domenica 23 ottobre 2011

LA MORTE DI GHEDDAFI - III (23/10/2011)


Tra i ribelli della città fantasma "Abbiamo vendicato i martiri ora Sirte è la tomba del tiranno"

SIRTE - I campi di battaglia, anche quelli dove si chiude un´epoca storica, non hanno nulla di eroico. Lo spazio sabbioso a lato di una delle strade di uscita da Sirte, dove è finita l´epoca di Gheddafi, sarebbe quasi banale se non fosse per i cadaveri anneriti tra le carcasse di auto incendiate. Quando arriviamo ai resti del convoglio su cui Gheddafi, all´alba di giovedì scorso, ha cercato di fuggire dalla città che aveva creato per magnificare la sua potenza, gli uomini della Mezzaluna Rossa di Misurata stanno allineando le salme raccolte qui intorno. Sul terreno ci sono già 36 sacchi bianchi in file ordinate, un pick up arriva con un nuovo carico, mentre un ragazzo, senza neanche una mascherina per proteggersi dall´odore nauseabondo, si aggira tra gli scheletri delle auto e ispeziona i cadaveri bruciacchiati rimasti a terra, ai quali coperte a fiori hanno solo parzialmente offerto un po´ di pietà. «Non hanno neanche un nome - dice scuotendo la testa - sulla piastrina di riconoscimento c´è soltanto il numero». Erano i fedeli del colonnello, la sua guardia scelta, che lo ha protetto fino al tunnel di scolo dal quale è stato trascinato fuori vivo, come sono pronti a confermare tutti, qui intorno.
L´ultimo rifugio di Gheddafi è a meno di trenta metri di distanza dal punto in cui il convoglio è stato annientato ed è già un monumento. Lo hanno eretto tale le tante scritte - le frasi "Qui è stato trovato il ratto", "La vittoria dei ribelli di Misurata", "I martiri sono vendicati" che si sovrappongono l´una all´altra - ma soprattutto i gruppetti di ribelli che vengono a farsi fotografare chini di fronte al canale mentre fanno il segno di vittoria, o mentre raccolgono i bossoli che formano un tappeto sul terreno.
Fermo sulla strada, proprio sopra il canale, c´è un pick up con tre uomini in uniforme. Osservano la scena e i loro visi non nascondono il disappunto. «Si vede che questa gente non sa cosa è successo davvero a Sirte - dice uno di loro in buon inglese - altrimenti non riuscirebbero a sorridere». In città si diffonde la notizia dell´autopsia al raìs: i resti saranno restituiti alla famiglia. «Un atto di pietà», commentano i più ragionevoli.
Ali Elojla è arrivato nell´ultimo baluardo del gheddafismo un mese fa da Bengasi. «Sono un ingegnere diventato soldato mio malgrado - racconta senza mai togliere il dito dal grilletto del kalashnikov - a 31 anni ho dovuto imbracciare il fucile e andare a cercare mio fratello, ostaggio di Gheddafi». Gli si riempiono gli occhi di lacrime mentre racconta: «È un medico, era venuto a Sirte per aiutare, curava tutti, voleva soltanto salvare delle vite - dice quasi urlando - poi è scomparso, non so più nulla di lui. I medici sono sacri, ma per quel porco non c´era niente di sacro». Ha cercato il fratello casa per casa e continua a farlo: «La guerra non è finita, ci sono ancora dei cecchini, anche ieri abbiamo trovato degli uomini di Gheddafi nascosti in uno scantinato». La domanda «Che cosa ne avete fatto?» ha come risposta: «Noi libici abbiamo una mentalità aperta, vogliamo la pace, vogliamo costruire la democrazia. Sono pronto a restituire le armi, ma non è ancora il momento».
Troppo presto per lasciarsi alle spalle il peggio, sembra confermare l´atmosfera da città fantasma di Sirte. Passata Misurata, sulla strada dritta che corre in mezzo al deserto, non si incontrano auto che vanno verso l´ultima roccaforte del colonnello. In direzione contraria incrociamo convogli di mezzi blindati, pick up con le armi leggere, tir degli aiuti umanitari.
Su ogni portabagagli, insieme all´artiglieria, c´è un pezzo del fasto della città che Gheddafi voleva di rappresentanza. Si portano via le macchinine elettriche in uso sui campi da golf, i lettini di plastica da bordo piscina, intorno alla canna di un lanciarazzi è avvolto, e assicurato con grande cura, un tappeto nuovo e pulito, blu e azzurro. A circa 50 chilometri da Sirte, la strada si anima d´improvviso, ci sono ruspe e camion che rimuovono uno sbarramento, si è creata una fila di poche auto. In una c´è una famiglia, i due bambini non hanno più di cinque anni, dicono che abitavano a Sirte ma non torneranno in città, si fermeranno fuori dove hanno lasciato dei dromedari al pascolo. In effetti le bestie, insieme ai mezzi dei soldati in senso contrario, sono l´unico segno di vita in una landa desolata, finché si cominciano a vedere le colonne di fumo nero.
All´ingresso della città ci fermano e si convincono a lasciarci entrare soltanto quando gli diciamo che vogliamo andare «dove hanno stanato il topo». Dicono di non volere auto a intralciare i convogli in uscita, la trattativa si fa con un uomo emaciato e dall´aria stanca. Ha 41 anni, ma ne dimostra 60, e dopo l´offerta di un pacchetto di sigarette si lascia andare, senza che gli si facciano domande. La prima cosa che dice è «Ho perso tanti amici a Sirte, nella battaglia più dura a Wadi Jaref, vicino all´aeroporto, sono morte almeno 250 persone». Si chiama Ramadan Ali Muhammed Garghor e viene da Misurata, dove, racconta, ha cominciato a combattere «con sette coltelli in mano e due asce».
Vicino a lui un ragazzo giocherella con un paio di manette e alle loro spalle, 50 metri più in là, c´è un piccolo drappello intorno a quelli che sembrano prigionieri, non più di una trentina, tutti di pelle molto scura. «Ne abbiamo presi oltre 175 - conferma Garghor - quelli rimasti li porteremo a Misurata e li giudicheremo». Non ci lasciano avvicinare, non rispondono alla domanda se, dicendo «quelli rimasti», si riferisce a quelli ancora vivi o quelli ancora da portare via.
Un pick up bianco, in condizioni molto migliori di quelli visti finora, ci viene incontro. Sono volontari civili di Misurata, curano alcuni feriti che non è stato ancora possibile portare via e ci dicono che non si può arrivare all´ospedale. Non vogliono dare i nomi, coprono dei tesserini che hanno al collo e dicono soltanto: «Peccato non lo abbiano preso vivo, avremmo dato un´immagine migliore della nuova Libia». Nell´uscire dalla città di macerie, la scritta in inglese su uno dei tanti cartelli celebratori che Gheddafi aveva sparso per tutto il Paese sembra amara ironia: «Lunga vita all´Africa forte e unita», come se si potesse parlare di vita, a Sirte.



Cristina Nadotti



Le fazioni ribelli litigano sul corpo di Gheddafi

MISURATA — E' all'insegna di lacerazioni profonde e gigantesche difficoltà che la rivoluzione libica inaugura la sua prossima fase: dalla guerra contro la dittatura alla ricostruzione democratica. Gli scogli maggiori si condensano in due parole: legittimazione del potere e monopolio della forza. «La ricostruzione del Paese è una missione impossibile alla Tom Cruise», ha dichiarato ieri al World Economic Forum, sulla costa giordana del Mar Morto, il premier ad interim Mahmoud Jibril citando il problema delle armi fuori controllo e la necessità del dialogo interno. Ma basta osservare gli sviluppi sul terreno per cogliere i sintomi delle tempeste a venire.
Indicativa la vicenda del corpo di Gheddafi. Le brigate di Misurata si comportano come se fosse loro proprietà privata (anche ieri è continuato il corteo dei curiosi con la mascherina e la macchina fotografica all'interno della cella frigorifera dove sono esibiti i cadaveri del Colonnello e del figlio Mutassim). «Siamo la città martire per eccellenza. Tocca a noi decidere che fare. E oltretutto perché si è scelta Bengasi come sede della dichiarazione di liberazione ufficiale?», dichiarano i responsabili misuratini. Sino a ieri mattina promettevano che l'autopsia non ci sarebbe mai stata. Il motivo è semplice: appare molto probabile che il dittatore sia stato linciato. Un breve video diffuso su YouTube sembra indicare che sia stato sodomizzato con un bastone prima di venire ucciso. Ma in serata è giunta la notizia che la parte tripolina del Consiglio Nazionale Transitorio avrebbe ceduto alle pressioni della comunità internazionale e ordinato l'autopsia (risultati resi noti nei prossimi giorni) e che il corpo sarà consegnato alla famiglia, mentre il settimanale Der Spiegel scrive che i servizi segreti tedeschi sapevano da mesi il luogo esatto del nascondiglio di Gheddafi.
Sulla carta i prossimi passi sarebbero già definiti. Oggi da Bengasi, città dove iniziarono le rivolte il 17 febbraio, si darà l'avvio al processo politico. Entro 60 giorni dovrebbe crearsi una commissione costituente destinata a preparare le leggi fondamentali dello Stato poi sottoposte a referendum. Nel frattempo dovrebbero dimettersi i responsabili del Consiglio Nazionale Transitorio creato a Bengasi, tra cui Jibril e il presidente Abdel Jalil, sostituiti da un governo provvisorio che porti alle elezioni: «Primo voto democratico entro il prossimo giugno», ha detto Jibril.
Questo in teoria. In pratica pesano i 42 anni di dittatura che hanno devastato i centri del potere e cancellato le prime espressioni di democrazia nate nell'ultimo periodo della monarchia. Si spiega anche così il frazionamento del Paese: Cirenaica contro Tripolitania, radici arabe contro identità africana, tradizioni tribali contro élite urbane, laici e religiosi, zona costiera e deserto. In mancanza di collanti nazionali sono in crescita i sentimenti localistici, che si esprimono nelle frizioni tra brigate rivoluzionarie di Misurata, Tripoli, Bengasi e quelle berbere sui monti di Nafusa. Non aiutano le notizie riguardanti Saif al Islam, il figlio più politico di Gheddafi, che sembra essere sfuggito ai combattimenti degli ultimi giorni. Ieri le tribù più fedeli ai Gheddafi nella zona di Sirte, oltre ai Warfallah e Magarbah della regione di Bani Walid, l'hanno nominato successore del Colonnello dichiarando che sarà suo compito continuare la «guerra di liberazione contro la Nato e i suoi alleati libici».



Lorenzo Cremonesi

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