sabato 22 ottobre 2011

LA MORTE DI GHEDDAFI - II (22/10/2011)


ISLAMISMO E PETROLIO

L´esecuzione di Gheddafi sarà forse l´inizio della fine della rivoluzione libica. Forse. Di certo è una tappa importante della controrivoluzione geopolitica pilotata dalle petromonarchie del Golfo e dagli islamisti. Ossia dagli esclusi della prima ondata insurrezionale che dal 17 dicembre 2010 ha scosso il Nordafrica, a partire dalla Tunisia e dall´Egitto. Sisma percepito con terrore dall´Arabia Saudita e dai suoi satelliti nel Golfo.
Regimi assolutisti che sposano il pubblico purismo islamico (di rado praticato in privato) al vincolo strategico con l´America, fondato sullo scambio fra energia araba e asset militari a stelle e strisce rivolti contro l´arcinemico comune: l´Iran.
Dopo il panico, la prima profilassi sotto specie di pioggia di dollari: quasi duecento miliardi elargiti pronta cassa dal re saudita ai suoi grati sudditi, varie decine dagli emiri del Golfo. Ma due eventi chiave marcano quasi contemporaneamente l´avvio della controrivoluzione: l´invasione saudita del Bahrein e la guerra per rovesciare Gheddafi, erratico nemico di Riyad e di quasi tutti i regimi arabi, oltre che degli islamisti.
Il 12 febbraio le truppe saudite entrano a bandiere spiegate nel Bahrein in rivolta, nel timore che cada in mani iraniane. Buon esempio di "aiuto fraterno" che in tempi e contesti diversi avrebbe suscitato almeno la riprovazione delle nostre democrazie. Nulla di ciò. Anzi, sospiri di sollievo a Washington come a Londra, a Pechino come a Berlino, a Tokyo come a Parigi. Insomma ovunque si teme che la primavera araba possa estendersi ai custodi del più strategico tesoro energetico - le monarchie arabe del Golfo - tralignando in inverno globale.
Proprio in quei giorni maturava in Cirenaica la rivolta contro Gheddafi. Dove l´insofferenza popolare per l´oppressione del duce libico affrettava il tentativo di colpo di Stato di alcuni ex fedelissimi del colonnello, supportati dall´intelligence e da forze speciali francesi e britanniche. Scarsa attenzione si dedicava alla contingenza che le prime armi fossero state distribuite ai ribelli da un commando islamista che aveva assaltato la caserma di Derna. Meno ancora al fatto che l´organo principe della disinformazione rivoluzionaria si confermava Al Jazeera, canale satellitare qatarino controllato dal più autocratico fra i petromonarchi, l´emiro al-Thani. Un dittatore che vuole esportare la democrazia, sia pure molto lontano da casa sua - meglio, per tenercela lontana: un paradigma da segnalare nei futuri manuali di politologia.
Quasi inosservata passerà poi la recente notizia delle dimissioni del direttore di Al Jazeera, smascherato da WikiLeaks come agente della Cia e prontamente sostituito da un cugino dell´emiro.
Inoltre, solo nella liberazione di Tripoli verrà pienamente in luce il ruolo decisivo delle brigate islamiste nella liquidazione del regime, ben più robuste delle raccogliticce milizie del Consiglio nazionale di transizione, referente dei franco-inglesi e della Nato nella guerra contro Gheddafi. Le brigate islamiste erano e restano guidate da un jihadista doc come Abdel Hakim Belhaj. A ispirarle è lo sceicco Ali al-Salabi, esponente dei Fratelli musulmani, il quale ha chiesto e probabilmente otterrà le dimissioni del "primo ministro" del Cnt, Mahmud Jibril, e degli altri "secolaristi". Di qui le persistenti rivalità fra i rivoluzionari libici, che si contendono armi in pugno quote di potere e di territorio.
In attesa di stabilire chi sortirà vincitore dalla partita fra gli eversori del gheddafismo - temiamo ci vorrà del tempo e del sangue - questi e molti altri elementi inducono a stabilire che la rivoluzione libica segni insieme la fine di un´odiosa tirannia e un passaggio rilevante nella controrivoluzione guidata dalle petromonarchie del Golfo. Una reazione ambiguamente assecondata dagli Stati Uniti, da altre potenze occidentali e non solo, accomunate ai sauditi nell´interesse a scongiurare la destabilizzazione della Penisola arabica. Evento in sé catastrofico, che nella crisi economica attuale assumerebbe riflessi apocalittici.
La sincronia fra invasione saudita del Bahrein e rivolta in Libia non è dunque meramente temporale, ma geopolitica. Si consideri solo che da questo doppio evento sono scaturite, fra le altre, queste conseguenze: a) il rapido declino delle istanze laiche e progressiste nelle piazze arabe e nordafricane, in parallelo all´emergere di vari gruppi islamisti, dagli scaltri Fratelli Musulmani agli estremisti salafiti, spesso d´intesa con gli autocrati sunniti del Golfo, Qatar in testa; b) il parallelo riaffermarsi delle Forze armate come centro del potere egiziano, non scalfibile dalle formazioni politiche emergenti; c) la rinuncia, almeno finora, a qualsiasi intervento occidentale o arabo in Siria - dove al-Assad massacra a man salva gli oppositori - per timore che il prossimo regime si riveli più pericoloso dell´attuale; d) il riesplodere degli istinti antisraeliani e antisemiti al Cairo e altrove; e) la parossistica tensione fra Arabia Saudita e Iran, dopo il presunto tentativo iraniano di assassinare l´ambasciatore saudita a Washington. Il rischio di una guerra preventiva di Gerusalemme contro Teheran ne risulta accentuato.
È presto per trarre un bilancio delle manovre in corso lungo la nostra periferia meridionale. Non è tardi per provare a interpretarle a partire non dai nostri desideri o dalle nostre edificanti semplificazioni, ma dalle ragioni e dagli interessi dei protagonisti, per quanto esoterici o esecrandi possano apparirci. Anche per evitare di caderne vittime.



Lucio Caracciolo



I carnefici con il telefonino

La guerra non è che la caccia all´uomo. E anche il più abominevole tiranno esce da sé quando è ridotto a un animale braccato e denudato, e costringe chi guarda da lontano alla vergogna e alla pietà.
Le scene finali di Sirte sono immagini di caccia antica, la preda sbigottita e insanguinata, il branco sfrenato e invasato. Non l´hanno divorato, Muammar Gheddafi: è la sola differenza. Gli umani non cacciano per nutrirsi.
Quando finalmente Ettore si vergogna di fuggire e affronta Achille, deciso a uccidere o morire, lo invita al rispetto reciproco del vinto. Gheddafi non è certo Ettore, al contrario, un torturatore della propria gente, né la brigata di Misurata somiglia ad Achille (se non, forse, per quella olimpica protezione della Nato). Se ne fa beffa il furioso Achille, "ti divorerei brano a brano", dice, e lo finisce, e gli altri Achei accorrono e non ce n´è uno che non affondi il proprio colpo nel cadavere, e il vincitore gli fora i piedi e lo lega al carro e lo trascina di corsa facendone scempio.
Gli dei e gli eroi se ne sono andati da tempo, coprendosi il viso, ma la scena è ancora quella. Gli umani sono ancora feroci e fanatici come nell´Iliade, come nella Bibbia. Sono antichi quanto e più di allora, ma hanno i telefonini. A distanza di minuti, avreste visto sul vostro schermo Ettore atterrato, e i vigliacchi trafiggerne e insultarne il cadavere, e Achille bucarne i calcagni e attaccarlo al suo pick-up. L´uomo è rimasto antiquato, o è pronto a ridiventarlo: e meraviglioso e tremendo è il corto circuito fra la sua antichità e i droni che gli volano sulla testa e colpiscono con esattezza e buttano in un tubo da topi il cacciatore mutato in preda e glielo mandano in mano, mani di prestidigitatori di kalashnikov e telefonini. Ci sono le foto di Misurata, il cadavere disteso, a torso nudo, lavato, e circondato da maschi in posa ciascuno dei quali brandisce il telefonino: e qualche ispirato artista contemporaneo, come lo Jan Fabre che ha messo alla Vergine della prima Pietà di Michelangelo la faccia di un teschio, avrà già pensato di rifare una Deposizione in cui Maria e le pie donne e Giovanni e Nicodemo tengano in mano un telefonino.
Nel linciaggio della Sirte la combinazione fra l´antiquato animale umano e l´ipermodernità ha preso la forma degli aerei del cielo e degli indigeni sulla terra, arcangeli disabitati gli uni e creature imbelvite gli altri, la Nato e i fanti, ignari i primi del linciaggio, che devono fingere di non volere, responsabili e anzi fieri ed ebbri i secondi: e contenti tutti, perché il processo di un tiranno così longevo e intimo è sempre una minaccia micidiale per i piani alti. Nessuna cospirazione: non ce n´è bisogno. Solo una divisione del lavoro. Chi mette in fuga dall´alto, chi stana dal basso, come in una buona battuta di caccia. Alla muta non occorre suggerire niente, è fatta di uomini giovani ed eccitati, hanno avuto padri torturati, sorelle violate, compagni ammazzati, sentono l´odore della vendetta e della gloria.
L´odore della foto di gruppo è più forte dell´odore del sangue per il branco dei lupi. Non fanno il conto, in quel momento esaltante, esultante, dell´effetto che la scena farà più lontano, nel tempo o nello spazio. Il nemico giurato che ha ancora la forza di tirare su il braccio sinistro e pulirsi il sangue dal viso e guardarsi attonito la mano insanguinata e mostrarla anche a loro, sbigottito, come a dire "Guardate che cosa avete fatto" - pare che abbia detto cose simili, "Chi siete?", e "Perché lo fate?", istupidito dal corpo che cede e dalla vecchia abitudine a non capacitarsi.
Non esistono cadaveri vilipesi e martoriati che possano essere esposti a lungo a vantaggio dei giustizieri. C´è sempre un Cristo, un Hussein, nella memoria. Gli americani l´avevano capito, con Osama, e quel precedente modera oggi le loro deplorazioni. La differenza, più sottile di una carta velina, fra la barbarie e la civiltà sta nel processo; più esattamente fra il processo popolare, la gogna, i prigionieri neri legati alle canne delle mitragliatrici e trasportati in giro come trofei, e il processo regolare. Il quale, con tutte le ipocrisie che volete, ha intanto bandito la pena di morte, eppure si occupa dei crimini più feroci contro l´umanità, mentre certi Stati la tengono ancora per crimini di particolari. Per i ribelli terra terra, e per i grandi delle democrazie, il processo è ancora un lusso da donnette, o il peggiore degli imbarazzi.
Riguardate questi video, e chiudete gli occhi, perché l´audio è forse più terribile. Poi riguardate, e immaginate di leggere l´avvertenza: "Le immagini che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità", prima di un canto dell´Iliade o di un passo della Bibbia. Deve tremare un mondo che tenga accanto così spaventosamente una tragedia arcaica - il tiranno e i suoi figli e la sua tribù e le fosse - con la sofisticazione di armi e comunicazioni e con la voglia di liberazione. Gheddafi era lui stesso al colmo di questa aberrazione, e l´ha passata di mano ai suoi sacrificatori, come l´orpello della pistola dorata. Naturalmente, bisogna andare avanti, provare ogni volta a ricucire gli strappi, capire. Ieri a Damasco si gridava già: "Ora tocca a te, Bashar".



Adriano Sofri


CON I RIBELLI DAVANTI AL CORPO "PICCHIATO E GIUSTIZIATO COSÌ ABBIAMO PRESO IL RAÌS"
Misurata. Miliziani twar appena rientrati da Sirte si affacciano a turno, frenetici, gridando: Dio è grande. I quattro incaricati di sorvegliare il corpo spingono, tirano, concedono pochi secondi a ribelli e giornalisti e poi li mandano via: «Tutti devono vedere, Allahu Akbar, Allahu Akbar».
È l´ultimo scherno per Muammar Gheddafi, firmato dai nemici più accaniti, i guerrieri di Misurata: l´esibizione in quello che viene chiamato "mercato dei Tunisini", come un animale macellato, come una bestia selvaggia e pericolosa, braccata e uccisa in una battuta di caccia senza regole. E i racconti della cattura e dell´esecuzione - perché questa sembra la parola più adatta - si intrecciano, smentendosi e confondendosi e lasciando zone d´ombra che forse nessuno vorrà mai chiarire.
Non basterà il racconto del corpo, l´autopsia che parla di decesso provocato da ferite alla testa e allo stomaco. Mahmoud Jibril, primo ministro ad interim, ha insistito per parlare con i medici. Ma già giovedì aveva diffuso la sua verità: il colpo che ha ucciso il dittatore è stato sparato dai suoi stessi fedelissimi, in uno scontro dopo la cattura. Che fosse vivo, spaesato e persino incredulo quando è finito in mano ai twar, lo dimostrano diversi video, a partire da quello in cui grottescamente si rivolge ai ribelli gridando: «Che fate? Chi siete? Che volete?». O la sequenza che mostra schiaffi e pugni, con la Guida della Rivoluzione totalmente in balia della rabbia twar, coperto di sangue, che urla: «Peccato su di voi». C´è il primo video diffuso, che lo vede insanguinato ma in piedi, spinto sul cofano di un fuoristrada, mentre una voce grida: «Tenetelo vivo, tenetelo vivo». Poi un urlo di rabbia, l´inquadratura si perde, si sente una scarica. «Lo hanno catturato vivo, pestato e poi giustiziato», dice una anonima fonte del Consiglio nazionale di transizione all´agenzia Reuters.
Sul corpo esposto al "mercato dei Tunisini", nella chioma scarmigliata che attirava il disprezzo dei libici si indovina un segno rosso: «Uno dei nostri, un ragazzo di sedici anni, gli ha strappato un ciuffo di capelli. Voleva controllare se erano veri. Ma no, erano finti, e anche colorati, ci hanno lasciato la traccia del nero nelle mani», racconta Adel Belghassim Rhouma, mostrando le dita ancora sporche di un colore bluastro. Poi mostra un video in cui si sente la chiamata per l´ambulanza, e giura: «L´ho visto mentre il medico lo curava, era vivo, non ho dubbi». E aggiunge un particolare inquietante: «Non so quando sia stato ucciso. Forse quando sono venuti a prenderlo, con l´elicottero. Era piccolo, blu, non so se sia dei rivoluzionari, o di chi altri».
Le ferite al tronco sembrano poco profonde, non è facile capire se il segno sanguinolento sotto l´ombelico sia davvero il buco di un proiettile, come dice il medico a cui il Cnt ha affidato l´autopsia. Le gambe sono coperte, non c´è traccia delle lesioni di cui si era parlato in un primo momento. Accanto al comando dei twar, fra manichini vestiti con la camicia di seta del dittatore e trofei militari, il giovane Mohamed Behlil racconta: «Ero accanto alla squadra che l´ha preso, ho visto i corpi delle sue guardie e del ministro della Difesa Abdelkader Yunis, proprio all´uscita di quel tubo. Gheddafi era ferito alle spalle e alle braccia, non aveva nulla alle gambe, camminava».
Fuori dagli Ospedali riuniti di specializzazione, Ali Mohamed, camionista prestato all´officina che prepara chiodi a quattro punte e arnesi di distruzione per i rivoluzionari, racconta di suo cugino, che ha un proiettile nel collo dopo lo scontro con il gruppo di gheddafiani nascosti nel canale. «Ora è in sala operatoria, è messo molto male. Anche un altro del gruppo è stato ferito gravemente. Ma prima del ricovero è riuscito a raccontarmi com´è andata: gli uomini del raìs hanno sparato su di loro, erano una quindicina, rifugiati in quei tubi».
Sullo scontro ha qualcosa da dire anche Muftà Tahardi: «Siamo arrivati sul convoglio subito dopo gli aerei Nato. I topi scappavano, ma noi li abbiamo rincorsi». E quelli che si sono arresi, che sorte hanno avuto? «Nessuno si è arreso, continuavano a sparare e noi abbiamo risposto». Quanto ai gheddafiani trovati cadaveri con colpi alla nuca: «Sparavano e scappavano, qualcuno sarà stato colpito mentre fuggiva. Questa è una guerra».
La ricostruzione è contraddittoria e frammentata: non è chiaro chi, quando e dove abbia sparato a Gheddafi, non è chiaro nemmeno se ci fosse l´ordine di ucciderlo, che il Cnt nega risolutamente. E l´idea che esista davvero un misterioso elicottero, comparso proprio durante gli ultimi minuti di vita del raìs, apre la porta su mille scenari, fatti di complotti e servizi segreti, a metà strada fra i romanzi di Ken Follett e la paranoia. I nuovi potenti sembrano deciso a tagliar corto: i dettagli verranno dopo, a uccidere il dittatore è stato un proiettile vagante.
Dall´altra parte della città, nel quartiere Mar Bath, la gente di Misurata si mette in fila cantando «Allahu Akbar» per affacciarsi sulla porta di un container grigio e verde, in un deposito di materiali edili diventato magazzino dei rivoluzionari. Dentro il frigorifero c´è il corpo di Mutassim Gheddafi, esposto alla vista popolare, in attesa della sepoltura. Neanche sulla sua morte si sa qualcosa di definitivo. La tradizione islamica prevede che i morti siano interrati il prima possibile, ma per la famiglia del dittatore il vertice del Cnt ha deciso: si farà un´eccezione. E uno dei motivi si capisce guardando il corpo del figlio di Gheddafi: sulla gamba sinistra manca come un cubetto di carne, la pelle giallastra rivela il prelievo di tessuti fatto subito dopo la morte di Mutassim, necessario all´esame del Dna. È l´unica certezza che gli uomini del Cnt pretendono: vogliono essere sicuri che sia davvero finita.



Giampaolo Cadalanu



La Nato annuncia: «Missione conclusa alla fine di ottobre»

BRUXELLES — Da vivo, qualcuno lo condannava alla forca e qualcun altro gli baciava la mano. Ma anche da morto, Muammar Gheddafi riesce a dividere i suoi avversari. Ci sono volute 5 e più ore di riunione, ieri, per consentire ai Paesi della Nato una decisione su quando, e come, proclamare la conclusione della missione militare in Libia. Alla fine, è giunto l'annuncio del segretario generale dell'Alleanza Anders Fogh Rasmussen: tutte le operazioni cesseranno il 31 ottobre, «sarà una svolta netta e completa, nessun mezzo della Nato resterà nell'area», e fino a quel momento «si manterranno le capacità militari per proteggere la popolazione civile e assicurare il controllo» della regione. Rasmussen ha spiegato anche che nei prossimi giorni si concorderanno i tempi e le misure di quanto deciso (sono «passi preliminari», ha detto, dunque ancora da formalizzare) sia con l'Onu che con il governo libico; e ha aggiunto che spetterà a quest'ultimo stabilire se aprire o no un'inchiesta sulla morte di Gheddafi. «Sono molto fiero» di come è andata l'operazione Unified Protector, ha detto il segretario generale dell'Alleanza, smentendo le voci di forti disaccordi al suo interno.
E tuttavia i disaccordi ci sono stati davvero, e ci sono ancora: per esempio, anche sull'opportunità o meno per la Nato di contribuire alla ricostituzione e all'addestramento delle forze armate libiche.
Due, almeno fino a poche ore fa, i fronti contrapposti: da una parte Francia, Italia, e altri, per i quali si poteva senz'altro tornare a casa; dall'altra la Gran Bretagna, e altri, per i quali vi erano esigenze di sicurezza che avrebbero consigliato invece un ritiro in qualche settimana. Nicolas Sarkozy, il presidente francese, dichiarava ieri che «la missione sta chiaramente arrivando alla fine». Controcanto: per William Hague, ministro degli esteri britannico, la morte di Gheddafi «avvicina molto» la fine delle operazioni, e però «noi vorremmo essere sicuri che non ci siano ancora sacche di forze filo-gheddafiane ancora in grado di minacciare la popolazione civile». Eco concorde dal collega alla difesa, Philip Hammond: «Una volta che avremo accertato questo, e che la popolazione sarà pronta, l'Alleanza si organizzerà per ritirare la missione».
La principale delle esigenze di sicurezza accampate da Londra sarebbero i circa 22 mila «missili portatili» con annesso mini-sistema di puntamento, che Gheddafi ha accumulato per anni nei suoi deserti, e che domani potrebbero far gola a molti terroristi. Che la missione non potesse prolungarsi per molto, era comunque parere comune di tutti i suoi capi militari. Il comandante supremo per l'Europa dell'Alleanza, ammiraglio James Stavridis, ieri lo aveva scritto senza giri di parole sul suo blog personale, su Internet, poco prima che iniziasse la riunione del Consiglio nord-atlantico: «Sono state 24 ore straordinarie per la Libia. Come comandante in capo, fra poche ore io chiederò al Consiglio la conclusione di questa missione. Un buon giorno per la Nato…».
Ma lo stesso ammiraglio aveva potuto misurare subito quanto fosse spinoso il tema, da alcuni messaggi giunti al suo blog: «Hai le mani piene di sangue, sei un Hitler della nuova era» (firma: Radim Kadkecik), o «un gran giorno per l'Occidente, che succhierà tutte le risorse della Libia e la distruggerà» (firma: Marsel Kalemi).



Luigi Offeddu



Sul raìs ha vinto la dottrina Obama e già si aspetta il prossimo a cadere

NEW york - «Dopo quasi nove anni la guerra in Iraq è finita». A 24 ore dalla morte di Gheddafi, Barack Obama annuncia il «ritiro totale entro la fine dell´anno» dall´altra guerra, quella di George Bush. Mentre tutti s´interrogano su "chi sarà il prossimo" - e già iniziano le pressioni perché sia la Siria, o l´Iran, il nuovo bersaglio nell´effetto domino - è già tempo di bilanci per la "dottrina Obama sul Medio Oriente". Controversa, criticatissima, perfino sbeffeggiata, soprattutto dalla destra americana. Proprio sulla Libia i suoi avversari avevano fatto una caricatura di questa strategia della "guerra minima", dipingendo un presidente "che guida dalle retrovie" lasciando a Francia e Inghilterra un ruolo di punta nelle operazioni militari. È vero che sembrava esserci un tono rinunciatario, in quella presa d´atto che l´America non può più essere il gendarme del mondo, che gli interventi militari vanno commisurati a un´economia in declino, che le sue responsabilità all´estero devono esercitarsi in modo condiviso. Ora però il bilancio della dottrina Obama appare di tutto rispetto, e il ritiro dall´Iraq ne arricchisce l´ultimo dividendo. Non gliene darà atto la destra - siamo ormai in campagna elettorale, il fair-play è escluso - ma sui mass media indipendenti il verdetto è unanime e positivo. Anche se è già cominciato l´esercizio successivo: prevedere quale sarà il prossimo test, il teatro di crisi del mondo arabo che presenterà le sfide più urgenti.
La dottrina Obama di cui oggi si trae un bilancio non è solo quella della "guerra minima" applicata alla Libia, anche se questa si presta a confronti esemplari: quanto tempo ci volle a Bush per far fuori Saddam Hussein, con quale dispendio di risorse umane ed economiche, in confronto alla liquidazione del raìs di Tripoli? L´annuncio del ritiro dall´Iraq serve a sottolineare questa sproporzione: eliminare il carnefice di innocenti passeggeri americani sul volo Pan Am sopra Lockerbie è costato circa l´uno per mille rispetto al budget del conflitto iracheno. Ma la dottrina Obama è molto di più. Viene inaugurata dal discorso all´università del Cairo (4 giugno 2009) che segna l´apertura di un dialogo a tutto campo, anche sui valori, e una svolta rispetto ai toni da crociata di Bush. Non a caso per la destra il discorso del 2009 è un simbolo di "cedimento, arrendevolezza". A posteriori, invece, proprio in quelle parole alcuni hanno visto i germi degli eventi di Tunisi e del Cairo: perché le opinioni pubbliche del Nordafrica hanno intuito che l´America non avrebbe puntellato per sempre le dittature alleate.
Quello è il tassello successivo della dottrina Obama: la rapidità con cui la Casa Bianca abbandona al loro destino i despoti contestati dai popoli. Una scelta ben diversa rispetto all´ostinazione con cui un altro presidente democratico pur sensibile ai diritti umani, Jimmy Carter, aveva puntellato il regime dello Scià di Persia (poi pagando un prezzo altissimo per quell´errore). Ma anche questo aspetto della dottrina Obama è tutt´altro che pacifico: da Netanyahu ai falchi repubblicani, molti continuano a rimproverargli di avere mollato Mubarak consegnando l´Egitto a un destino incerto e forse anti-israeliano. Perciò ora il presidente viene strattonato in più direzioni. La sinistra considera che il prossimo obiettivo deve essere Damasco perché in Siria vede una tragedia umanitaria simile a quella libica. Per la destra repubblicana e il governo Netanyahu invece il nemico più serio da affrontare è l´Iran. Obama però sa che non verrà giudicato solo sugli eventi futuri in Siria, Iran, Yemen, ma anche sugli sviluppi in quei paesi dove ha raccolto successi molto provvisori. Per Tunisia ed Egitto il presidente aveva proposto un piano Marhsall, al G8 di Deauville: per incanalare la transizione democratica, offrendo concrete prospettive di sviluppo economico. Quel cantiere è rimasto fermo, i rischi di instabilità e l´avvento di forze islamiche ostili all´Occidente sono ancora degli esiti possibili in ognuno di quei paesi.



Federico Rampini



La barbarie e il silenzio d'Occidente

È probabile che se gli smartphone fossero stati inventati al tempo della Rivoluzione francese, del nazismo e del fascismo, del Cile di Pinochet o del conflitto in Bosnia, le esecuzioni cui assistiamo in diretta ci sembrerebbero quasi banali o quantomeno ripetitive di una logica di guerra e cambio di regime. Non è giusto ed è orribile, ma è forse inevitabile che i sudditi facciano cadere le teste e che i ribelli si vendichino dei propri aguzzini, facendo piazza pulita a tutti i livelli: dal vicino di pianerottolo che faceva la spia ai pretoriani del regime, dai gerarchi ai figli e parenti del capo.
In queste ore, i ribelli ritraggono le proprie esecuzioni e l'odio diventa un souvenir. La differenza è forse solo tecnica, poiché il boia o il miliziano impugnano con una mano la pistola e con l'altra il telefonino, offrendo al mondo un lugubre verbale high tech, che ha almeno il vantaggio di rendere superflue lunghe indagini internazionali sulle responsabilità di chi ha ucciso e di chi ha dato l'ordine. In questo quadro, i nuovi padroni della Libia sembrano aver deciso di evitare processi interni o internazionali, che rispettano le forme della legge, anche quando la sentenza (come nel caso di Saddam Hussein) è scontata. Preferiscono la giustizia sommaria e l'azione risoluta sul campo di battaglia, un po' come il commando dei marines che ha eliminato Bin Laden: un colpo alla testa e sepoltura in alto mare o in luogo sconosciuto, nella presunzione che la partita sia chiusa per sempre. Difficile immaginare un cittadino americano che abbia avuto un sussulto di pietà dopo le immagini dell'assalto.
È emblematica la quasi totale assenza di reazioni sdegnate in Europa e in Occidente per la sorte di Gheddafi e dei suoi figli, come se si volesse evitare che la loro fine venga associata all'ultimo attacco dal cielo che ha agevolato la cattura e di fatto messo fine alla guerra. Missione compiuta dunque, nella convinzione che un giorno di barbarie valga la fine di un regime odioso e il futuro di libertà e democrazia per cui si è combattuto. Ma questo è appunto il drammatico dilemma dei vincitori — di tutti i vincitori — quando non ci sono né pietà per gli sconfitti, né giusta punizione, ma soltanto vendette che chiamano altro sangue e alimentano il rancore. Nessun popolo costruisce un futuro di pace e prosperità senza riconciliarsi con se stesso e con la propria storia.



Massimo Nava



In coda per il corpo di Gheddafi nella cella frigorifera del mercato

MISURATA — Il corpo del nemico ucciso mostra chiaramente segni di violenza: prima picchiato, trascinato, linciato, quindi mostrato alla folla a riprova definitiva che davvero non può più nuocere. Un antico rito barbarico si è consumato contro i resti mortali di Muammar Gheddafi. Non è strano che ora le Nazioni Unite intendano avviare un'inchiesta. «Ci sono due video — ha detto il portavoce dell'Alto Commissario ai diritti umani —. Uno che lo mostra vivo e uno che lo mostra morto. E ci sono quattro o cinque versioni diverse su cosa è accaduto fra quei due video».
Ma c'è un problema aggiuntivo per i dirigenti della rivoluzione in Libia: non riescono a mettersi d'accordo tra loro sulle modalità della sepoltura. Difficoltà che mettono l'accento sulle potenziali lacerazioni politiche del futuro. Se non sono in grado di trovare l'unanimità in questo momento di gioia per la vittoria e la fine del dittatore, cosa faranno quando dovranno decidere le sorti del Paese?
Il risultato immediato è che il cadavere di Gheddafi resta insepolto, sporco di sangue, impolverato, adagiato su di un materasso da quattro soldi in una cella frigorifera del «Mercato africano», un complesso di palazzine e baracche dove prima si vendeva la carne alla periferia di Misurata. Lo abbiamo visto senza difficoltà ieri nel primo pomeriggio. «Giornalisti? Benvenuti! Venite a vedere i resti del criminale. Dite al mondo che abbiamo vinto», esclamano felici i guerriglieri di guardia ai cancelli. Per una volta, anche i più religiosi dalla barba folta arrivati direttamente dalle brigate della Cirenaica legate al fronte del fondamentalismo non si scompongono se si ricorda loro che per la legge coranica un morto va seppellito entro le prime 24 ore dal decesso. «Per Gheddafi e i suoi figli siamo pronti a fare un'eccezione. Meglio che attendano. Occorre che prima la gente li veda morti. Ci hanno fatto troppo male per decenni. E' giusto che la Libia si goda questa vittoria», spiegano. Salvo poi aggiungere che loro non sono «come gli americani». «Gheddafi non sarà però trattato come Osama Bin Laden. E' un musulmano e come tale verrà rispettato. Non lo faremo sparire anonimo in mare. Alla fine sarà sepolto come vuole il Corano, magari in una località segreta vicino alla sua città natale a Sirte», dice tra i tanti Ramadan Zarmoha, 63 anni, uno dei notabili più in vista di Misurata.
Davanti ai cancelli stanno in coda centinaia di persone. Per lo più ragazzi giovani e giovanissimi. «Vengo a vedere Muammar», dice un bambino di 8 anni arrivato con i fratelli più grandi. Ci sono numerosi guerriglieri appena arrivati dagli scacchieri di battaglia a Bani Walid e Sirte. Tanti hanno perso amici e parenti negli scontri degli ultimi mesi. I più rabbiosi sono i feriti. Abbiamo visto alcuni con le stampelle, senza gambe, farsi accompagnare a pochi centimetri dal volto di Gheddafi. E restare a rimirarlo a lungo, silenziosi, quasi increduli che l'uomo alla guida della Libia per 42 anni (molti non hanno conosciuto altro che la dittatura di Gheddafi) sia davvero quel fagotto insanguinato. «Sembra improvvisamente rimpicciolito. Quasi un piccolo pupazzo. Mi sembrava molto più alto da vivo», dice un giovane in carrozzella. E' un commento molto diffuso. Il corpo del dittatore ucciso appare ridotto, rinsecchito. A guardalo nei dettagli ha le unghie curate, la barba rasata attorno al pizzo sul mento. Sino alle ultime ore prima della fine Gheddafi ha cercato di tenersi in ordine. Ce lo mostrano a torso nudo: coperto di tagli e ferite, sembra avere un paio di colpi d'arma da fuoco in entrata all'addome. Soprattutto ha diversi segni di tumefazione e gonfiori. Un paio di laceri pantaloni militari pendono dalla vita e si fermano alle caviglie.
Tutto diverso dal cadavere del figlio Mutassim. Lo abbiamo visto in mattinata nel container frigorifero di «campo Abad», una zona industriale posta circa a 5 chilometri di distanza dal «Mercato Africano». Nei due container vicini stanno accatastate carcasse di pecore e montoni. «Abbiamo separato Mutassim dal padre per evitare che ci fosse troppa confusione tra i visitatori», spiega il proprietario del complesso, Najmi Omar. Il corpo di Mutassim sembra comunque meno danneggiato. Alla gola mostra il foro di entrata di un proiettile sparato a bruciapelo. Un'esecuzione vera e propria. E il lobo destro del cervello è stato chiaramente sfondato, la mandibola dislocata, diversi denti rotti. Almeno altri due proiettili lo hanno colpito nella zona dello stomaco. Ma per entrambi, padre e figlio, non ci sono referti medici. «Probabilmente effettueremo le autopsie nelle prossime ore», ha detto ai giornalisti Othman al-Zintani, medico all'obitorio dell'ospedale locale.
Ma che fare di loro? Da Tripoli il premier ad interim Mahmoud Jibril va ripetendo che la «questione non era mai stata affrontata prima» e troveranno «una risposta nelle prossime ore». Il ministro del petrolio, il laicissimo ex docente di economia negli Stati Uniti Ali Tarhouni, dichiara invece alla stampa che «importa poco se Gheddafi se ne resterà ancora in frigorifero per qualche giorno, l'importante è che tutti lo possano vedere». A Misurata i responsabili militari spiegano invece che stanno trattando con alcuni influenti capi della tribù Qadafi a Sirte per consegnare i cadaveri. «La nostra paura è che troppa pubblicità al luogo di sepoltura possa spingere qualche vittima del regime a fare scempio dei corpi per vendetta», dicono. Non manca ovviamente il timore opposto, e cioè che qualche fedelissimo del Colonnello cerchi di trasformare la tomba in mausoleo della contro-rivoluzione. Oggi i massimi dirigenti del nuovo corso si riuniranno a Bengasi per annunciare ufficialmente la «liberazione nazionale» e l'avvio del processo democratico. Non è detto che in questa sede non vengano anche definite le modalità delle sepolture.



Lorenzo Cremonesi



Catturato o in fuga? È giallo sulla sorte dell'erede Saif al Islam

TUNISI — All'hotel Hana sulla centrale Avenue Bourguiba di Tunisi, da mesi residenza di decine di esuli libici tra cui molti feriti nella lunga battaglia contro Gheddafi, sono tutti incollati a Al Jazeera. «Morto il padre adesso vogliamo sapere che fine fa il figlio, l'erede, il tanto "moderato" Saif al Islam», dice Abdelaziz di Misurata, appoggiato a stampelle e una gamba fasciata ma con un grande sorriso. «Tante voci e nessuna certezza, speriamo che anche questa storia finisca presto». Finisca, ovvero che il secondogenito-delfino, studi a Londra ed ex volto buono del regime libico, raggiunga il Colonnello. O che sia catturato, su cosa sia meglio qui si discute. La sensazione è che se molti avrebbero voluto Gheddafi e figli su un banco degli imputati, l'importante è che siano stati presi, il loro «regno» finito per sempre. In serata le foto terribili diffuse da un sito inglese di un altro Gheddafi jr, Mutassim, faranno sensazione ma più in Occidente che tra i cittadini dell'ex Jamahiriya: la sua morte già documentata giovedì, insieme a quella del padre, non è stata in battaglia, come sembrava. Un video mostra il 36enne che spendeva milioni per festini con pop star mondiali, consigliere per la sicurezza nazionale con un ruolo chiave (pare) nella repressione. Già prigioniero, barba e capelli lunghi, è in canottiera e sporco di sangue. Ma è vivo: beve acqua e fuma una sigaretta. Poi, sullo stesso divano, le immagini del suo cadavere con una ferita mortale alla gola e una all'addome, che prima non c'erano. Ucciso a sangue freddo, quindi. Come il padre.
E un'analogia, seppur diversa, collega il defunto dittatore a Saif, il figlio più noto, più contradditorio: come per il Colonnello, fino all'ultimo, le sue sorti restano oggetto di continue voci, supposizioni, certezze annunciate da chi, è il sospetto, vuole mettersi in luce perfino nel governo di transizione, per poi essere smentite due ore dopo. «È scappato in Niger con i fidi Tuareg». «No, è catturato e ferito alla schiena». «Ha perso un braccio». «L'hanno preso a Zlitan, è stato colpito, è ricoverato per cure mediche». Nessuna conferma, né prova: ma la tv libica ha annunciato che «i rivoluzionari del 17 febbraio circondano l'ospedale per impedirne la fuga, se la notizia fosse vera».
L'ultima segnalazione risale a mercoledì sera: avvistato a Sirte con il padre e Mutassim, poche ore prima che questi ultimi fossero uccisi. La scorsa settimana era stato individuato a Bani Walid, già circondata su tre lati ma ancora libera nella via che portava al Sud. Testimoni locali hanno dichiarato di averlo visto in partenza per quella strada, che dalle montagne va in Niger. Ma che raggiunge presto anche la via Sebha-Sirte. Forse l'annuncio di ieri di Saif a Niamey, con altri membri della famiglia, nasceva da quell'indicazione. Ma se i testimoni di Sirte sono affidabili, Saif aveva invece raggiunto il padre, le voci di una sua cattura a Zlitan potrebbero essere vere.
Nel caos degli annunci, che mettono in crisi i media del mondo tra voglia di scoop e saggia cautela, tutti aspettano ora conferme: non parole ma video, foto magari riprese da telefonini. Terribili ma definitivi per segnare il compimento di un altro capitolo della tragedia, la fine della Jamahiriya e dei suoi padroni.



Cecilia Zecchinelli

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