Gli islamici tunisini: «A noi la guida del governo»
TUNISI — Gli islamici hanno stravinto e ora vogliono, com'è naturale, guidare il governo. Per tutta la giornata di ieri i tre computer (proprio così, solo tre) a disposizione dell'Isie (l'Istanza superiore di garanzia per le elezioni) hanno sgocciolato, uno a uno, i dati sulla ripartizione dei 217 posti dell'Assemblea costituente. Un conto lunghissimo, tormentato da possibili brogli. I risultati finali, è l'annuncio ufficiale, dovrebbero essere comunicati soltanto domani. Ma pur nella coda (prevedibile) di ricorsi e micro presidi di protesta, nessuno può contestare la sostanza del voto. Ennahda ha già conquistato 82 seggi. E' il partito cardine della nuova Tunisia, e il suo leader storico, Rachid Gannouchi ne dà piena dimostrazione fin dalla mattina, rivendicando la carica di primo ministro per il segretario Hamadi Djebali. Certo, Gannouchi apre all'ipotesi di un governo «di vasta coalizione», e propone come presidente della Repubblica «di garanzia», l'attuale premier pro tempore Beji Caid Essebsi. Ennahda, dunque, non si nasconde. Al contrario, dichiara lo stesso Djebali alla tv satellitare Al-Arabiya, «il partito è pronto a guidare il Paese».Ora, il problema non è tanto con chi. Il secondo partito classificato, il Cpr (Congresso per la Repubblica) è lontanissimo: 27 voti, ma, soprattutto, non ha alcuna intenzione di rimettere insieme i frammenti modernisti in un blocco da contrapporre agli islamici. Ieri mattina il leader Moncef Marzouki ha ripetuto all'infinito un concetto: «Abbiamo già avviato il confronto con Ennahda. È un partito moderato con cui si può governare». E, quando arriva il turno del Corriere, Marzouki si lancia su scivolose similitudini: «Ennahda è paragonabile alla Democrazia cristiana ai tempi di Aldo Moro. E non esiste un solo Islam, come non esisteva un solo comunismo. Non possiamo mettere sul medesimo piano gli estremisti radicali e gli islamici moderati. Sarebbe come considerare nello stesso modo Pol Pot e Berlinguer».
Comunque sia, riferimenti storici a parte, una cosa si è capita: i dirigenti degli altri 3-4 partiti ammessi alla Costituente sono già in coda davanti agli uffici di Gannouchi e di Djebali. Il numero uno di Ettakatol (altra formazione di centro sinistra, 17 seggi secondo gli ultimi parziali) Mustafa Ben Jafaar, si è addirittura candidato alla presidenza della Repubblica.
Nel futuro emiciclo non ci sarà molto altro di politicamente significativo. C'è la sorpresa della lista Petition Populaire guidata dall'imprenditore Hachmi El Hamdi, che ha condotto una spregiudicata campagna elettorale utilizzando la sua televisione satellitare (Tv libre) con base a Londra. El Hamdi, vecchio sodale del dittatore Ben Ali, rischia di perdere tutti o buona parte dei 18 seggi conquistati per aver infranto le regole elettorali. In realtà, la dinamica politica è già oltre la questione delle alleanze. Ennahda, dunque, dà le carte, d'accordo. Ma per fare cosa? Leggere «il programma dei 365 punti» presentato a settembre dagli islamici è un esercizio poco produttivo. «Democrazia parlamentare», «rilancio dell'economia», sono contenitori tanto condivisi, quanto generici. Il governo dovrà fronteggiare, innanzitutto, la crescente disoccupazione giovanile che sta corrodendo la tenuta sociale del Paese (leggi, in particolare, immigrazione clandestina verso Italia e Europa). Nello stesso tempo Ennahda, ogni giorno, sarà chiamata a superare il test di affidabilità democratica. Donne, velo, ma anche scuola, divorzio. L'opinione pubblica laica è delusa, ma ancora iper vigile. Basta una parola ambigua di Gannouchi (ieri ha detto: «Noi siamo arabi e la nostra lingua è quella araba») per rilanciare la complicata discussione sull'identità della nuova Tunisia.
Giuseppe Sarcina
Come ormai tutti i mezzi di informazione europei sono stati costretti a riconoscere, nelle elezioni tunisine, le prime svoltesi in piena libertà e nell'ordine più tranquillo nell'intera storia tunisina, il partito Ennahda, il cui leader Rashid Gannouchi si è goduto un decennio di anni di galera sotto la dittatura di Ben Alì (accreditato per decenni come un sincero democratico amico dell'occidente), ha stravinto con una percentuale vicina al 50% dei votanti: che sono stati il 92% del corpo elettorale. Le operazioni di voto e il successivo spoglio delle schede elettorali si è svolto in un clima gioioso, con lunghe file di persone che attendevano il loro turno nel massimo ordine e con una sincera gioia dipinta sui volti: giovani, anziani, donne col velo e senza, ragazze in blue jeans, imam con la tradizionale veste bianca, distinti signori in perfetto abito da professionisti, contadini, in sostanza un intero campionario della società tunisina. A conferma del clima di entusiasmo democratico delle elezioni tunisine c'è il dato riguardante il comportamento dei 130 mila tunisini residenti in Italia, che si sono recati a votare nei seggi allestiti preso i vari consolati e hanno attribuito al partito Ennahda il 62% dei voti: segno evidente che il fatto di vivere in una società occidentale non ha affatto attutito i sentimenti islamici dei tunisini all'estero ma, semmai gli hanno accentuati.
Naturalmente il risultato non è piaciuto ai puristi della democrazia nostrana, che hanno assistito con grave preoccupazione e moltissime riserve alla vittoria di un partito islamico, che qualcuno nel tentativo di battere il primate della spudoratezza ha definito un partito islamico conservatore ed estremista, oppure una versione fondamentalista dell'Islamismo; non è mancato chi ha previsto un futuro dominato dall'estremismo per la Tunisia come si può arguire dal fatto che il partito Ennahda ha già lanciato la sua pericolosa pretesa:
"A noi la guida del governo!". La definizione più grottesca dell'Ennahda è stata quella del giornalista che lo ha definito un "partito confessionale": circostanza, questa, quanto meno misteriosa se si considera che l'Islam della Tunisia, essendo nella sua totalità di ispirazione sunnita, non ha preti, organizzazione ecclesiastica e, quindi, "confessione".
I tunisini sono più semplicemente musulmani così come gli inglesi, gli scandinavi, i tedeschi, gli americani e persino gli italiani sono in maggioranza cristiani. Che abbiano votato per un partito che riconosce l'Islam come sua religione è quindi una circostanza normale: così come è normale per gli americani far giurare al neo eletto presidente dell'unione sulla Bibbia, o considerare il re d'Inghilterra capo della chiesa anglicana, cui è dedicato l'inno "God Save the King". Considereremo fondamentalisti cristiani gli statunitensi che scrissero sul dollaro "In God we Trust!"? E che dire di quei partiti di ispirazione cattolica i quali trovano perfettamente normale affermare che nell'esercizio della loro attività politica intendono far riferimento a quelli che la Chiesa cattolica considera "Valori non Negoziabili"?
La verità è che i partiti che stanno portando avanti la rivoluzione democratica nei paesi islamici, dal partito di Erdogan in Turchia al partito dei Fratelli Musulmani in Egitto, dal partito Ennahda in Tunisia fino alle moltitudini che cercano di rovesciare il regime dittatoriale di Assad in Siria sono tutti partiti islamici con una profonda, radicata e antica vocazione democratica e sociale. Volendo fare dei paralleli potremmo dire che si tratta di partiti che seguono una via di mezzo tra i partiti europei democristiani e le socialdemocrazie. E' essenziale, a questo punto, individuare la più profonda ragione del loro radicamento di massa che ha resistito a decenni di tirannie asservite all'occidente e sostanzialmente "laiche". Uno dei fondamenti dell'Islam è l'obbligo della Zakad (l'ovolo per i poveri): chiunque ne abbia la possibilità deve versare una somma di denaro periodica da destinare all'aiuto per le fasce più diseredate delle popolazioni. Negli anni in cui i dittatori filo occidentali si divoravano con voracità le ricchezze prodotte dalla loro nazione, azzerando di fatto ogni forma di previdenza sociale, di istruzione gratuita, di servizi per i meno abbienti, i partiti di ispirazione islamica hanno creato una fitta rete di ambulatori gratuiti, di ospedali, di scuole, di servizi per i quartieri più diseredati: in breve un Welfare State sostitutivo di quello che i governanti non mettevano in piedi. Questo, e non l'innato fanatismo nemico della democrazia ha dato forza a questi partiti e ha fatto si che essi siano stati l'asse portante delle rivoluzioni e della Primavera Araba. Per questo Ennahda ha raccolto quasi la metà dei consensi e per questo essa ha il diritto e il dovere di assumere la guida del governo tunisino. La vittoria di Ennahda così come i trionfi di Erdogan hanno questo significato: e sono un messaggio che vale anche per l'Europa e l'Occidente in crisi.
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