandescente). A 64 anni dalla nascita dello Stato ebraico, il promesso, rifiutato, rivendicato, demonizzato, auspicato Stato palestinese da affiancargli è alla vigilia di un riconoscimento formale da parte della maggioranza della società internazionale espressa nell´Assemblea generale dell´Onu. Benché questo non significhi che lo Stato ripudiato o invocato stia diventando miracolosamente una realtà, la consacrazione formale segna una svolta non solo in Medio Oriente.
Ron Prozor, rispettato ed esperto ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite, ha comunicato di recente una notizia sgradevole alla coalizione (di centro e di estrema destra) formata da Netanyahu, da Lieberman e da Barak, rispettivamente primo ministro, ministro degli Esteri e della Difesa, al governo a Tel Aviv. Con un telegramma segreto, rivelato dal quotidiano Haaretz, il diplomatico ha fatto sapere che Israele non aveva alcuna possibilità di impedire il riconoscimento dello Stato palestinese. Dopo sessanta e più incontri con i suoi colleghi del Palazzo di Vetro, Prozor ha concluso di poter contare unicamente sull´astensione di alcuni paesi (sui 193 rappresentati) o sull´assenza di altri. Soltanto una manciata di Stati voteranno contro la candidatura palestinese. Nell´Unione europea, secondo Prozor, gli unici sicuri sarebbero la Germania, l´Italia, i Paesi Bassi e la Repubblica ceca. La promozione a Stato della Palestina infliggerà una profonda ferita al governo di Israele.
Per il presidente degli Stati Uniti l´appuntamento del 20 settembre nel Palazzo di vetro di New York è un dilemma diplomatico lacerante. Opporsi a un gesto di autoderminazione dei palestinesi, dopo avere appoggiato apertamente i popoli arabi (in Tunisia, in Egitto e in Libia) a liberarsi dei loro raìs, non appare molto coerente. Ma Barack Obama deve fare i conti con i vecchi legami dell´America con Israele, con l´opposizione al Congresso che minaccia di tagliare gli aiuti ai palestinesi, e anche con la convinzione che la via migliore per arrivare a uno Stato palestinese sia quella dei negoziati. In verità da tempo interrotti per il rifiuto israeliano di congelare gli insediamenti di coloni in Cisgiordania, per la questione di Gerusalemme Est e per il rifiuto palestinese di riconoscere il carattere "ebraico" dello Stato di Israele (che finirebbe con l´escludere i cittadini musulmani di Israele).
Accusato di non essersi impegnato in tempo per disinnescare l´appuntamento del 20 settembre, Obama ha spedito d´urgenza i suoi inviati in tutte le direzioni: a Ramallah da Mahmud Abbas (detto Abu Mazen), a Gerusalemme da Benjamin Netanyahu, e in tante capitali mediorientali. L´opposizione americana al riconoscimento di uno Stato palestinese, o in tutti i casi i tentativi di limitarne la portata, rischiano di riaccendere l´antiamericanismo, finora del tutto assente dalle piazze tunisine, egiziane e libiche della "primavera araba".
Non sarà agevole convincere Mahmud Abbas, presidente dell´Autorità Palestinese, a non presentare la candidatura, o ad alleggerirla al punto da limitarne il significato. Tuttavia la minaccia del Congresso americano di sospendere gli aiuti non può lasciarlo indifferente. La Cisgiordania vive un boom economico senza precedenti nei quarantaquattro anni di occupazione israeliana e le sovvenzioni provenienti dagli Stati Uniti vi hanno contribuito. Ma è difficile che Abbas possa rimangiarsi quel che i leader mediorientali hanno ormai acquisito come una parola d´ordine. Nabil el-Araby, segretario della Lega araba, sottolinea in queste ore l´ovvietà dell´iniziativa all´Assemblea generale dell´Onu; e Recep Tayyip Erdogan, il primo ministro turco, l´ex alleato in aperta polemica con Israele, insiste dicendo che il riconoscimento dello Stato palestinese «non è una scelta ma un obbligo».
Il voto dell´Assemblea generale darebbe alla Palestina lo status di osservatore permanente delle Nazioni Unite, come "Stato non membro". La stessa situazione del Vaticano. O per lunghi anni della Svizzera. Adesso la Palestina è una semplice "entità". Per diventare il 194esimo membro a pieno titolo dell´Onu essa avrebbe bisogno del voto del Consiglio di Sicurezza. Ma là l´aspetta il veto degli Stati Uniti. Ed è assai probabile che dopo il riconoscimento formale dell´Assemblea non si vada oltre. Anche se il presidente Abbas sostiene, con una calma non più tanto remissiva, che i palestinesi ricorreranno fino al Consiglio di Sicurezza per ottenere la piena appartenenza alle Nazioni Unite.
I vantaggi acquisiti dello Stato palestinese sarebbero comunque consistenti dopo il voto dell´Assemblea. Esso avrebbe ad esempio accesso alla Corte internazionale di Giustizia dell´Aja e a quella penale internazionale, con la facoltà di denunciare Israele per le sue eventuali azioni come forza di occupazione. E potrebbe usufruire delle istituzioni finanziarie, economiche e commerciali. Potrebbe soprattutto esigere di trattare alla pari con lo Stato di Israele, non più nel quadro del Quartetto (Usa, Russia, Europa, Onu), ma in quello dell´Onu e sulla base delle risoluzioni. Sempre ammesso che Israele accetti le regole imposte dal nuovo status della Palestina. Già traumatizzata dai cambiamenti provocati dalla "primavera araba" in Egitto, e dall´accresciuta ostilità della Turchia, non più alleata, la società israeliana risentirà ancor più l´isolamento, dopo il probabile voto all´Assemblea generale che gli Stati Uniti cercano in queste ore di scongiurare. La rinuncia alla candidatura, imposta o ottenuta dagli Stati Uniti, provocherebbe in tutti i modi reazioni in molte capitali del Medio Oriente. Lo stesso riconoscimento incompleto o puramente formale dell´Assemblea generale potrebbe non bastare alle piazze arabe, le quali potrebbero esigere il voto decisivo del Consiglio di Sicurezza.
Le forze centrifughe e la storia hanno frantumato negli anni la Palestina in cinque zone o entità. La prima dell´elenco può essere Gaza, abitata da un milione di uomini e donne che vivono come in un limbo rispetto al resto dei palestinesi. Un limbo non facile, sotto l´autorità intollerante di Hamas, e in una società più islamista, più tradizionalista ed esclusa dal crescente benessere di cui gode la Cisgordania. Isolata, Gaza è rivolta all´Egitto. Seconda zona o entità la West Bank, la Cisgiordania. Là vivono due milioni e seicentomila palestinesi, governati dall´Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), oggetto di indulgenza da parte di Israele, i cui soldati occupano una larga porzione del territorio. Una certa sicurezza e un evidente progresso economico hanno creato una stabilità che ha favorito uno status quo, da non pochi osservatori definito prerivoluzionario. Pur godendo di una situazione favorevole rispetto a quella dei connazionali di Gaza, i palestinesi della West Bank non si sentono garantiti da uno stato di diritto. Restano cittadini sotto un´occupazione straniera e non nutrono grande fiducia nei loro corrotti amministratori dell´Olp.
La terza entità palestinese vive a Gerusalemme Est e conta trecentomila uomini e donne. Circa il 38 per cento della popolazione. Gli abitanti non sono cittadini israeliani, ma residenti permanenti costretti a temere notte e giorno la perdita del diritto di residenza. Le barriere imposte nella vita quotidiana aumentano il senso di precarietà. Essi pagano le tasse allo Stato israeliano e usufruiscono, in tono minore, dei diritti all´assistenza sanitaria e alla scuola. In questo sono favoriti rispetto ai palestinesi della West Bank. La quarta entità è la più numerosa. Conta cinque milioni di uomini e donne registrati come profughi. Vivono in cinquantotto campi, diventati grossi borghi, in Giordania, in Siria, in Libano, nella West Bank e a Gaza. Sognano il ritorno in una patria che non c´è più o che è stata dimezzata. Il riconoscimento formale dello Stato palestinese riaccenderà molte speranze.
La quinta e ultima entità palestinese conta un milione e trecentomila persone, con la nazionalità israeliana. Come creare un comun denominatore di interessi e di aspirazioni in un popolo frantumato e represso resta un problema. Ma certo la nascita di uno Stato formalmente riconosciuto susciterà emozioni e rianimerà progetti e ideali.



Bernardo Valli, La Repubblica, 15/09/2011


Palestina. Solo una tappa, ma fondamentale

A quanto sembra, l´Autorità nazionale palestinese ha deciso di non irritare gli Stati Uniti, chiedendo di diventare membro dell´Onu, e costringendo quindi gli Usa a porre il veto, cosa che isolerebbe quello Stato nel Consiglio di sicurezza e di fronte l´opinione pubblica. La Palestina si limiterà invece a chiedere all´Assemblea generale di essere considerato uno Stato e di acquisire, come tale, la condizione di "osservatore" (status che ha già, ma solo come Palestina - entità geografica - non come "Stato palestinese"). Beninteso, questo status non conferisce grandi poteri. Un "osservatore" può partecipare a quasi tutte le sedute dell´Assemblea e di alcuni altri organi minori, e ricevere tutti i documenti. In alcuni casi può fare dichiarazioni ed esprimere opinioni. Se così è, cosa cambierà? La cosa più importante per i palestinesi è ottenere dalla maggioranza dell´Assemblea generale dell´Onu l´agognato riconoscimento.
È il riconoscimento a essere oramai un´entità statale, dotata di un governo centrale, un territorio, anche se non ancora definito internazionalmente (ma l´Autorità palestinese chiederà che venga riconosciuta come confine la linea precedente alla guerra del 1967), e una popolazione, anche se ancora sottoposta a occupazione bellica da parte di Israele. Questo riconoscimento avrebbe un enorme valore politico e psicologico, anche se non vincolerebbe giuridicamente gli Stati che vi si oppongono (Usa, Israele e qualche Stato europeo).
Un altro vantaggio per l´Autorità palestinese consiste nel fatto che di regola l´ammissione di uno Stato come "osservatore" è una tappa verso l´acquisizione dello status di membro effettivo dell´Onu. Ciò si è verificato in più casi. La Svizzera, l´Austria, la Finlandia, l´Italia e il Giappone, sono stati appunto ammessi come "osservatori" prima di diventare membri effettivi dell´Organizzazione.
Inoltre, una volta riconosciuto come Stato (seppure "osservatore" all´Onu) dalla stragrande maggioranza dei membri dell´Onu, non sarà più possibile per il Procuratore della Corte penale internazionale continuare a tergiversare, come ha fatto finora, in relazione alla richiesta di Ramallah di accedere allo Statuto della Corte penale. Il Procuratore dovrà ammettere che la Palestina costituisce uno Stato, che quindi può diventare parte dello Statuto della Corte, con la conseguenza che la Corte stessa può giudicare crimini commessi in territorio palestinese dal 2002 in poi, da parte di forze armate israeliane, ma di conseguenza anche da parte dei palestinesi. Questa possibilità è molto temuta da Israele, che non vuole assolutamente sottoporsi al giudizio della Corte penale dell´Aja.
Il riconoscimento della Palestina come Stato, anche se non ancora sovrano, potrà avere un´incidenza sulla questione dei profughi palestinesi (quasi cinque milioni), attualmente sparsi in alcuni Paesi arabi (Giordania, Libano, Siria)? Direi di no. Attualmente a quei profughi non è impedito l´ingresso in Palestina, ma di fatto non c´è spazio per loro, visto che una buona parte della Cisgiordania è occupata da insediamenti (illegali) israeliani. Inoltre, molti profughi provengono da zone che sono ora sotto la sovranità o almeno il controllo effettivo di Israele. Il fatto che l´Autorità palestinese sia considerata uno Stato non aggrava la situazione, ma può costituire al contrario un incentivo per raggiungere una soluzione negoziata con Israele e gli Stati arabi. Questi ultimi ora ospitano i profughi in campi enormi, con gravissimi problemi sociali e l´aggravante che quegli Stati non intendono considerare i palestinesi come propri cittadini. Una soluzione concordata del problema degli insediamenti israeliani, con scambi di territori tra la Palestina e Israele, come auspicato da Obama, potrebbe contribuire alla graduale soluzione di questo gravissimo problema, che tutte le parti in causa hanno lasciato incancrenire dal 1948, ma che esige a tutti i costi una soluzione negoziata.
Mahmud Abbas, il presidente dell´Anp ha detto saggiamente che l´adozione della risoluzione dell´Assemblea generale dell´Onu non è fatta in odio ad Israele, ma per rimettere in moto il processo diplomatico che dovrà portare ad una pace stabile, processo che attualmente è bloccato. Ma Abbas sarebbe saggio se chiedesse il riconoscimento come Stato solo per la Cisgiordania (compresa Gerusalemme Est), e non anche per a Striscia di Gaza, che è gestita da Hamas, un´organizzazione considerata terroristica dagli Usa e da Israele, e con cui lo stesso Abbas è ai ferri corti. Questa soluzione potrebbe evitare di inasprire Israele e gli americani, e porre le basi per il riavvio del processo di pace.

Antonio Cassese, La Repubblica, 15/09/2011

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