martedì 4 ottobre 2011

MEDIO ORIENTE 4 Ottobre


Moschea bruciata, choc in Israele

GERUSALEMME — «Vendetta», hanno scritto sui muri anneriti dal fumo e poi una parola sola: «Palmer». Vendetta per la morte di Asher Palmer, il colono colpito dieci giorni fa da un sasso mentre guidava, morto assieme al figlio d'un anno e mezzo. I coloni sono arrivati che era ancora buio a Tuba-Zangariya, Galilea del Nord. Hanno fatto veloce: il Corano bruciato, i tappeti inceneriti, le scritte spray. Non è la prima volta che vandalizzano una moschea dei palestinesi: solo quest'anno, vi si sono dedicati altre quattro volte. È la prima volta, da parecchio tempo, che ne incendiano una dentro Israele, dove vanno a pregare gli arabi israeliani. Sapendo di restare impuniti, come accade nella maggior parte dei casi. Sapendo che la caccia ai coloni violenti non è una priorità per il governo Netanyahu, nonostante il premier ora si definisca «furioso» e «scioccato» dalle immagini del rogo: «Sono indegne d'Israele, un atto contrario ai valori del nostro Stato che attribuisce un'importanza suprema alla libertà di religione e di culto».

Non è più tempo di saldi. Il prezzo di queste azioni, dieci giorni dopo il discorso di Abu Mazen all'Onu, stavolta rischia d'essere alto. E così alla condanna di Bibi s'aggiungono quelle di ministri e rabbini, con Shimon Peres che annuncia una visita alla moschea incendiata e la polizia che in tempi record fa alcuni arresti. «Oggi ci riuniremo per il da farsi — minaccia l'imam Uthman Al Hayeb —. È un fatto sconvolgente, questa è la casa di Dio: chi ce l'ha tolta, non resterà impunito». Le sassaiole, i copertoni bruciati, i lacrimogeni sono solo un assaggio: «Sono venuti dalla colonia di Rosh Pinna — dice un arabo —. Ce l'aspettavamo. E da settimane, a Safed c'è un rabbino che predica la violenza contro di noi».

L'escalation è già nei fatti: negli ultimi sette mesi, dalla terribile strage d'una famiglia israeliana a Itamar, bambini sgozzati nella notte, gli attacchi dei coloni sono aumentati del 57%. Uliveti devastati, case di pacifisti assaltate. Lo scorso mese, ha fatto discutere il blog d'un riservista che ha raccontato come i Territori siano ormai diventati un Far West senza leggi: «Per noi — ha scritto il soldato — più che i palestinesi, i veri nemici sono i coloni. Sabotano le nostre jeep, ma nessuno li punisce». Su questo mezzo milione d'israeliani, che occupano illegalmente più di cento aree palestinesi, Netanyahu sta giocando la sua partita. Domenica, quando ha accettato la proposta di negoziati diretti e senza precondizioni, dai palestinesi s'è di nuovo sentito rispondere che il suo governo deve fare qualcosa nelle colonie. «Israele è sempre più isolato», è venuto a dire anche Leon Panetta, capo del Pentagono: «Sono tempi drammatici per il Medio Oriente e bisogna capire se a Israele basta una superiorità militare, mentre s'isola nell'arena diplomatica. Dico alle due parti che non ci perdono nulla a riprendere il dialogo. Non c'è alternativa ai negoziati». A meno che si voglia giocare agli incendiari.



Francesco Battistini



La vendetta di Damasco sulle famiglie degli esuli

Il governo siriano reprime le proteste in patria ma non tollera neanche quelle che avvengono fuori dai suoi confini in Paesi dove la libertà d'espressione è sacra. SecondoAmnesty International funzionari delle ambasciate e altre persone legate al regime di Damasco «stanno portando avanti una campagna sistematica di sorveglianza e intimidazione nei confronti dei cittadini siriani residenti all'estero» che manifestano tutto il loro sdegno per quanto sta avvenendo in Siria. La denuncia è apparsa in un rapporto intitolato «La lunga mano dei Mukhabaraat» (il servizio segreto siriano ndr) in cui vengono elencati i casi di oltre 30 attivisti siriani residenti in otto Paesi (Canada, Cile, Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti e Svezia) che hanno riferito di essere stati minacciati e di aver appreso che i loro parenti in Siria sono stati, in alcuni casi, intimiditi, arrestati e persino torturati. Chi protesta pacificamente di fronte alle ambasciate di alcuni Paesi viene filmato, identificato e poi invitato a non manifestare più anche dallo stesso personale diplomatico. Amnesty International invita i Paesi in cui risiedono gli esuli a proteggere il loro diritto alla libertà di associazione e di espressione: «Non basta aspettare che ci siano denunce formali — ha dichiarato alCorriere Neil Sammonds, ricercatore dell'associazione sulla Siria — uno Stato democratico dovrebbe intervenire in modo netto anche espellendo chi è protetto dall'immunità diplomatica».

Finora soltanto il governo americano e quello britannico hanno sollevato la questione con le autorità siriane. Il dipartimento di Stato ha manifestato più volte all'ambasciatore siriano a Washington «la sua preoccupazione per le notizie sul comportamento di una parte del personale diplomatico». 




L'opposizione siriana prende le armi, rischio guerra civile

WASHINGTON — Il regime siriano, sin dall'inizio, non ha mostrato pietà. Le forze di sicurezza, appoggiate dalla milizia «Shabiyha», hanno ucciso oltre 2700 persone. Repressione selvaggia accompagnata da operazioni contro i dissidenti fuggiti all'estero. Molti di loro sono svaniti nel nulla con la complicità degli «amici» di Damasco, gli iraniani e le Hezbollah libanese.
Davanti al terribile colpo di maglio, l'opposizione ha cercato di creare uno scudo ma è anche passata al contrattacco. In diverse località gli avversari del regime hanno impugnato le armi e hanno organizzato sabotaggi, dai treni ai bus. Come segnalano fonti di intelligence americane sono diverse le realtà «armate»: civili che proteggono i quartieri dalle incursioni delle truppe lealiste; reparti dell'esercito passati con la ribellione; formazioni islamiste, come l'Hizb Al Tharir e nuclei non troppo lontani da Al Qaeda. La volontà c'è, alle armi pensano i contrabbandieri.

Una volta pronti i gruppi sono passati all'offensiva. Con agguati ai convogli militari o omicidi mirati. Dozzine di professori, personalità locali e quadri sono stati uccisi a Homs, Aleppo e nella stessa capitale. Tra loro almeno quattro scienziati piuttosto famosi. Poi è toccato al figlio del gran muftì Hamad Hassoun, guida religiosa che non si è vergognata di appoggiare la repressione. Alcuni delitti sono chiaramente una ritorsione dell'opposizione, altri invece sembrano essere delle vendette trasversali della polizia segreta. Il susseguirsi degli attentati sono seguite con inquietudine a Washington: gli osservatori non escludono che la crisi possa trasformarsi in un conflitto civile.

Un episodio è indicativo della situazione. Il colonnello Harmoush, ufficiale dell'esercito, è fuggito in settembre in Turchia, poi ha denunciato il potere con un video su Youtube. Una settimana dopo è riapparso alla tv statale ritrattando tutto. Come è stato possibile? Gli esuli sostengono che sia stato venduto dagli 007 turchi a quelli siriani in cambio di alcuni guerriglieri curdi del Pkk. Un favore che tuttavia cela altre manovre. Ankara sospetta che Damasco abbia ripreso ad aiutare i secessionisti del Kurdistan. La Turchia non è comunque neutrale. In questi mesi ha alzato la voce contro i massacri. L'ultima misura ieri con il congelamento di 500 milioni di dollari depositati dal clan Assad in banche turche. Poi, pochi giorni fa, ha ospitato un evento importante. Oppositori siriani in esilio hanno creato il Consiglio Nazionale, che raccoglie tutte le anime della resistenza, compresi i Fratelli musulmani. In una dichiarazione letta dal professor Bourhan Ghalioun, esule in Francia, gli avversari del regime dicono no a «un intervento straniero» in Siria ma invitano la comunità internazionale ad agire per «garantire protezione ai civili». Con questo passo simbolico, gli oppositori sembrano indicare un'alternativa alla tirannia. Prima, però, bisogna sconfiggerla. Assad avrà pure «i giorni contati», come ipotizza il segretario alla Difesa americano Panetta, ma la sua ferocia dimostra che non se andrà soltanto perché glielo chiedono.



Guido Olimpio



Tripoli, missione flop per Frattini

TRIPOLI - Sarà pure per "discrezione", come rivendica risentito il nostro ministro degli Esteri, Franco Frattini che L´Italia si è affacciata nella Libia del dopo Gheddafi solo ieri, buon ultima cioè dopo Francia, Gran Bretagna e Turchia, ma certo è che ce ne torniamo a casa con poche certezze. L´amicizia e il legame storico non si discutono, i contratti invece sì. A cominciare da quelli che ci stanno più a cuore: le percentuali di export di gas e petrolio verso il nostro paese. Mahmud Jibril, il premier del Cnt non si sente infatti di confermarli. «Sarà - precisa - il nuovo governo - in altissimo mare per via dei violenti contrasti tra falchi e colombe della rivoluzione, ndr - a stabilire il come, il quando e con chi operare nell´interesse strategico ed economico della Libia».
Fa bene Jibril a non assumersi impegni, visto che si è già chiamato fuori dall´esecutivo che verrà, ma resta il fatto che nemmeno dice che a suo giudizio non dovrebbero esserci problemi a riconfermare il passato. E allora? Strada in salita, dunque, che nemmeno la tardiva visita a Tripoli del capo della Farnesina sembra abbia reso più agevole. Quanto al resto, copione scontato. «L´Italia continuerà ad essere per i libici un partner affidabile», ribadisce Frattini che detta le priorità del nostro impegno: feriti e scuole. «Entro la prossima settimana - spiega il ministro - trasporteremo 190 feriti da Tripoli, Bengasi e Misurata in ospedali italiani. E possiamo arrivare a 250». Sia detto per inciso che questa operazione sarà finanziariamente a carico dei libici, detratta, una volta che saranno scongelati, dagli ingenti fondi giacenti sulle nostre banche. Sul fronte scuola nel giro di una ventina di giorni saranno realizzate 13 strutture prefabbricate. Una commissione italo-libica sarà incaricata di ridiscutere i rapporti bilaterali in materia economica e l´Alitalia riprenderà i voli commerciali dal 2 novembre. Tutto qui.
Quando finalmente si passa alle domande, Mimmo Candito della Stampa chiede a Frattini, che aveva sottolineato il sollecito sostegno dell´Italia a favore della rivoluzione, che forse non era il caso di parlarne visto che Berlusconi, mentre in Libia si sparava e moriva, non aveva voluto telefonare a Gheddafi «per non disturbarlo». Domanda più che legittima ma che fa infuriare il ministro che dà del disinformato al collega tagliando poi corto sullo «stile dell´Italia» e sul suo personale «improntato alla discrezione che piaccia o no ad altri». Fortuna che interviene Jibril che riconosce al nostro paese «di aver compiuto» dopo quella frase infelice «un salto di qualità» nel riconoscere prontamente il Cnt. Sembrerebbe finita. L´aereo che deve riportare ministro e seguito è già sulla pista. Tra i passeggeri dovrebbe esserci anche Candito, che apprende invece che per lui non c´è più posto. «Cos´è, una ritorsione a seguito della mia domanda?», chiede a chi glielo comunica senza ricevere risposta. Il collega che deve rientrare per un grave problema familiare non batte ciglio. Dopo una non facile "trattativa" Candito ritrova il posto sull´aereo che lo riporterà a casa, con buona pace dello "stile" di cui parlava il numero uno della nostra diplomazia.



Renato Caprile

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