lunedì 26 settembre 2011

26/09/2011 LIBIA


Fossa comune, orrore a Tripoli 1700 cadaveri nel carcere del raìs

TRIPOLI - Laceri brandelli di stoffa intrisi di sangue e scoloriti dal tempo. Quel tempo che però non è riuscito a cancellare né il nome - Abdul Salem el Meddaj - dell´uomo che li indossava, né il foro del proiettile che l´uccise quindici anni fa. La prova di un omicidio, forse addirittura di un massacro. Abdul era infatti uno dei detenuti di Abu Salim, il carcere dove Gheddafi internava e torturava i suoi oppositori. Lo stesso nel quale nel ‘96, e in un solo colpo, ne avrebbe fatti ammazzare più di 1700. Cadaveri poi interrati nell´immensa spianata al di là dell´alto, bianco muro di cinta del penitenziario e i cui resti iniziano ad affiorare da una delle più agghiaccianti fosse comuni mai scoperte.
È pomeriggio inoltrato e in questo "cimitero" senza lapidi alla periferia di Tripoli, portato ieri alla luce dagli attivisti del Cnt, teschi, tibie, femori, costole sono ammucchiati qua e là alla rinfusa sotto lo sguardo smarrito di centinaia di persone. I familiari di quelle vittime accorsi lì nella speranza di ritrovare un padre, un fratello, un amico di cui non avevano saputo più nulla. Ma siamo soltanto all´inizio di un´impresa titanica, l´area è di almeno un chilometro quadrato e ci sarà ancora da scavare per chissà quanto tempo.
Mohammed Sharif ha combattuto e rischiato la vita su più fronti di questa guerra di liberazione, ma confessa di essersi sentito mancare quando si è improvvisamente «e come per miracolo» trovato tra le mani la tuta del suo vecchio amico Abdul Salem. Tuta che ora stringe al petto come una reliquia. «Porterò questo mucchietto di stracci alla sua famiglia a Misurata, non posso fare altro, glielo lo devo». Anis Nasser, 23 anni, è lì per suo padre Salem di cui ha solo un vago ricordo. «Avevo due anni - racconta - quando la polizia di Gheddafi ce lo portò via. Era uno studente di ingegneria, un sognatore, uno che non sopportava la tirannia. Forse ora potremo finalmente piangere su una tomba».
Khaled Sherif, portavoce del Consiglio militare, non ha dubbi: «Siamo di fronte alle inconfutabili prove dei crimini dal regime di Gheddafi». Un comitato tecnico avrà il difficile compito di identificare i corpi, sui quali sarebbe stato versato dell´acido per impedirne l´identificazione. Salim al-Farjani, esponente del Cnt lancia un appello alla comunità internazionale «perché ci aiuti nella difficile impresa di dare un nome ai resti di più di 1.700 persone». Diverse organizzazioni in difesa dei diritti dell´uomo avevano già denunciato l´assassinio, nel 1996, di diverse centinaia di prigionieri nel famigerato penitenziario di Abu Salim. Il massacro, avvenuto probabilmente per reprimere una sommossa, è stato indirettamente all´origine della rivolta di febbraio, cominciata nell´est della Libia, trasformatasi poi via via in un conflitto contro il raìs e il suo quarantennale strapotere. Le prime manifestazioni a Bengasi si erano infatti verificate per protestare contro l´arresto del legale dei familiari dei detenuti uccisi.



Renato Caprile



Nel deserto con il cacciatore di Gheddafi "Lo catturerò"


TRIPOLI. L´ultimo suo "avvistamento" risale a pochi giorni fa. Quando Gheddafi era sicuramente nella zona di Gath, perso da qualche parte in quello splendido scenario di sabbia e di rocce, regno incontrastato dei Tuareg, a centinaia di chilometri a sud ovest di Tripoli, non lontano dal confine col Niger e l´Algeria. A un passo cioè dalla salvezza. Ecco perché scuote la testa infastidito Abdul Aziz Abu Hajar, il Cacciatore, il capo della task force che da mesi sta inutilmente braccando l´ex tiranno. Non è un tipo facile a concedersi alla stampa, Abu Hajar. E non certo per spocchia. Un po´ per pudore, visto il difficile compito, molto perché la sua giornata è pienissima e i suoi dieci tra telefonini e satellitari non smettono mai di squillare. Comanda otto squadre dislocate sul terreno. Piccoli team di venticinque al massimo cinquanta unità, metà uomini dell´intelligence, metà soldati. Perché non c´è solo da localizzare il "rifugio" del ricercato numero uno, ma all´occorrenza saper mettere mano alle armi.
Un piccolo, selezionatissimo esercito, quindi, si sta muovendo tra mille difficoltà sul più ostile dei terreni, il deserto, con un unico grande obiettivo: liberare il paese dall´ingombrante fantasma del dittatore che lo ha tenuto stretto in un pugno di ferro per oltre quarant´anni.
In un´ala del vecchio municipio in stile fascista al centro di Tripoli c´è la centrale operativa da cui Abu Hajar coordina il lavoro dei suoi. Sui quaranta, atletico, inglese perfetto, Abu Hajar non è né un militare né un politico di carriera. Non veste mimetiche, non impugna pistoloni, non si perde in chiacchiere inutili, ha piuttosto l´aria del manager efficiente. Non a caso è il rampollo di una ricca, potente famiglia di commercianti. Buone scuole, viaggi all´estero, ottime relazioni qua e là per il mondo.
Ma alla fine riuscirete a prenderlo? La domanda che tutti gli rivolgono e alla quale lui non si sottrae, anche se ha un attimo di perplessità prima di rispondere uno scontatissimo: «Certo che sì». Una pausa però che la dice lunga su quanto sia arduo mettere la parola fine all´ultimo più importante capitolo di questa guerra di liberazione. Le ragioni per cui Muammar Gheddafi non può sfuggire, per Abu Hajar sono essenzialmente tre. «La prima: fino a quando Lui sarà ancora in circolazione costituirà una minaccia. Reale, ha troppi soldi, e psicologica, la gente ha ancora tanta paura di lui. La seconda: perché non potremo dire di aver veramente vinto, di dare vita a una nuova Libia se non ci saremo definitivamente sbarazzati di Lui. La terza ragione, non meno importante delle altre attiene a una mera questione di giustizia. Deve pagare, visti i gravissimi crimini contro il suo popolo di cui si è macchiato».
Intelligence e tecnologia, le armi a disposizione di Abu Hajar. La Nato gli sta dando una grossa mano nel tentativo di individuare dove si nasconda l´ex raìs. Ma anche la supertecnologia dell´Alleanza atlantica nulla può contro il Ghibli, il vento del deserto che soffia in quelle zone e alza altissime colonne di sabbia che accecano i suoi occhi elettronici. Nemmeno i tanti farneticanti audio messaggi del Colonnello sono serviti a localizzarlo. Registrazioni, fatte chissà dove, e quindi inutilizzabili per stanarlo. «Certo - riconosce con onestà intellettuale Abu Hajar - che la sua ultima partita il raìs la sta giocando benissimo. Si è rintanato in un´area in cui la natura e le distanze sembrano essere decisamente dalla sua parte, ma non è ancora finita».
Con lui non ci dovrebbe essere nessuno dei figli, solo la guardia pretoriana. Non più di trecento uomini, secondo il Cacciatore. Più i Tuareg, senza i quali in quel nulla non si va da nessuna parte. Perché gli "uomini blu" lo stiano spalleggiando, Abu Hajar lo spiega così: «Potrebbero non essere del tutto informati del reale stato delle cose, senza contare la quotidiana guerra di disinformazione dei lealisti che contribuisce a ingarbugliare ancora di più una situazione già ingarbugliata». Ma sono proprio i Tuareg la "speranza" segreta, l´asso nella manica di Abu Hajar e di gran parte del paese. Il Cacciatore non lo dice, ma lascia chiaramente intendere che Gheddafi rischia di diventare un ostaggio, un preziosissimo ostaggio nelle mani dei padroni del deserto. L´intelligence del nuovo corso sta sotterraneamente lavorando in questa direzione. Ma Lui, come lo definisce il Cacciatore che non pronuncia mai il suo nome, non solo è furbo come e più di una volpe, ma può contare su montagne di danaro. Alle brutte quando fiuterà il vento cattivo, tenterà di oltrepassare quel confine che non è poi così lontano che lo separa dalla "vittoria". Partita ancora apertissima, dunque anche se Abu Hajar continua a ripetere forse più per convincere se stesso che non l´interlocutore: «Lo prenderemo, dobbiamo prenderlo, altrimenti tutto questo sangue versato sarà stato inutile».



Renato Caprile

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