Iran, ultima sfida all'Occidente
Sembrano due pianeti distanti anni luce l´uno dall´altro l´Iran di Ahmadinejad che non intende «arretrare neppure di un millimetro» dal suo programma nucleare malgrado il rapporto dell´Aiea che, in base a "indizi convergenti", conferma l´intenzione della Repubblica islamica di voler costruire ordigni nucleari, e l´Iran della gente comune, quella maggioranza smarrita e silenziosa che fatica a sbarcare il lunario.
Il primo vanta di possedere strumenti bellici in grado di «distruggere Israele» un istante dopo l´eventuale attacco contro le sue installazioni nucleari (lo ha affermato ieri il capo di stato maggiore delle forze armate iraniane, Massud Jazayeri) e accusa il direttore dell´Aiea, Yukiya Amano, di essere un «servo degli americani». Il secondo, il popolo minuto, teme invece l´aggravarsi delle proprie condizioni di vita con l´imposizione di «sanzioni forti e ancora più dure».
A chiedere quelle sanzioni è parte della comunità internazionale, a cominciare dalla Francia e dall´Inghilterra, mentre l´Italia con il ministro degli Esteri Franco Frattini pretende dall´Iran «un dettagliato riscontro per dissipare le preoccupazioni destate dal rapporto dell´Aiea».
C´è poi la famigerata e minacciosa "opzione militare", seriamente e insistentemente presa in considerazione dagli israeliani, e non solo da loro: «Non si tratta di una pistola fumante», scriveva ieri il giornale israeliano Haaretz per commentare il rapporto dell´Agenzia dell´Onu che ha il compito di monitorare le attività atomiche nel mondo, ma di «un missile con la testata nucleare». Dunque, come ha detto ieri Benjamin Netanyahu dopo un lungo e emblematico silenzio: «La comunità internazionale deve fare in modo che l´Iran cessi di lavorare ad armi nucleari che mettono in pericolo il mondo e il Medi Oriente».
In questo caos tragico che regna nella Repubblica islamica, sono per la maggior parte giovani, ragazzi e ragazze spaventati che in questi giorni di «trambusto di tamburi che annuncia l´imminente guerra» cercano di trovare rifugio nelle pagine dei blog per scambiarsi pareri, per consolarsi e per sfogare la rabbia accumulata in seguito alla brutale repressione che ha soffocato il movimento di protesta per la rielezione di Ahmadinejad. Si firmano come un Ali qualsiasi, un Firuz che può essere ognuno di loro, una Shahla che ha il volto di mille altre Shahla, e il sostantivo più frequente nelle loro lamentele è l´inquietudine.
Sono i blogger la voce narrante dell´Iran che ignora i calcoli del regime, le sue reali possibilità di sopportare le sanzioni o i blitz militari e ha paura che l´insieme dagli apparati politico-militari del regime, sempre più gradassi e sicuri di sé quando si tratta di regolare i conti con l´Occidente, siano in realtà degli spavaldi "bluffer" e che alla fine sarà il popolo a pagare le conseguenze delle loro complicate acrobazie sui piani nucleari del paese.
«In nessuna fase della storia del nostro paese la guerra e l´invasione degli stranieri sono state a vantaggio della nostra gente e non lo saranno neppure questa volta. La guerra non conviene, né a noi iraniani né ad altri», ha scritto quell´Ali qualsiasi sul blog "Libertà e sviluppo". Vengono rievocate l´invasione degli arabi che hanno sconfitto l´Impero iraniano, quella dei mongoli che hanno elevato cumuli di cadaveri in ogni angolo del paese; si ricordano le interferenze della Cia che hanno determinato la fine di un governo apprezzato, quello di Mohammad Mossadegh negli anni Cinquanta, e soprattutto non si dimenticano le ferite provocate dagli otto anni di guerra imposta da Saddam Hussein. E quello dei blogger non è un pacifismo di maniera: è il terrore per il ritorno di un passato remoto e recente.
Ma è difficile che la repulsione nei confronti dell´invasore straniero renda accettabile un regime inviso. In un libro che non ha passato l´esame della censura e quindi è stato sintetizzato in un breve articolo sulla rete, l´accademico Rahimi Brugerdi scrive che l´Iran di oggi subisce ogni anno danni paragonabili al 75 per cento di quelli provocati in ciascuno degli anni di guerra con gli iracheni; che il governo di Ahmadinejad ha sperperato miliardi di dollari provenienti dalle vendite di petrolio in spese occulte oppure per scopi militari e che l´80 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà guadagnando meno di 500 euro al mese. Brugerdi elenca 23 voci per descrivere l´attuale situazione socio-economica del paese, citando le statistiche nazionali e quelle degli enti internazionali: una lenta agonia che non permette agli iraniani di occuparsi delle beghe tra Ahmadinejad e Khamenei, come fossero rassegnati a un male incurabile e a un destino maledetto.
Il senso d´impotenza che rasenta l´apatia, è cresciuto con la violenta sconfitta del movimento verde. L´eventualità di una guerra in questa situazione, che molti ritengono sia anche una speranza del regime, prospetta un triste panorama già visto, già vissuto: martellanti richiami all´orgoglio nazionale, a serrare le fila intorno al regime, mentre si farà scorrere acqua color sangue dalle fontane nelle piazze e si tappezzeranno le facciate degli edifici con le gigantografie degli eroi e dei martiri.
Tutto a vantaggio degli ayatollah ultraconservatori, dei pasdaran e dei nazional-militaristi che gestiscono il governo. Così qualcuno si aggrappa ai paradossi pur di uscire dell´odierno vicolo cieco e scrive: «Nessuna dittatura nella storia se n´è andata se non in seguito ad una guerra. Gli iraniani hanno di fronte due strade: chiedere con una sola voce la fine del regime, oppure accettare che sia una guerra a spazzarlo via. La prima soluzione non sembra a portata di mano: non ci resta che la guerra», ha scritto Iradj, un Iradj qualsiasi, ma la sua è una voce isolata.
Intanto gli strateghi della Repubblica islamica, insieme alle minacce, partendo dalla debolezza dell´Occidente a causa della crisi economica, dall´impasse degli Stati Uniti che faticano a uscire dal pantano afgano e dalle paludi mesopotamiche a un anno dalle elezioni presidenziali, non escludono la ripresa dei colloqui negoziali: «purché si faccia in un clima di rispetto reciproco», come sosteneva ieri il portavoce della diplomazia iraniana Rahim Mehmanparast. E puntano a tornare alle trattative, questa volta da una posizione di forza, proprio grazie al rapporto dell´Aiea e al sostegno della Russia, che giudica il dossier sul nucleare «non nuovo e politicizzato», e della Cina con entrambi i Paesi che già hanno fatto sapere di «non permettere che ci sia un attacco militare contro l´Iran». Da tempo infatti a Teheran molti pensano che con la bomba già pronta si negozia meglio. E si fa l´esempio della Corea del Nord, presa seriamente dagli americani soltanto quando si è accertato che Pyongyang possedeva l´ordigno atomico. Ma anche questo potrebbe essere un azzardo che fa crescere l´incertezza e l´inquietudine del popolo.
Il primo vanta di possedere strumenti bellici in grado di «distruggere Israele» un istante dopo l´eventuale attacco contro le sue installazioni nucleari (lo ha affermato ieri il capo di stato maggiore delle forze armate iraniane, Massud Jazayeri) e accusa il direttore dell´Aiea, Yukiya Amano, di essere un «servo degli americani». Il secondo, il popolo minuto, teme invece l´aggravarsi delle proprie condizioni di vita con l´imposizione di «sanzioni forti e ancora più dure».
A chiedere quelle sanzioni è parte della comunità internazionale, a cominciare dalla Francia e dall´Inghilterra, mentre l´Italia con il ministro degli Esteri Franco Frattini pretende dall´Iran «un dettagliato riscontro per dissipare le preoccupazioni destate dal rapporto dell´Aiea».
C´è poi la famigerata e minacciosa "opzione militare", seriamente e insistentemente presa in considerazione dagli israeliani, e non solo da loro: «Non si tratta di una pistola fumante», scriveva ieri il giornale israeliano Haaretz per commentare il rapporto dell´Agenzia dell´Onu che ha il compito di monitorare le attività atomiche nel mondo, ma di «un missile con la testata nucleare». Dunque, come ha detto ieri Benjamin Netanyahu dopo un lungo e emblematico silenzio: «La comunità internazionale deve fare in modo che l´Iran cessi di lavorare ad armi nucleari che mettono in pericolo il mondo e il Medi Oriente».
In questo caos tragico che regna nella Repubblica islamica, sono per la maggior parte giovani, ragazzi e ragazze spaventati che in questi giorni di «trambusto di tamburi che annuncia l´imminente guerra» cercano di trovare rifugio nelle pagine dei blog per scambiarsi pareri, per consolarsi e per sfogare la rabbia accumulata in seguito alla brutale repressione che ha soffocato il movimento di protesta per la rielezione di Ahmadinejad. Si firmano come un Ali qualsiasi, un Firuz che può essere ognuno di loro, una Shahla che ha il volto di mille altre Shahla, e il sostantivo più frequente nelle loro lamentele è l´inquietudine.
Sono i blogger la voce narrante dell´Iran che ignora i calcoli del regime, le sue reali possibilità di sopportare le sanzioni o i blitz militari e ha paura che l´insieme dagli apparati politico-militari del regime, sempre più gradassi e sicuri di sé quando si tratta di regolare i conti con l´Occidente, siano in realtà degli spavaldi "bluffer" e che alla fine sarà il popolo a pagare le conseguenze delle loro complicate acrobazie sui piani nucleari del paese.
«In nessuna fase della storia del nostro paese la guerra e l´invasione degli stranieri sono state a vantaggio della nostra gente e non lo saranno neppure questa volta. La guerra non conviene, né a noi iraniani né ad altri», ha scritto quell´Ali qualsiasi sul blog "Libertà e sviluppo". Vengono rievocate l´invasione degli arabi che hanno sconfitto l´Impero iraniano, quella dei mongoli che hanno elevato cumuli di cadaveri in ogni angolo del paese; si ricordano le interferenze della Cia che hanno determinato la fine di un governo apprezzato, quello di Mohammad Mossadegh negli anni Cinquanta, e soprattutto non si dimenticano le ferite provocate dagli otto anni di guerra imposta da Saddam Hussein. E quello dei blogger non è un pacifismo di maniera: è il terrore per il ritorno di un passato remoto e recente.
Ma è difficile che la repulsione nei confronti dell´invasore straniero renda accettabile un regime inviso. In un libro che non ha passato l´esame della censura e quindi è stato sintetizzato in un breve articolo sulla rete, l´accademico Rahimi Brugerdi scrive che l´Iran di oggi subisce ogni anno danni paragonabili al 75 per cento di quelli provocati in ciascuno degli anni di guerra con gli iracheni; che il governo di Ahmadinejad ha sperperato miliardi di dollari provenienti dalle vendite di petrolio in spese occulte oppure per scopi militari e che l´80 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà guadagnando meno di 500 euro al mese. Brugerdi elenca 23 voci per descrivere l´attuale situazione socio-economica del paese, citando le statistiche nazionali e quelle degli enti internazionali: una lenta agonia che non permette agli iraniani di occuparsi delle beghe tra Ahmadinejad e Khamenei, come fossero rassegnati a un male incurabile e a un destino maledetto.
Il senso d´impotenza che rasenta l´apatia, è cresciuto con la violenta sconfitta del movimento verde. L´eventualità di una guerra in questa situazione, che molti ritengono sia anche una speranza del regime, prospetta un triste panorama già visto, già vissuto: martellanti richiami all´orgoglio nazionale, a serrare le fila intorno al regime, mentre si farà scorrere acqua color sangue dalle fontane nelle piazze e si tappezzeranno le facciate degli edifici con le gigantografie degli eroi e dei martiri.
Tutto a vantaggio degli ayatollah ultraconservatori, dei pasdaran e dei nazional-militaristi che gestiscono il governo. Così qualcuno si aggrappa ai paradossi pur di uscire dell´odierno vicolo cieco e scrive: «Nessuna dittatura nella storia se n´è andata se non in seguito ad una guerra. Gli iraniani hanno di fronte due strade: chiedere con una sola voce la fine del regime, oppure accettare che sia una guerra a spazzarlo via. La prima soluzione non sembra a portata di mano: non ci resta che la guerra», ha scritto Iradj, un Iradj qualsiasi, ma la sua è una voce isolata.
Intanto gli strateghi della Repubblica islamica, insieme alle minacce, partendo dalla debolezza dell´Occidente a causa della crisi economica, dall´impasse degli Stati Uniti che faticano a uscire dal pantano afgano e dalle paludi mesopotamiche a un anno dalle elezioni presidenziali, non escludono la ripresa dei colloqui negoziali: «purché si faccia in un clima di rispetto reciproco», come sosteneva ieri il portavoce della diplomazia iraniana Rahim Mehmanparast. E puntano a tornare alle trattative, questa volta da una posizione di forza, proprio grazie al rapporto dell´Aiea e al sostegno della Russia, che giudica il dossier sul nucleare «non nuovo e politicizzato», e della Cina con entrambi i Paesi che già hanno fatto sapere di «non permettere che ci sia un attacco militare contro l´Iran». Da tempo infatti a Teheran molti pensano che con la bomba già pronta si negozia meglio. E si fa l´esempio della Corea del Nord, presa seriamente dagli americani soltanto quando si è accertato che Pyongyang possedeva l´ordigno atomico. Ma anche questo potrebbe essere un azzardo che fa crescere l´incertezza e l´inquietudine del popolo.
Bijan Zarmandili
Ora con Teheran un vero negoziato
Israele è pronto alla guerra preventiva contro l´Iran per impedirgli di dotarsi dell´arma atomica. Non è più questione di voci o di rivelazioni informali, è dibattito pubblico nello Stato ebraico e nel mondo. Specie dopo che l´ultimo rapporto dell´Agenzia Internazionale per l´Energia Atomica ha sostanziato e circostanziato i sospetti sull´obiettivo recondito del programma nucleare di Teheran: costruire la Bomba.
Prima di trovarsi di fronte al fatto compiuto e irreversibile di uno scontro armato nel cuore del Medio Oriente, è utile porsi tre domande. Che grado di certezza abbiamo che i persiani stiano davvero producendo un arsenale atomico? Quanto minaccioso sarebbe il progetto iraniano per Israele e per il mondo? Quanto pericoloso sarebbe l´attacco israeliano per l´Iran e per il mondo?
Sul primo quesito, alziamo le mani. Non avremo mai una risposta certa, almeno finché l´Iran sarà uno Stato sovrano in grado di proteggere i propri segreti. Ma le intelligence arabe e occidentali convergono nell´accreditare lo stato piuttosto avanzato del progetto atomico iraniano, in termini di know how, tecnologie e materiali necessari a battezzare l´arma estrema. La differenza, non irrilevante, è sui tempi (molti mesi o pochi anni) necessari al regime di Teheran per disporre del primo ordigno, base di un più vasto e spendibile arsenale. In questo caso non contano dunque i fatti certificabili, ma la ragionevole sicurezza - categoria soggettiva - che i fatti stiano in un certo modo. In Israele e non solo, l´opinione dominante è che il rischio di un Iran atomico sia effettivo, probabilmente imminente. In Arabia Saudita, arcirivale geopolitico, energetico e religioso dell´Iran - e per conseguenza paradossale alleato dello Stato ebraico in questa partita - la psicosi da Bomba persiana è financo più acuta. Mentre negli Stati Uniti, potenza protettrice di Gerusalemme, l´approccio è più conservativo, anche se gli allarmisti guadagnano terreno.
Un fattore decisivo ma quasi imperscrutabile riguarda il fronte politico iraniano. Lo scontro fra la Guida Suprema Ali Khamenei e il presidente Mahmud Ahmadinejad - agli occhi del primo un eretico, accomodante con l´America, dunque traditore - è al calor bianco. Nei prossimi mesi assisteremo alla resa dei conti ai vertici della Repubblica Islamica, anche in vista dell´elezione del successore di Ahmadinejad.
Quanto alla seconda domanda, in apparenza la risposta è lampante: l´arsenale nucleare di Teheran sarebbe una minaccia esistenziale per Israele, un pericolo per tutta la regione e per il mondo. A uno sguardo meno superficiale, questo giudizio si rivela semplicistico. Nessun paese dotato di bombe atomiche - Israele incluso - le ha finora mai impiegate, salvo gli Stati Uniti nel 1945. Sarebbe stupido inferirne che non sarà mai così. Ma gli stessi leader israeliani, compresi coloro che favoriscono l´ipotesi di un attacco preventivo ai siti nucleari persiani, sono consapevoli che l´Iran non ha una vocazione suicida. Nel momento in cui, in un atto di suprema follia, Teheran lanciasse dei missili con testata atomica su Tel Aviv, avrebbe la certezza di venire vetrificata nel giro di minuti dalla replica dei missili nucleari israeliani lanciati dai sottomarini Dolphin e da una copiosa rappresaglia atomica americana, se non atlantica.
La questione non è quindi riducibile all´aspetto militare. Il sottotesto decisivo è geopolitico. Ammettendo che l´Iran produca nel tempo bombe e vettori in quantità sufficiente da dotarsi di una credibilità nucleare paragonabile a quella dei vicini pachistano, russo o israeliano, il suo rango nella regione e nel mondo ne verrebbe notevolmente innalzato. Teheran si affermerebbe come egemone nel Golfo e in Asia occidentale, con grande scorno non solo di Israele e degli occidentali, ma soprattutto dell´Arabia Saudita, degli altri Stati arabi e del Pakistan. Si scatenerebbe la corsa regionale all´atomica. In prima linea Turchia, Egitto e Arabia Saudita, forse altri attori minori. Una proliferazione che renderebbe assai labile il paradigma della deterrenza e più concreta l´alea della catastrofe atomica anche solo accidentale.
Alla terza domanda si può replicare con le parole dell´ex capo del Mossad, Meir Dagan, che ha bollato i piani di attacco israeliani agli impianti nucleari persiani come "follia". Nell´establishment politico-militare di Gerusalemme è in atto un confronto non meno virulento di quello che divide le élite iraniane. In compenso, è largamente pubblico. Il premier Netanyahu e il ministro della Difesa Barak - cui di recente si è aggiunto il ministro degli Esteri Lieberman - sarebbero pronti a sferrare l´attacco nei prossimi mesi. Buona parte dei generali e soprattutto del Mossad dubita alquanto della convenienza e dell´utilità di bombardare l´Iran. La più che probabile rappresaglia iraniana si materializzerebbe in una pioggia di missili forse anche con testate chimiche, di attentati terroristici e di contromisure (blocco dello Stretto di Hormuz, da cui transita gran parte degli idrocarburi diretti ai paesi sviluppati), con rischio di guerra regionale, intervento americano e di altre potenze esterne. Il prezzo dell´energia salirebbe alle stelle, almeno per qualche mese, con effetti economici devastanti. Chi è disposto ad accettare questi rischi, in cambio del ritardo di qualche anno nello sviluppo della Bomba iraniana?
Combinando le risposte alle tre domande, la conclusione ragionevole parrebbe di inasprire le sanzioni contro l´Iran e insieme di aprire con Teheran un vero negoziato. Obiettivo: impedire al regime dei pasdaran di sviluppare l´arsenale nucleare in cambio del riconoscimento del suo ruolo regionale e della sua reintegrazione in ciò che resta del "sistema internazionale". Ipotesi forse troppo razionale per diventare realtà.
Prima di trovarsi di fronte al fatto compiuto e irreversibile di uno scontro armato nel cuore del Medio Oriente, è utile porsi tre domande. Che grado di certezza abbiamo che i persiani stiano davvero producendo un arsenale atomico? Quanto minaccioso sarebbe il progetto iraniano per Israele e per il mondo? Quanto pericoloso sarebbe l´attacco israeliano per l´Iran e per il mondo?
Sul primo quesito, alziamo le mani. Non avremo mai una risposta certa, almeno finché l´Iran sarà uno Stato sovrano in grado di proteggere i propri segreti. Ma le intelligence arabe e occidentali convergono nell´accreditare lo stato piuttosto avanzato del progetto atomico iraniano, in termini di know how, tecnologie e materiali necessari a battezzare l´arma estrema. La differenza, non irrilevante, è sui tempi (molti mesi o pochi anni) necessari al regime di Teheran per disporre del primo ordigno, base di un più vasto e spendibile arsenale. In questo caso non contano dunque i fatti certificabili, ma la ragionevole sicurezza - categoria soggettiva - che i fatti stiano in un certo modo. In Israele e non solo, l´opinione dominante è che il rischio di un Iran atomico sia effettivo, probabilmente imminente. In Arabia Saudita, arcirivale geopolitico, energetico e religioso dell´Iran - e per conseguenza paradossale alleato dello Stato ebraico in questa partita - la psicosi da Bomba persiana è financo più acuta. Mentre negli Stati Uniti, potenza protettrice di Gerusalemme, l´approccio è più conservativo, anche se gli allarmisti guadagnano terreno.
Un fattore decisivo ma quasi imperscrutabile riguarda il fronte politico iraniano. Lo scontro fra la Guida Suprema Ali Khamenei e il presidente Mahmud Ahmadinejad - agli occhi del primo un eretico, accomodante con l´America, dunque traditore - è al calor bianco. Nei prossimi mesi assisteremo alla resa dei conti ai vertici della Repubblica Islamica, anche in vista dell´elezione del successore di Ahmadinejad.
Quanto alla seconda domanda, in apparenza la risposta è lampante: l´arsenale nucleare di Teheran sarebbe una minaccia esistenziale per Israele, un pericolo per tutta la regione e per il mondo. A uno sguardo meno superficiale, questo giudizio si rivela semplicistico. Nessun paese dotato di bombe atomiche - Israele incluso - le ha finora mai impiegate, salvo gli Stati Uniti nel 1945. Sarebbe stupido inferirne che non sarà mai così. Ma gli stessi leader israeliani, compresi coloro che favoriscono l´ipotesi di un attacco preventivo ai siti nucleari persiani, sono consapevoli che l´Iran non ha una vocazione suicida. Nel momento in cui, in un atto di suprema follia, Teheran lanciasse dei missili con testata atomica su Tel Aviv, avrebbe la certezza di venire vetrificata nel giro di minuti dalla replica dei missili nucleari israeliani lanciati dai sottomarini Dolphin e da una copiosa rappresaglia atomica americana, se non atlantica.
La questione non è quindi riducibile all´aspetto militare. Il sottotesto decisivo è geopolitico. Ammettendo che l´Iran produca nel tempo bombe e vettori in quantità sufficiente da dotarsi di una credibilità nucleare paragonabile a quella dei vicini pachistano, russo o israeliano, il suo rango nella regione e nel mondo ne verrebbe notevolmente innalzato. Teheran si affermerebbe come egemone nel Golfo e in Asia occidentale, con grande scorno non solo di Israele e degli occidentali, ma soprattutto dell´Arabia Saudita, degli altri Stati arabi e del Pakistan. Si scatenerebbe la corsa regionale all´atomica. In prima linea Turchia, Egitto e Arabia Saudita, forse altri attori minori. Una proliferazione che renderebbe assai labile il paradigma della deterrenza e più concreta l´alea della catastrofe atomica anche solo accidentale.
Alla terza domanda si può replicare con le parole dell´ex capo del Mossad, Meir Dagan, che ha bollato i piani di attacco israeliani agli impianti nucleari persiani come "follia". Nell´establishment politico-militare di Gerusalemme è in atto un confronto non meno virulento di quello che divide le élite iraniane. In compenso, è largamente pubblico. Il premier Netanyahu e il ministro della Difesa Barak - cui di recente si è aggiunto il ministro degli Esteri Lieberman - sarebbero pronti a sferrare l´attacco nei prossimi mesi. Buona parte dei generali e soprattutto del Mossad dubita alquanto della convenienza e dell´utilità di bombardare l´Iran. La più che probabile rappresaglia iraniana si materializzerebbe in una pioggia di missili forse anche con testate chimiche, di attentati terroristici e di contromisure (blocco dello Stretto di Hormuz, da cui transita gran parte degli idrocarburi diretti ai paesi sviluppati), con rischio di guerra regionale, intervento americano e di altre potenze esterne. Il prezzo dell´energia salirebbe alle stelle, almeno per qualche mese, con effetti economici devastanti. Chi è disposto ad accettare questi rischi, in cambio del ritardo di qualche anno nello sviluppo della Bomba iraniana?
Combinando le risposte alle tre domande, la conclusione ragionevole parrebbe di inasprire le sanzioni contro l´Iran e insieme di aprire con Teheran un vero negoziato. Obiettivo: impedire al regime dei pasdaran di sviluppare l´arsenale nucleare in cambio del riconoscimento del suo ruolo regionale e della sua reintegrazione in ciò che resta del "sistema internazionale". Ipotesi forse troppo razionale per diventare realtà.
Lucio Caracciolo
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