martedì 29 novembre 2011

Egitto, i rgazzi e i generali

Oggi l´Egitto va alle urne per la prima volta dalla caduta di Mubarak: sarà una maratona elettorale di sei mesi e i ragazzi della rivolta temono la truffa dei militari. La posta in gioco è alta, il futuro della democrazia: così i giovani cercheranno di non far morire la rivoluzione In duecento giorni ci saranno quindici o più appuntamenti al voto. Troppi per l´elettorato Gli oppositori disposti a credere nell´elezione promossa dal regime sono pochi Per la maggioranza silenziosa i generali sono la spina dorsale della nazione IL CAIRO. Più che un voto è una maratona. Una marcia di resistenza destinata a durare più di sei mesi. Ci vorrà un bel fiato politico per arrivare a un risultato, a un traguardo democratico che non si riveli un miraggio. Ma questo voto egiziano, il cui svolgimento si annuncia impervio prima ancora dell´esito, deve essere seguito come la tappa di un lungo processo rivoluzionario. È un importante momento dell´irrisolto confronto tra le forze del rinnovamento e quelle della conservazione. La rivolta di gennaio non si è conclusa con l´avvenuta esautorazione del rais; se è riesplosa dieci mesi dopo è perché la posta in gioco è più profonda: è storica e culturale. Il vecchio regime, il sistema politico e sociale in vigore resiste agli assalti della rivoluzione. E le rivoluzioni hanno tragitti lunghi. È in questa prospettiva che va seguita la maratona elettorale che comincia stamane nel più grande paese arabo.
La conclusione è prevista in un ancora imprecisato giorno di giugno: quando, formatisi i due rami del parlamento, eletti separatamente, a distanza di due mesi, e ognuno in tre tempi (nove province per volta su ventisette), gli egiziani sceglieranno infine un presidente. Contando i ballottaggi e un paio di referendum, per approvare la Costituzione e forse per decidere sul potere dei militari, nell´arco di circa duecento giorni, ci saranno quindici o più appuntamenti elettorali.
Troppi, anche per un elettorato paziente come quello egiziano. Il voto è simultaneo alla rivoluzione di piazza Tahrir. Questa è la sua peculiarità. Quello di oggi riguarda la camera bassa, l´Assemblea del popolo, ed è limitato alle grandi città: il Cairo, Alessandria, Assiut, Porto Said. Le altre province andranno alle urne fino ai primi giorni di gennaio. La camera alta (Shura) sarà eletta tra gli ultimi giorni di gennaio e i primi di marzo. Poi ci saranno i referendum e l´elezione presidenziale. Alla vigilia del primo voto vado in piazza Tahrir, epicentro della rivoluzione. Alcune migliaia di cairoti assiepati danno l´impressione di un accampamento ancora insonnolito. Il sole non è abbastanza alto per riscaldare le sponde del Nilo. La piazza non si presenta come l´arena rivoluzionaria che ha messo in crisi un regime militare, cacciato un rais e gettato il panico tra monarchi ed emiri del mondo arabo. Una piazza dove sono stati uccisi negli ultimi giorni quarantun giovani e feriti almeno un migliaio. E dove hanno perduto la vista decine di manifestanti investiti dai gas nervini. 
L´aria di smobilitazione non deve ingannare. La folla riempie la piazza, fino a traboccare nei quartieri vicini, a investire i palazzi del governo e a paralizzare il Lungonilo, nei momenti di tensione. Lo stesso accade ad Alessandria, a Porto Said, ad Assiut. Gli irriducibili di piazza Tahrir in quelle occasioni attirano masse di egiziani di tutte le classi sociali: dagli operai ai professionisti, dagli studenti ai disoccupati. Di primo mattino, in un giorno che non sembra riservare sorprese, senza collera e repressione, a poche ore dal voto, ho l´impressione di essere in una numerosa adunata di anarchici sobri e taciturni. Niente simboli di partito, niente ritratti di leader, niente palchi per gli eventuali oratori. 
I giovani disposti a credere nell´elezione ininterrotta promossa dai generali sono pochi. Molti la giudicano una trappola, una specie di terapia di massa tesa a sfiancare la rivolta e a riportare l´ordine nel paese grazie alla guida dei militari. Dopo una notte passata in un sacco a pelo, Wael Abu Hamad, 25 anni, dei quali tre in Inghilterra a studiare economia, dice senza esitare: «È una truffa». Un imbroglio ben programmato perché, anche per la sua durata, l´elezione sarà facilmente truccata. E i generali cercheranno di dimostrare al mondo che loro sono capaci di organizzare libere elezioni. Lui, Wael, pur essendo indignato, pur denunciando la manovra subdola dei militari, andrà comunque a votare. Ma poi ritornerà in piazza Tahrir per mantenere accesa «la fiamma della rivoluzione». E con gli irriducibili denuncerà gli imbrogli e promuoverà manifestazioni che smaschereranno il regime. 
Ci si perde volentieri tra gli abitanti del grande accampamento di piazza Tahrir. Si esprimono con chiarezza e i loro discorsi sono maturati rispetto a quelli di gennaio. Dieci mesi dopo non si limitano ad esigere che i militari abbandonino il potere. La loro protesta implica una profonda riforma del sistema politico e sociale. Gli obiettivi immediati sono la destituzione del maresciallo Tantawi, ex braccio destro di Hosni Mubarak e adesso capo della giunta militare (il Consiglio superiore delle Forze armate), e il rifiuto del primo ministro da lui designato, il vecchio economista Kamal el Ganzuri, ex capo del governo pure lui di Mubarak. Ma c´è anche l´obiettivo più ampio di riformare la società dominata dalla classe militare, una casta formatasi nei decenni, che invade tutte le attività più importanti della vita nazionale: dall´economia all´industria alla stessa giustizia, affidata in larga parte ai suoi tribunali. 
I militari hanno destituito in febbraio il loro capo, Hosni Mubarak, adesso imputato, con i figli e una manciata di complici civili, in un processo che sembra impantanato, ma è come se avessero gettato fuori bordo una zavorra, pensando di poter cosi salvare l´essenziale del regime. Vale a dire se stessi. Raccolti nel Consiglio supremo delle Forze armate, composto da una ventina di generali, si sono sostituiti al capo dello Stato. Una specie di presidenza collettiva, contestata, vilipesa, e tuttavia dotata di tutti gli strumenti di un regime autoritario: i mukabarat, i poliziotti (numerosi come gli scarafaggi, dice il giovane Wael di piazza Tahrir), continuano a tenere sotto sorveglianza il paese, come un tempo. 
I generali reprimono e poi si scusano. Annunciano che si ritireranno dal potere politico ma chiedono garanzie per conservare i loro privilegi, anche quelli politici. E hanno programmato la maratona elettorale, destinata a rinnovare le istituzioni e la stessa Costituzione, ma non hanno nascosto l´intenzione di collocarsi al di sopra della Costituzione (suggerendo che il paese approvi questo singolare privilegio con un referendum). Hanno altresì chiesto che il loro bilancio rimanga segreto. Quest´ultima esigenza sarebbe giustificata dal ruolo decisivo che le forze armate egiziane hanno in Medio Oriente. Esse sono garanti degli accordi di Camp David (1979), su cui si basano i rapporti tra Egitto e Israele, e di riflesso quelli con gli Stati Uniti. I quali danno ogni anno un miliardo e trecento milioni di dollari all´esercito del Cairo. Un aiuto secondo soltanto a quello elargito all´esercito israeliano. Il recente richiamo della Casa Bianca, che ha invitato con toni asciutti i militari egiziani a trasferire i poteri ai civili, deve avere preoccupato i generali. Anche se essi sanno di essere interlocutori indispensabili alla super potenza, per quel che riguarda la pace mediorientale. 
Per la maggioranza silenziosa egiziana i militari sono la spina dorsale del paese. La loro forza risiede in quella larga parte della popolazione. I rivoluzionari di piazza Tahrir raccolgono l´adesione della società civile, di una qualificata parte della popolazione urbana, ma l´Egitto rurale, prigioniero delle tradizioni e dei richiami religiosi, non ha le stesse reazioni. La principale formazione politica, il Partito della Libertà e della Giustizia, emanazione della Confraternita dei Fratelli Musulmani, dopo avere partecipato alle grandi manifestazioni di protesta di piazza Tahrir, ha assunto una posizione molto più moderata, e in definitiva tollerante se non sottomessa, nei confronti dei militari. Sui quali conta per far rispettare l´inevitabile successo elettorale dei Fratelli musulmani. 
L´"alleanza per la continuità della rivoluzione", in cui sono raccolti i partiti di sinistra e i musulmani progressisti, oltre a non pochi cristiani copti, rifiuta il confronto tra laici e musulmani che ha prevalso nella campagna elettorale degli altri partiti, e pone soprattutto il problema della giustizia sociale e del potere dei militari. Ma pur essendo uno dei motori della protesta, può difficilmente concorrere con i Fratelli Musulmani e con la maggioranza silenziosa, in cui sono annidati anche i partiti nostalgici di Mubarak. La maratona elettorale è quindi al tempo stesso un essenziale esercizio democratico e un´abile operazione dei militari. In essa possono infatti dissolversi, sia pur per breve tempo, le forze rivoluzionarie di piazza Tahrir.

Bernardo Valli








Nessun commento:

Posta un commento