mercoledì 19 ottobre 2011


LO SCONFITTO È ABU MAZEN

Lo scambio fra il sergente maggiore israeliano Gilad Shalit, detenuto per 5 anni da Hamas, e 1.027 prigionieri palestinesi, non significa affatto un progresso verso la pace in Medio Oriente.
Semmai il contrario. Nel lapidario giudizio del capo dei servizi segreti interni di Gerusalemme, Yoram Cohen, il baratto «rafforza Hamas e indebolisce Fatah». Meglio: punisce Abu Mazen per aver sfidato Israele alle Nazioni Unite. Così infrangendo il tabù dei tabù israeliani: la disputa con i palestinesi non dev´essere internazionalizzata, ma lasciata all´alquanto asimmetrico confronto fra le parti e alla non proprio equilibrata mediazione statunitense.
Che cosa possiamo leggere tra le righe del patto fra Israele e Hamas? Almeno tre dati balzano agli occhi.
In primo luogo, la sproporzione nello scambio rivela i rapporti di forza. Se uno Stato concede al nemico 1.027 probabili futuri combattenti in cambio di un proprio sottufficiale, vuol dire che si sente terribilmente più robusto. Alla radice dell´impasse negoziale fra Israele e palestinesi sta questa certezza. Essa induce Netanyahu a prendere tempo su un fronte che non considera né strategico né pericoloso. Resta valido il dogma dell´ex consigliere di Sharon, Dov Weisglass, per cui la pace con i palestinesi si farà «solo quando saranno diventati finlandesi». Semplicemente, Israele è convinto di non aver bisogno di risolvere la «questione palestinese», che di fatto non esiste. Lo status quo va bene.
Secondariamente, Hamas è il miglior nemico possibile per Netanyahu. Bollata come organizzazione terroristica, dotata di uno statuto che tuttora prevede la liquidazione dello Stato ebraico (anche se i suoi leader più pragmatici da tempo evitano di ripetere questo slogan), Hamas è stata incentivata da Gerusalemme fin dagli anni Settanta. Lo scopo: costruire un contrappeso islamista al nazionalismo di Arafat, allora assai più minaccioso. Dividere i palestinesi per meglio controllarli.
Intanto Hamas festeggia i primi prigionieri liberati e la sua piazza canta «vogliamo un altro Shalit». In teoria, con altri sette soldati catturati e scambiati secondo la stessa unità di misura - uno contro mille - tutti i militanti palestinesi che ancora languono nelle carceri israeliane tornererebbero fra i loro cari. Ossia in campo contro Israele.
Terzo, Netanyahu rafforza la sua immagine domestica. Quattro israeliani su cinque sono d´accordo con la sua scelta. Comunque vada, il premier passerà alla storia come il liberatore del soldato Shalit. Per il quale si era formato in patria un movimento assai visibile e influente. Certo, non mancano le voci critiche, specie nell´ultradestra, a cominciare dai tre ministri che hanno votato contro la decisione del premier. Ma Netanyahu è convinto di aver preso la decisione giusta al momento giusto: «Ora o mai più».
La scelta dei tempi non è casuale. Gerusalemme è sempre più isolata nella regione e nel mondo. La «primavera araba», secondo Netanyahu, è una iattura. Nella sua visione antropologica degli arabi, questi non sono e non saranno mai maturi per la democrazia e per la pace. I sommovimenti in corso attorno ad Israele significano la perdita di un fedele amico (Mubarak), di due provati nemici del terrorismo islamico (Ben Ali e Gheddafi), oltre alla possibile caduta di un avversario di carta (Assad), e soprattutto all´affermazione di un ex alleato speciale - la Turchia di Erdogan - come potenza regionale ostile. Sicché bisognava riportare a casa Shalit adesso, perché i rapporti con tutti i vicini, specie con l´Egitto, principale mediatore nei negoziati Hamas-Israle, tendono a peggiorare. Domani, forse, non ci sarà più spazio per trattare, neanche sottobanco. Semmai riparleranno le armi.
Alcuni analisti israeliani considerano infatti la mossa di Netanyahu come propedeutica alla guerra preventiva contro l´Iran. Necessaria per sovvertire l´inerzia negativa della "primavera araba". Ma gli arabi non sono una minaccia mortale. Solo la potenza persiana, se dotata dell´arma atomica, sarebbe in grado di distruggere Israele. Da tempo Gerusalemme lavora ai dettagli di un attacco ai siti nucleari iraniani. La maggioranza 

dell´establishment militare israeliano lo considera una follia. Netanyahu no: è un´opzione. L´ultima parola spetterà a lui. 


Lucio Caracciolo



Con i ribelli in festa a Bani Walid liberata "E ora a Sirte, ci aspetta 

l´ultima battaglia"

BANI WALID - C´è voluto un aiuto eccezionale, per prendere la roccaforte gheddafiana ai confini del deserto, dopo sei settimane di assedio. I ribelli libici lo sanno bene, lo sa anche Mustafà Abu Shagur, docente di Ingegneria prestato alla rivoluzione: «I carri armati dei lealisti? Non li abbiamo fermati noi. Li ha fermati Dio». È grazie a Dio che gli ultimi mercenari hanno abbandonato le torrette davanti ai twar, è grazie a Dio che sono fuggiti. E la gioia dei conquistatori si esprime nel Takbir, il grido «Allahu Akbar!», Dio è grande, che è insieme saluto, incoraggiamento, segno di riconoscimento e di fratellanza.
Nella piazza centrale di Bani Walid, coperta da un tappeto di bossoli, ragazzi di Slitan e di Misurata si abbracciano sul cassone di un camion, ballano, cantano: «Siamo i nipoti di Omar al Mukhtar». Sparano senza sosta con i kalashknikov, le mitraglie pesanti, persino con i cannoncini antiaerei. Sparano verso il cielo, vogliono segnalare al colonnello, che si sentiva tanto in alto da essere intoccabile, che stavolta è finita. Il suo tempo è contato. Bani Walid è caduta, la capitale dei potentissimi Warfalla è ridotta a un cumulo di case sfregiate dai proiettili e muri sventrati. Era stata affidata al figlio prediletto del rais, Saif al Islam, adesso è in mano agli adolescenti in ciabatte. «Stiamo già ripartendo, ora andiamo a Sirte», dice scendendo da un pick-up crivellato di schegge Hisham Alhares, giovane berbero, fuggito a Bratislava per studiare. Sì, resta solo Sirte, poi per Muhammar Gheddafi, ovunque sia, gli unici covi rimasti saranno fra le dune, gli unici alleati saranno pochi tuareg, l´unica via d´uscita sarà la fuga.
«La città è sotto controllo, ma solo come può esserlo in questo momento». Stavolta niente toni trionfali: Mohamed Bashir, ex pilota militare poi emigrato in Ohio, oggi comandante di uno dei tre gruppi protagonisti dell´assedio, racconta con franchezza inusuale: «Sappiamo che ci sono ancora kataeb, militari lealisti, nascosti da qualche parte. Ne abbiamo catturato più di duecento, ma qualcuno ci è senz´altro sfuggito». Vedere i prigionieri, però, è impossibile: «Li abbiamo già portati a Zawiyah», «No, sono a Gharyan». Alla fine, i miliziani che controllano il villaggio di Tininay, accanto a Bani Walid, spingono fuori quattro neri giovanissimi e terrorizzati. «Sono operai ciadiani, almeno loro dicono così», abbaia il comandante locale Munir Salem, quasi invitando i quattro a smentirlo. Bashir chiarisce: «I prigionieri vengono interrogati e poi smistati, li trattiamo secondo le regole». In più, chiarisce un alto ufficiale, con i tribunali ancora chiusi non ha senso trattenere quelli che comunque sarebbero "pesci piccoli".
Bloccati i mercenari, Bani Walid resta vuota. I 70mila abitanti hanno abbandonato la città e i villaggi intorno, magari per affrontare a piedi, nella notte, le colline desertiche e raggiungere un rifugio, anche sono nel letto di un fiumiciattolo. Avevano capito che non c´era altra scelta già quando i gheddafiani avevano osato persino aprire il fuoco sugli anziani Warfalla che si erano offerti come mediatori fra loro e i ribelli del Consiglio nazionale di transizione. Ora le poche finestre non sprangate sono buie, le botteghe chiuse oppure sfondate dai twar per una "spesa" d´emergenza, le strade ricoperte di bossoli di ogni misura, compresi i giganteschi 106 millimetri grossi quanto un tubo di grondaia. Fra le case si aggirano solo poche capre e due solitari cammelli, persino l´aeroporto è abbandonato, con sei bimotori tinteggiati in colori mimetici utili solo per i ribelli più giovani come palcoscenico delle foto ricordo.
Se i suoi sono spariti, Gheddafi è lontano. Non fa più paura, persino le preoccupazioni espresse ieri a Tripoli da Hillary Clinton, sul pericolo di un ritorno del raìs, sembrano irreali dopo la vittoria. Il colonnello è rimasto nei graffiti di scherno, nei poster strappati, nei manifesti dati alle fiamme. E naturalmente nell´arazzo celebrativo che adesso si usa per pulire le scarpe, all´ingresso dell´ospedale. I medici si affannano su un twar ferito a un occhio, chiariscono che solo da pochi giorni hanno ripreso a lavorare. I combattenti in gravi condizioni sono stati portati a Gharyan, per gli altri non ci sono emergenze. Omar Fawzi, ventiduenne studente di Legge, ha una fascia insanguinata sulla testa: «Che cosa ho pensato quando sono stato ferito? Che stavo per morire, che sarei diventato un martire. Ma non sono stato abbastanza fortunato da essere uno shadid». 



Giampaolo Cadalanu









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