La gentile signora, osservando le foto del cadavere insanguinato e sfregiato del dittatore libico che, nonostante i delitti è pur sempre un essere umano, ha illuminato il suo volto in un sorriso gioioso e ha esclamato: "Uahu!".
Ci piace anche segnalare, come fulgido esempio di amore per la libertà (???), il principale esempio di sopravvivenza dell'uomo di Neanderthal nell'era geologica moderna, l'affascinante direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti, a commento dell'uccisione di Gheddafi: "Hanno vinto i peggiori". Probabilmente il "selvatico" Alessandro intendeva riferirsi a Hilary Clinton e a quelli come lei.
I volti di un satrapo
Il colonnello Muammar Gheddafi non fu soltanto il satrapo orientale, vestito di una uniforme operistica che si pavoneggiava a Roma ostentando il ritratto di Omar El Mukhtar, martire della resistenza anti-italiana, sul bavero della giacca. Prima di seppellirlo conviene ricordare che il tiranno era pur sempre un leader nazionale e che perseguì progetti diversi, quasi sempre folli, ma non privi di una loro perversa genialità.
Il primo Gheddafi imparò la politica sulle pagine del Mein Kampf di Gamal Abdel Nasser, pubblicato e diffuso nel mondo arabo sotto il titolo di «Filosofia della Rivoluzione». Scelse la carriera militare perché le forze armate potevano essere, come nel caso del leader egiziano, la piattaforma da cui balzare alla conquista del potere. Riunì intorno a sé un gruppo di giovani ufficiali perché così aveva fatto Nasser nel 1952. Volle che il primo atto della rivolta fosse la cacciata del re perché Idris, ai suoi occhi, era la versione libica dell’egiziano Farouk. Scelse per sé il grado di colonnello, dopo la vittoria, perché nessun altro rango militare gli sarebbe apparso più desiderabile di quello dell’adorato Nasser. Fu nazionalista e panarabista perché quelli erano i due cardini dell’ideologia con cui Nasser voleva promuovere la rinascita politica e morale del mondo arabo. Dovette comprendere rapidamente, tuttavia, che l’identità nazionale libica era molto più labile delle identità nazionali dell’Egitto, del Marocco, dell’Algeria e della Tunisia.
La Libia era una creazione artificiale del colonialismo italiano, uno Stato composto da due territori (la Tripolitania e la Cirenaica) che avevano avuto storie diverse, popolato da tribù che avevano interessi contrastanti, abitato da circa due milioni di persone (tanti erano i libici quando Gheddafi conquistò il potere), sparse su un enorme territorio prevalentemente desertico. Demograficamente povera, economicamente sottosviluppata e priva di un forte passato nazionale, la Libia di Gheddafi era tuttavia, potenzialmente, un paese ricco, e tale sarebbe diventato a mano a mano che le grandi compagnie petrolifere scoprivano nuovi giacimenti di petrolio e di gas. A differenza di altri leader nazionali dei paesi emergenti, il colonnello ebbe quindi sempre a sua disposizione i mezzi finanziari necessari al perseguimento dei suoi obiettivi; ed è probabile che tanta abbondanza lo abbia sollecitato a concepire sogni smisurati e stravaganti. La storia della sua politica è anche la storia del suo denaro e del modo in cui venne impiegato.
La sua prima mossa fu quella di utilizzare il periodo coloniale italiano per risvegliare un sentimento nazionale non ancora esistente. La sua seconda mossa fu il panarabismo, vale a dire la formula adottata dalle fusioni che Nasser aveva già tentato con la Siria. Ebbe qualche apparente successo, ma nessuno dei matrimoni celebrati da Gheddafi (con l’Egitto, con la Tunisia, con il Marocco) venne consumato. Mentre il panarabismo restava soltanto una generosa utopia, Gheddafi andava alla ricerca di altri luoghi e di altri impieghi per il suo denaro. Decise che avrebbe combattuto l’imperialismo delle potenze neo-coloniali soprattutto per procura, vale a dire sostenendo e finanziando tutti i «movimenti di liberazione», dalle Filippine all’Irlanda, indipendentemente dalla loro fisionomia politica e dalla loro connotazione etnico-religiosa. E poiché il pozzo del denaro era senza fondo, Gheddafi dava prova contemporaneamente di una sorprendente bulimia militare e riempiva i suoi arsenali di aerei, carri armati, navi militari, sommergibili, missili, cannoni e armi leggere. Sembra che un giornalista straniero gli abbia chiesto: «Ma come può l’esercito libico di 30.000 uomini, diciamo pure di 60.000 se lei ne raddoppia la dimensione come pianificato, far funzionare 3.000 carri armati di provenienza sovietica?». Se fosse stato sincero, Gheddafi avrebbe risposto che diffidava delle forze armate e preferiva formazioni di militanti fedeli, create dopo la rivoluzione.
I suoi interessi e le sue ambizioni, nel frattempo, si spostavano dal mondo arabo all’Africa. Dopo avere sfrontatamente comperato con un diluvio di denaro la presidenza dell’Unione africana, cominciò a definire se stesso, senza un’ombra d’ironia, «re dell’Africa», anzi «re dei re dell’Africa», la carica che in passato era stata del «Negus Negast», imperatore d’Etiopia. In patria invece sosteneva di non avere cariche istituzionali e di essere semplicemente il «fratello leader», «guida verso l’era delle masse», «capo della rivoluzione». Per educare il suo popolo e rinnovare lo Stato scrisse un «libro verde» in cui erano esposti i princìpi politici ed economici della Terza Teoria Universale, una sorta di ultima profezia che avrebbe definitivamente seppellito quelle del capitalismo e del comunismo. Queste diverse incarnazioni, puntellate dai suoi generosi finanziamenti, lo avevano trasformato fisicamente.
Il giovane tenente del 1969, sobriamente vestito in una uniforme militare di taglio inglese, era diventato un nababbo orientale, avvolto in burnus sgargianti, spettinato, irsuto, mal rasato, regalmente capriccioso, protetto da un drappello di formose e robuste moschettiere. Le sue successive incarnazioni hanno procurato a Gheddafi uno stuolo di nemici. La Francia lo detestava per le sue interferenze nel Ciad e per l’attentato contro un aereo francese, la Gran Bretagna per l’uccisione di una poliziotta colpita da uno sgherro libico di fronte all’ambasciata di Libia a Londra, gli Stati Uniti per il contenzioso sul golfo della Sirte e l’attentato in una discoteca di Berlino, la gran Bretagna e gli Stati Uniti insieme per l’attentato contro un aereo della Pan American nel cielo scozzese di Lockerbie, i leader arabi per le sue intollerabili irruzioni negli affari interni dei loro Paesi, la Fratellanza musulmana per il modo in cui aveva perseguito, incarcerato e ucciso gli islamisti libici, la Svizzera per le misure di rappresaglia decise dal colonnello dopo l’arresto di Hannibal in un albergo di Ginevra, la Bulgaria per la lunga detenzione di alcune infermiere accusate di un reato inesistente. Aveva anche qualche amico, tra cui alcuni Stati africani e quei Paesi che, come il Venezuela di Hugo Chavez, lo consideravano una provvidenziale spina nel fianco dell’Occidente imperialista.
Ma il suo scudo più efficace fu il peso degli interessi petroliferi nell’economia dei Paesi che lo odiavano. La svolta ebbe luogo quando lo stesso Gheddafi, assediato dalle sanzioni e consigliato forse dal figlio Sef El Islam, decise che la rinuncia al nucleare gli avrebbe permesso di rompere l’assedio. Comincia così una fase in cui il colonnello non cambia stile e non abbandona le sue stramberie, ma esce dall’isolamento e mette a segno qualche successo come la liberazione di uno degli attentatori di Lockerbie, detenuto in un carcere scozzese. Sembra che le sue colpe siano state dimenticate e che i suoi potenziali nemici siano disposti ad accogliere festosamente (qualcuno troppo festosamente) il ritorno all’ovile della pecora nera. Molti sperano di averlo ammansito e contano di fare con il suo Paese affari importanti.
Tutto cambia ancora una volta quando il suicidio di un giovane tunisino fa saltare il coperchio della pentola in cui bolle e ribolle la rabbia dei giovani arabi. La rivolta libica scoppia a Bengasi, vale a dire in quella parte del Paese dove esiste una vecchia fronda che Gheddafi non è mai riuscito a estirpare. Ma la protesta non sarebbe bastata a detronizzare il Raìs se alcuni dei suoi vecchi nemici non avessero deciso di sostenere i ribelli riducendo considerevolmente la forza della repressione. Qualcuno lo ha fatto per saldare vecchi conti, recitare la parte del paladino della democrazia araba, prenotare per sé una fetta considerevole della ricchezza petrolifera della Libia. E qualcuno, come l’Italia, lo ha fatto per non essere estromesso dalla partita finale. Se avesse potuto difendersi in un’aula di tribunale, Gheddafi avrebbe forse chiamato sul banco dei testimoni molti soci d’affari. Ma della sua umiliante fine politica e umana, se avesse conservato un briciolo di intelligenza, avrebbe potuto rimproverare soltanto se stesso.
Sergio Romano
Il sangue del raìs diventa trofeo lo scempio dei sudditi in rivolta
È accaduto di nuovo, lo abbiamo visto nel gorgo di violenza che le immagini del linciaggio di Gheddafi hanno registrato: il culto della personalità degenera nell´odio per la persona, l´adorazione del vivo chiede la profanazione del morto.Quella testa spelacchiata da vecchio ancora riccioluto, non più coperta dai truccatori e dai costumi di scena, che galleggia tra la folla che lo lincia, lo sballotta e lo ucciderà, impone la domanda che oggi conta: gli esecutori di Gheddafi saranno migliori di colui che hanno con tanta brutalità torturato e finito?
In queste deposizioni senza pietà, che espongono il nemico come un trofeo di caccia, buttato sul cofano di una camionetta proprio come una capra abbattuta mentre bela ancora per chiedere pietà e si dibatte, si strozza in gola il grido di liberazione e di gioia che dovrebbe sempre accogliere la caduta dei tiranni. Non si riesce a gioire per scene da bassa macelleria, anche quando il finale era già stato scritto e meritato da quando lui aveva deciso di resistere per vanità e cecità nel ridotto della propria città natale. Pur sapendo che la sua resistenza avrebbe immolato altre centinaia di libici.
È stato un abisso di orrore quello nel quale il raìs ridotto a un vecchio implorante e sanguinante è stato risucchiato, con una furia vendicativa che fa rabbrividire e fa ripensare alle voci sulle torture e le violenze dei ribelli contro i loro prigionieri lealisti, richiamo alle torture dei "liberatori" americani nel carcere di Abu Grahib e all´orrore dei cadaveri dei figli di Saddam esibiti alle telecamere. La sua inutile resistenza, la furia bestiale e vile della folla, da branco in rivolta contro il "lupo alfa" ormai spelacchiato e impotente, entrano, insieme con la profanazione dei corpi di Mussolini, della Petacci, degli altri gerarchi fascisti, nell´archivio delle dittature accecate e condannate all´oscenità del finale.
Tutti gli uomini del destino sono sempre gli ultimi a capire che il destino gli ha voltato le spalle. Ogni vendetta sembra giustificata da chi li ha sofferti. Tutto già visto, nella sequenza culminata nell´immagine forse più desolante, quella del ragazzino al quale è stata messa in mano una pistola d´oro come a Scaramanga, l´assassino professionale del film di 007. Per lui, per il suo linciaggio divenuto esecuzione voluta, a freddo, quando era ancora ferito, invocava pietà e la testona pelata si dibatteva, più che di gloria transitoria si sarebbe dovuto usare l´anatema attribuito a Bruto sul cadavere di Giulio Cesare: «Sic semper tyrannis», questa è sempre la sorte dei tiranni.
Sono stati pochi, e molto fortunati, i despoti che sono riusciti a scampare al rito feroce dell´esposizione dei loro resti per il ludibrio e il consumo dei sudditi e del resto del mondo. Furono. nella storia recente, Stalin, morto a settantacinque anni nel proprio letto, di emorragia cerebrale; Mao Zedong, ucciso da un infarto a 83 anni; Francisco Franco, onorato e da molti rimpianto; Idi Amin, il sanguinario "Re di Scozia" che devastò l´Uganda, curato nell´agonia in un attrezzatissimo ospedale dell´Arabia Saudita o "Papa Doc" Duvalier, saggiamente rifugiato in Costa Azzurra per sfuggire ai machete degli Haitiani che proprio lui aveva mobilitato per mozzare la testa agli oppositori. Di Pol Pot, il signore dei "campi della morte" in Kampuchea, vedemmo il corpo senza vita, perché soltanto quella foto avrebbe potuto convincere i cambogiani che l´assassino di due milioni di innocenti non c´era più.
Gheddafi ha chiesto pietà, mormorando «non sparatemi, non sparatemi» e non ne ha avuta come non ne aveva avuta lui nel quasi mezzo secolo di regno. È tardi per invocare "in articulo mortis" quella misericordia umana che non si è concessa agli altri da vivi. Guardando l´ultima espressione congelata sul viso quando dovette sentire la canna della pistola d´oro premuta alla tempia, si è assaliti dalla nausea. Occorre fare uno sforzo per ricordare espressioni e volti che invece non vedremo mai, quelli dei passeggeri, delle madri, dei loro figli piccoli, che vissero i cinque minuti - un tempo interminabile - ancora allacciati ai sedili del mozzicone di Jumbo Jet che cadeva nella spirale del volo PanAm 103, nei giorni del Natale 1988. Quell´aereo civile che il morto di oggi ordinò di far esplodere a undici mila metri di quota, senza nessuna colpa.
Naturalmente è facile, per noi che non siamo stati rinchiusi nelle tane o abbandonati nel deserto a morire di sete, dove il Colonnello teneva in ostaggio i migranti per ricattare e mungere soldi alla tremante Italia, per chi non è rumeno, per chi non ebbe parenti, amici, gassati ad Auschwitz o fucilati sulle piazze dei paesi dell´Appennino, provare orrore e repulsione per questi riti barbarici esposti come un atto di nascita del futuro. Ma i coniugi Ceaucescu, passati dalla satrapia più sfacciata sopra il loro Paese al plotone di esecuzione e poi all´esposizione dei resti, il Saddam Hussein pescato dal buco come una talpa irsuta e poi impiccato nel buio di un processo grottesco, il Mussolini in Piazzale Loreto, sono la conferma necessaria, lugubre e morbosa, della fine. Lo aveva capito, nella sua diabolica e allucinata intelligenza, Adolf Hitler, negandosi ai vincitori russi e quindi garantendosi un prolungamento di esistenza immateriale, come un incubo. Lo sapevano anche gli Americani, quando fecero la scelta di gettare nell´Oceano Indiano il cadavere di Osama Bin Laden, per evitare il sussulto di pietà che anche il suo corpo distrutto dai proiettili avrebbe sollevato.
Cercava di scappare, con una carovana di fuggiaschi e di gerarchi, verso una salvezza che per lui non poteva più esserci, sotto il mandato di cattura internazionale per crimini contro l´umanità. Mentre osserviamo, perché siamo costretti a farlo, perché sono immagini della nostra storia di cui Gheddafi è stato tanta parte, la foto di lui ripreso dal basso, la cicatrice del foro d´ingresso del proiettile della tempia, la gioia stranita del ragazzo al quale hanno messo in mano la pistola d´oro come fosse quella del colpo di grazia, ci chiediamo perché non avesse imboccato una delle vere e sicure vie di salvezza che tanti erano stati pronti a offrirgli, quando si era capito che la sua nazione si era stancata di lui. Troppo superbo, troppo arrogante, per accettare un processo, nel quale si sarebbero anche aperti troppi armadi di scheletri internazionali.
Non sarà rimpianto, come non sono stati rimpianti i Saddam, i Pol Pot, gli Hitler. «Sic semper tyrannis». Ma nel momento della fine, mentre implorano i loro aguzzini, anche i tiranni tornano a essere soltanto uomini. E i loro esecutori, da vittime, tornano a essere carnefici.
Vittorio Zucconi
Missione compiuta ma la Nato frena Obama: "Il popolo deciderà il suo futuro"
L´America ha vinto una guerra «in cui senza mettere un solo soldato americano a terra in Libia, abbiamo raggiunto i nostri obiettivi». Barack Obama avrà pure combattuto la guerra di Libia "dal sedile posteriore", decidendo di non schierarsi in prima linea dopo i bombardamenti iniziali (decisivi) alla Libia di Gheddafi. Ma ieri sera per il presidente americano è arrivato il momento di celebrare una scelta strategicamente e tatticamente giusta: delegare all´Europa il grosso della responsabilità della guerra a Gheddafi dopo aver distrutto l´aeronautica libica. Per questo Obama compare davanti ai giornalisti per dire che la morte di Gheddafi «segna la fine di un lungo capitolo assai doloroso per il popolo libico». Il dopoguerra è ancora tutto da costruire, una vera pace fra le fazioni del Cnt va ancora negoziata, ma adesso per Obama «sarà il popolo libico ad avere la possibilità di decidere il suo futuro, e ora che uno dei dittatori più longevi non c´è più spero che il popolo dia vita a un paese tollerante e democratico».Per Obama la scomparsa di Gheddafi è soprattutto una conferma delle sue scelte di fronte a un´opposizione repubblicana pronta a trafiggerlo sempre e comunque; ma la Nato e i paesi europei hanno molto più degli Usa la sensazione che in Libia si sia chiuso soltanto un capitolo di una storia che potrebbe continuare a riservare sorprese e difficoltà. Il segretario generale dell´Alleanza Rasmussen ieri sera ha detto che «la fine della nostra missione verrà concordata con l´Onu e con il Cnt libico», mentre il ministro degli Esteri francese Juppè aveva appena ha fatto una fuga in avanti, dicendo che basterà la proclamazione della "liberazione della Libia" da parte del Cnt per determinare di fatto la fine della missione Nato. Dichiarazione di "Liberazione" che il Cnt ha fissato per domani.
Secondo Rasmussen la morte di Gheddafi segna certo «la fine del regno della paura in Libia», ma l´ex premier danese dice solo che «la fine della missione Nato si avvicina». Le stesse parole usate da Obama, «la missione Nato finirà presto», parole pronunciate nel discorso in cui comunque si fa stato del passaggio politico e militare decisivo provocato dall´uccisione di Gheddafi.
Vedremo se dietro questa apparente differenza lessicale fra Nato e Usa da una parte e Francia dall´altra c´è ancora una volta una divaricazione politica. Già oggi a Bruxelles si riuniranno gli ambasciatori della Nato per decidere cosa fare dopo la morte del dittatore, dei suoi figli e dei loro complici più importanti. Una fonte del ministero degli Esteri italiano lancia un allarme, che è quello che ieri sera girava in alcune stanze del potere romano: «Attenzione, l´obiettivo grosso è stato centrato, Gheddafi non c´è più e i suoi caposaldi principali sono stati espugnati. Ma i gheddafiani possono ancora essere capaci di pericolosissimi colpi di coda, e sicuramente da un punto di vista politico e legale la Nato dovrebbe essere mantenuta in grado di poter continuare a controllare e se necessario intervenire».
Nelle parole di ieri sera sia Obama che il segretario Rasmussen invitano «tutti i libici a mettere da parte le loro differenze e a lavorare insieme per costruire un futuro più luminoso». La preoccupazione sottintesa è che possano partire scontri, anche militari, fra le fazioni libiche. Tanto che Rasmussen ha chiesto ai suoi portavoce di sottolineare ai giornalisti con cui hanno parlato la formula di esplicita cautela, quella che dice «la missione sarà conclusa in coordinamento con le Nazioni Unite ed il Consiglio nazionale di transizione».
In effetti per i paesi della Nato si apre una fase politicamente assai delicata: ci sono tutte le premesse perché le differenze fra le varie anime del Cnt possano esplodere, in maniera anche violenta. E che tutto questo possa trasformarsi in un lungo periodo di instabilità della Libia, che rovescerebbe pericoli e caos innanzitutto sulla "riva Nord" del Mediterraneo, ovvero Italia, Spagna e Grecia.
Vincenzo Nigro
Berlusconi: "Sic transit gloria mundi"
MILANO - «Sic transit gloria mundi». Ricorre al latinoSilvio Berlusconi per commentare la notizia della morte di Muammar Gheddafi. La locuzione, che si traduce come «Così passa la gloria di questo mondo» e che significa sostanzialmente che le cose terrene sono passeggere, è stata riferita alle agenzie di stampa da alcuni partecipanti all'incontro tra il premier e il gruppo del Pdl. Il capo del governo avrebbe anche aggiunto: «Ora la guerra è finita». Non sono riportate ulteriori dichiarazioni del premier che in passato si era espresso in attestazioni di amicizia nei confronti del rais. «Le notizie non sono ancora certe - si è poi limitato a dire lasciando Montecitorio -. Sto preparando una dichiarazione e sto cercando di mettermi in contatto con il ministro della Difesa con una linea diretta con Misurata». E pensa probabilmente proprio a Berlusconi il leader dell'Udc, Pier Ferdinando Casini, nel commentare sul suo blog: «Gheddafi è morto e la sua scomparsa non potrá cancellare le sofferenze che ha inflitto a migliaia e migliaia di libici. Consiglio maggiore prudenza nei commenti soprattutto a chi in vita lo ha ossequiato con poco senso della misura». Il leader della Lega, Umberto Bossi, si è invece limitato a dire che «ora bisogna mandare i clandestini libici a casa».
«VITTORIA DEL POPOLO» - Dal governo italiano arriva anche il commento del ministro degli Esteri, Franco Frattini: «La morte di Gheddafi, se confermata, sarebbe davvero una grande vittoria del popolo libico». Per il titolare della Farnesina si tratta di «un grande passo avanti che si è concluso in modo tragico perchè il dittatore si è rifiutato fino all'ultimo di arrendersi alla Giustizia internazionale che non lo avrebbe certamente impiccato ma lo avrebbe giudicato secondo le regole».
«DOBBIAMO GIOIRE» - Anche il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ha commentato l'uccisione del rais: «Adesso la Libia ha 30 giorni per dotarsi di un governo provvisorio ma già oggi nasce una nuova Libia: dobbiamo gioire perché senza l'intervento nostro e della Nato sarebbero partite migliaia persone in più come profughi e non avremmo più avuto un partner né per l'immigrazione né per il commercio. Abbiamo ottenuto risultati umanitari e concreti».
«UNA MORTE GLORIOSA» - Non troverà probabilmente molti consensi nella coalizione di governo il commento di Mario Borghezio, eurodeputato della Lega Nord, che ha definito Gheddafi «un grande leader, un vero rivoluzionario non confondibile con i nuovi dirigenti libici portati al potere dalle baionette della Nato e dalle multinazionali del petrolio». Secondo Borghezio, quella di Gheddafi «è stata una morte gloriosa. Onore delle armi al templare di Allah. Anche se sono stato il primo e forse il solo a criticare il modo con cui è stato ossequiato in Italia recentemente, devo dire che è stata certamente una morte gloriosa e con le armi in pugno in mezzo ai suoi pochi fedeli che gli erano rimasti».
«ORA UN PAESE LIBERO E UNITO» - Anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha preso la parola su quanto accaduto a Sirte. «Si chiude una pagina drammatica in Libia - ha detto il capo dello Stato rispondendo ai giornalisti che gli chiedevano cosa cambia ora in Libia -. C'è da augurarsi che si costruisca un paese nuovo, libero e unito». «È evidente che la fine tragica di Gheddafi autorizza a dire che in Libia si è davvero voltata pagina - ha poi detto il presidente della Camera, Gianfranco Fini - e che quindi inizia un nuovo assetto politico e una nuova fase tra quel Paese e gli altri a partire dal nostro». «È giusto essere fiduciosi - ha proseguito il leader di Fli - ma bisogna tenere presente che ci sono molte, molte incognite sul futuro della Libia, su quello che, esaurita tragicamente la parentesi gheddafiana, sarà il futuro del Paese». E il presidente del Senato, Renato Schifani: «Si apre un nuovo capitolo nella storia della Libia. Mi auguro che prosegua senza incertezze il percorso di questo popolo verso la libertà. Un percorso indispensabile per questo importante paese del Mediterraneo».
Affari, petrolio e attentati i quarant´anni di potere del beduino rivoluzionario
Con la morte di Muammar Gheddafi finisce un incubo. Non costituiva più una minaccia. Il potere era ormai in mano agli insorti, ma l´idea che la "guida", onnipotente per quarantadue anni, si potesse aggirare ancora nel Paese con i suoi fedeli, armato e pieno di progetti tendenti a mettere a ferro e a fuoco Tripoli, Bengasi, Tobruk, creava angoscia, alimentava le voci sui presunti nascondigli.Si diceva che il raìs vivesse in un bunker, nel cuore della capitale, sotto i piedi dei manifestanti che lo dileggiavano o lo maledicevano. E a un certo punto sarebbe spuntato fuori pronto a punire gli insolenti, che l´avevano applaudito per decenni. Altri lo immaginavano al sicuro, con i suoi petrodollari, in qualche paese africano. O nel deserto. Altri giuravano che l´onore beduino, l´orgoglio tribale, lo costringesse a restare con i suoi. A morire con loro. Avevano ragione. La mancata cattura di Gheddafi ritardava l´installazione definitiva dei nuovi governanti a Tripoli. Alcuni di loro restavano a Bengasi come se la capitale, con Gheddafi in libertà, fosse insicura. E così avanzava a rilento la preparazione del nuovo assetto democratico. Insomma, la guerra di liberazione sembrava incompiuta. Non erano in pochi ad auspicare un processo, che avrebbe avuto il valore di una catarsi. Ma per la fine dei dittatori non ci sono regole precise. Il caso, e se non il destino la ferocia del momento, che non risparmia i liberatori, diventa una sentenza. Spesso non auspicata. O non gradita. Il dopo Gheddafi può comunque cominciare.
UNO DI FAMIGLIA
Muammar Gheddafi? Era uno di famiglia. Perché non ammetterlo? La storia fa questi scherzi, intreccia destini in apparenza senza nulla in comune. Muammar Gheddafi potrebbe figurare in un´italica foto di gruppo. Magari in un angolo, in un vasto panorama di volti, nazionali o non nazionali, più o meno ingialliti dalla storia più rapida del tempo, e con una patina più bizzarra che esotica. I confini della memoria patria sono assai più ampi di quelli geografici. E´ nato nella provincia di Misurata, quando la Libia era per l´Italia mussoliniana "la quarta sponda", vale a dire parte del territorio regio. Lo sarebbe stata ancora per poco, perché quando Gheddafi venne al mondo, nel 1942, a una ventina di chilometri a Sud di Sirte, le forze corazzate dell´Afrikakorps del feldmaresciallo Erwin Rommel e le unità mobili italiane si rincorrevano nel deserto con l´VIII armata britannica. E quel micidiale su e giù, per migliaia di chilometri disseminati di morti (dei quali leggi ancora i nomi negli struggenti cimiteri di guerra), si sarebbe concluso con la sconfitta italo-tedesca e con la fine del periodo coloniale. Mentre Gheddafi muoveva i primi passi, l´Italia perdeva il più povero pezzo del suo "impero", strappato poco più di trent´anni prima, nel 1911, all´impero ottomano, senza sapere che quel "cassone di sabbia", voluto dal liberale Giovanni Giolitti, progressista e spregiudicato, nascondeva un tesoro: il petrolio che avrebbe fatto dello scalzo beduino di Sirte uno dei più ricchi dittatori del pianeta.
IL DESIDERIO DI RIVALSA
Nell´accampamento dei beduini nomadi dove è cresciuto, Muammar ha subito le conseguenze del Secondo conflitto mondiale quando era finito da un pezzo. Aveva sei anni, giocava con due cugini, ed è esplosa una mina lasciata dagli italiani. I suoi compagni sono stati uccisi e a lui è rimasta una cicatrice sull´avambraccio destro. Era come un marchio che gli ha ricordato per tutta la vita i dominatori coloniali, per i quali nutriva sentimenti ambigui, contrastanti. Da un lato un rancore profondo, un desiderio di rivalsa, attraverso insulti e dispetti, dall´altro una voglia di mantenere rapporti distesi, talvolta amichevoli, spesso tesi a dimostrare il conquistato rango di un uomo potente. Il suo petrolio alimentava gran parte dell´Italia automobilistica e il suo gas faceva funzionare, sempre nella Penisola, una buona porzione dell´industria. E´ ancora cosi. Con grande soddisfazione Muammar comperò il dieci per cento delle azioni Fiat, quando Gianni Agnelli a corto di denaro aveva bisogno di aiuto. Il beduino ha teso la mano all´aristocratico industriale piemontese, "re d´Italia senza corona". E la sua vanità ebbe più di quel che sperasse quando Silvio Berlusconi, capo del governo di Roma, gli ha baciato la mano in pubblico, come un vassallo o un giullare.
L´INFANZIA DA PASTORE
Unico figlio maschio, faceva pascolare capre e cammelli, raccoglieva l´orzo e il grano, e aveva il dovere, l´onore, di imparare a leggere il Corano. I genitori non avevano conosciuto quel privilegio. Del Corano conoscevano a memoria molti versetti, ma non sapevano leggerlo. Se uno guarda oggi sui manifesti le ultime facce del raìs consumate, logorate, scavate, deformate da quarantun anni di potere, riesce difficilmente a immaginare l´infanzia pastorale di Muammar, tutta spesa ad accompagnare i pochi animali del deserto di proprietà della famiglia e a imparare, all´ombra di un palmeto, a memoria, le parole di Allah raccolte da Maometto.
MINACCE E BUFFONERIE
Quel ragazzo è diventato con gli anni un personaggio impossibile e inevitabile, capace di imporsi nel mondo. C´è riuscito grazie alla ricchezza del petrolio, ma anche con le sue assurde trovate ideologiche e teologiche, con le sue buffonerie, con le sue minacce, con i suoi discorsi spesso incomprensibili, ed anche con le azioni terroristiche seguite da atti di contrizione. E´ una vita che suscita stupore; ma suscitano stupore anche i potenti della terra che l´hanno via via bombardato, condannato, messo al bando ma anche accolto con tutti gli onori, e riverito. E che spesso sono stati complici dei suoi delitti, e dei suoi fallimenti.
L´ULTIMA RESISTENZA
Il solo limite che ha saputo imporsi è stato quello di autonominarsi colonnello, dopo il colpo di Stato, ma di non darsi gradi più alti. Non ne aveva bisogno. Era la "guida" e gli bastava. Come rivoluzionario ha sposato tante cause preoccupandosi soprattutto che fossero estremiste. Si è proclamato "luce", faro, del mondo arabo, e poi il padre, il "saggio" dell´Africa, senza mai diventare né l´uno né l´altro. Il finale è stato una tragica beffa, avvenuta nel furore e nel sangue: nel 1969 ha cacciato dal trono Idriss che da emiro della Cirenaica era diventato re della Libia; e nel 2011 lui, Gheddafi, è stato relegato dalla rivoluzione (favorita dalla vicina "primavera araba", in Tunisia e in Egitto) nella sola Tripolitania. E´ finito ammazzato nella Sirte natale, dove era nato sotto una tenda. Va a suo onore essere morto insieme ai suoi. Non è fuggito con valige di petrodollari. L´orgoglio del beduino ha retto. Gli va riconosciuto. Non è scappato.
STUDIO, PREGHIERE E ORGOGLIO
L´orgoglio gli viene dalla famiglia, dalla tribù, a lungo impegnate durante il primo Novecento nella lotta contro gli occupanti italiani. La politica lo cattura molto presto. Il primo richiamo è quello nazionalista arabo di Gamal Abdel Nasser, che nel ‘52, con gli "ufficiali liberi" egiziani, ha cacciato re Faruk, e che nel ‘56 ha nazionalizzato il Canale di Suez, sfidando Francia e Inghilterra, i potenti azionisti del corso d´acqua artificiale che collega il Mediterraneo al Mar Rosso. Un´ammirazione senza limiti per il raìs del Cairo, in quegli anni campione del risveglio arabo, accompagna Gheddafi all´università, dove frequenta la facoltà di legge, e poi all´accademia militare di Bengasi, dove crea un gruppo di "ufficiali liberi unionisti", simili a quelli egiziani. Solo la via militare, pensa, può condurre a una rivoluzione capace di strappare la Libia dall´isolamento in cui la tengono la monarchia, e la forte presenza di forze armate britanniche e americane. Al ritorno dall´accademia militare inglese di Sandhurst, dove ha seguito un corso di sei mesi, impone ai suoi compagni, diventati cospiratori, una vita ascetica nell´attesa di passare all´azione: soltanto studio e preghiere, niente tabacco, alcol e sesso. La disfatta araba del 1967, durante la guerra dei sei giorni con Israele, affretta i piani che nel settembre ‘69 sfoceranno in un riuscito colpo di stato. Un colpo esemplare.
GLI ITALIANI ESPULSI
In quei mesi Muammar Gheddafi raggiunge una popolarità internazionale. E´ un giovane ufficiale di 27 anni, fotogenico, asciutto, i lineamenti regolari, sobrio nel linguaggio, che ha abbattuto una monarchia debole e corrotta. E che ha il coraggio di espellere le basi militari americane e britanniche. Un anno dopo espellerà gli italiani rimasti in Libia, ad eccezione di quelli che lavorano per la Fiat e per l´Eni. Le giornaliste straniere che lo intervistano ne sono affascinate. Ma presto affiora la megalomania, che diventerà galoppante. Alla morte di Nasser, nel settembre ‘70, pensa di potergli succedere come campione del panarabismo. I soldi non gli mancano. Ma il tentativo di creare una federazione, sia pure "elastica", con Egitto e Siria fallisce subito e Gheddafi perde la fiducia dei leader arabi, al punto che nel ‘73, per la guerra del Kippur, sempre contro Israele, non viene neppure consultato. Per reazione lui lancia allora una specie di rivoluzione culturale, invita a bruciare i libri stranieri, in particolare quelli dei "comunisti ebrei". La sola lettura nobile è il Corano, che deve essere la guida dei patrioti, degli amici della rivoluzione.
IL LIBRO VERDE E LA JAMAHIRIYA
Di fronte all´opposizione che cresce e che contiene a stento, Gheddafi ricorre alle classi popolari, ai beduini, ai giovani, ai quali propone la sola vera democrazia "dopo quella ateniese". Attua in quel periodo un´ampia distribuzione della ricchezza dovuta al petrolio. Al tempo stesso predica un potere popolare diretto. Cosi nasce il Libro Verde, nel ‘76, in cui si teorizza una terza via, una forma di governo inedita, articolata in congressi di base, ai quali appartengono automaticamente i cittadini, e in altrettanti comitati più ristretti, in sindacati, in associazioni, che formano una piramide al vertice della quale c´è il Congresso generale del popolo, istanza suprema della Jamahiriya, vale a dire lo Stato delle masse. E´ una forma di socialismo ispirato a suo avviso dall´Islam, che resta "il messaggio eterno". Nel frattempo, sentendosi abbastanza robusto, Gheddafi avvia nel ‘77 una forte repressione, e uccide una trentina di oppositori. Le stragi saranno da allora sistematiche. Cosi gli arresti arbitrari, senza processo e le torture.
Deluso dagli arabi si rivolge all´Africa, e si impegna in una guerra nel Ciad, dove porta al potere Gukuni Oueddei, un suo protetto, che entra nella capitale, N´Djamena, su un carro armato libico. Il presidente Reagan lo considera a la mano di Mosca in Africa. E più crescono i sospetti americani e più Gheddafi si allinea sul blocco sovietico. In seguito a una serie di attentati, negli aeroporti di Vienna e di Roma, nell´aprile dell´86, l´aviazione americana bombarda Bab Al-Aziziya, il quartier generale dove si pensa a torto che si trovi Gheddafi. Gli attentati del dicembre ‘88 a Lockerbie contro un Boeing della PanAm e dell´anno successivo nel Niger contro un DC10 della francese UTA sono imputati ai servizi segreti libici. Ci vorranno dieci anni, e le sanzioni dell´Onu, per convincere Gheddafi a riconoscere la responsabilità. E a rimborsare col tempo i parenti delle vittime. Ma la svolta avviene quando George W. Bush invade l´Iraq di Saddam Hussein.
IL NEMICO BIN LADEN
Il raìs libico è preso dal panico, teme di subire la stessa sorte e comincia a collaborare con gli Stati Uniti alla caccia dei jiadisti di Al Qaeda. Gheddafi diventa il nemico di Bin Laden. Le sue carceri sono già affollate da musulmani integralisti che si sono opposti al regime. La collaborazione con la Cia è dunque facile. Lo è anche con i servizi inglesi. E con quelli degli altri paesi occidentali. E´ tuttavia quando annuncia l´abbandono del programma nucleare che avviene il suo rientro in società. Nicolas Sarkozy lo accoglie a Parigi e gli consente di montare la sua tenda a due passi dal Palazzo dell´Eliseo. Silvio Berlusconi gli offre a Roma una platea di ragazze desiderose di conoscere le sue idee sulle donne. E´ il trionfo. L´Occidente assetato di petrolio lo festeggia, dimenticando i milleduecento prigionieri uccisi dagli sgherri di Gheddafi nel carcere di Tripoli. La restituzione dei loro corpi sarà all´origine della manifestazione del 17 febbraio a Bengasi, quando incomincia
l´insurrezione.
Bernardo Valli
Un colpo alla tempia dopo la cattura
MILANO - Avvolto nel mistero in vita, Gheddafi ha lasciato un giallo anche nella morte. Non è affatto chiara la dinamica della sua cattura. Il rais stava fuggendo dalla Sirte appena espugnata dai ribelli, diretto a Sud, su un convoglio di sette macchine formato da familiari e fedelissimi, quando è stato intercettato dagli aerei della Nato e, via terra, dai ribelli.
LA DINAMICA - L'alleanza - aerei francesi, ha rivendicato Parigi, anche americani, ha precisato Washington - ha colpito alcune macchine, uccidendo il capo delle forze armate. Per evitare i colpi dei caccia, una Toyota si è improvvisamente staccata dal convoglio, seguita da un'altra macchina. A questo punto, secondo la ricostruzione dell'ambasciatore libico a Roma Abdel Hafed Gaddur, sono entrati in azione i rivoltosi, che hanno bloccato le macchine. Qui tutto diventa più fumoso: forse Gheddafi, che si trovava nella Toyota, è riuscito a fuggire e nascondersi in alcuni tubi di cemento. Di certo quei tubi sono già diventati il simbolo della fine del rais. Dal lussuoso bunker alla buca. I ribelli si sono fatti riprendere accanto ai tunnel, dove hanno scritto con lo spray «Qui stava Gheddafi. Allah è più grande».
LE IMMAGINI - Come però sia stato ucciso Gheddafi non è chiaro. Morto in battaglia o vittima di un'esecuzione sommaria? La televisione Al Jazeera ha mostrato le immagini del Rais, ferito gravemente e ancora in vita, quando è stato catturato. Che cosa sia però successo nei minuti precedenti e successivi a quelle immagini è un mistero. Sembra che Gheddafi, circondato dai ribelli visibilmente eccitati per la situazione, a un certo punto provi a reagire. Viene mostrato con la faccia insanguinata mentre è spinto contro una macchina. Di sicuro è ancora vivo. Si muove, anche se visibilmente ferito. A un certo punto si vede una pistola in mano a un ribelle. È probabile che proprio quell'arma abbia sparato e ucciso il Rais ma il dettaglio è tutt'altro che chiaro. Nell'immagine di un altro video, quando Gheddafi giace ormai morto, è ben evidente il foro di ingresso a una tempia sinistra. Il Cnt però precisa subito: «Non c'era l'ordine si uccidere».
LE VERSIONI - Le versioni sugli ultimi istanti di vita del Rais sono numerose. Per il giornalista libico Mahmoud al-Farjani, «Gheddafi ha combattuto fino alla fine». «Era in una casa a Sirte e ha combattuto contro i ribelli». Secondo la sua versione, il colonnello è deceduto a Sirte, colpito a morte alle gambe e al petto. «Ho visto con i miei occhi il suo cadavere», ha raccontato. I siti Web vicini al Cnt danno anche nome e cognome del miliziano che lo avrebbe ucciso: Ahmed al-Shibani, di 18 anni, portato in trionfo dai suoi compagni con in mano la pistola personale di Gheddafi. Anche qui le notizie in circolazione sono in contrasto. Per altre fonti, il ragazzo della foto è Mohammed, 20 anni, che sarebbe riuscito a prendere la pistola d'oro di Gheddafi, ma non sarebbe stato lui a ucciderlo. Infine un gruppo di testimoni ha raccontato alla tv al-Jazeera una versione del tutto diversa. Avrebbero visto gli uomini del Cnt catturare Gheddafi, schiaffeggiarlo sul volto, sbeffeggiarlo e quindi sparargli a sangue freddo. Altre fonti ancora sostengono che Gheddafi non sia morto a Sirte, ma alle porte di Misurata. A Sirte il colonnello sarebbe stato ferito alle gambe e fatto prigioniero, caricato su un'auto e trasportato verso Misurata. Ma sarebbe morto per le ferite poco prima di arrivarvi.
Il Raìs ferito, le urla dei ribelli. Poi il cadavere gettato a terra
TRIPOLI — Muammar Gheddafi è catturato vivo. Ferito, sanguinante, ma vivo. La sua esecuzione giunge qualche minuto dopo. Non si sa quanto voluta, pianificata, oppure l’azione anarchica di un guerrigliero. Muore ieri mattina, sembra attorno alle nove, per un colpo sparato al capo. Anche se il governo dei ribelli parla di un proiettile partito durante uno scontro con i suoi sostenitori. Alcune immagini riprese con i cellulari dai guerriglieri della rivoluzione nei dintorni di Sirte lo vedono gridare confusamente, i capelli più scarmigliati del solito. Vicino alla sua testa un guerrigliero brandisce una pistola, lo colpisce più volte con il calcio alle tempie. «Ma io che ti ho fatto?», esclama il Raìs.
Secondo le prime ricostruzioni, inizialmente è stato ferito alle gambe, forse conseguenza di un raid della Nato dal cielo contro il suo convoglio di vetture in fuga. Sembra che gridi: «Non sparate, non sparate!». Viene appoggiato al pianale di un pick up.
I ribelli attorno a lui cantano, sparano in aria, si abbracciano. Poi ci dicono che è morto. Lo trascinano per le gambe, gli tolgono la giacca mimetica, lo coprono con un telo bianco. Sono fotografie confuse, distorte, lui appare con i capelli scuri, contrastano con il rosa intenso del collo e del petto. Il suo cadavere è quindi filmato adagiato in una brandina all’interno di un’ambulanza a Misurata. Magia di quella stessa rivoluzione informatica e della comunicazione che è all’origine della Primavera araba, le nuove televisioni locali della Libia libera rilanciano su tutti i teleschermi del Paese i suoi ultimi secondi di vita e quindi il cadavere spintonato. I libici si passano queste immagini crude, brutali, sui telefonini. A Misurata, Tripoli, Bengasi, sui villaggi berberi delle montagne di Nafusa, in tutti i centri della rivoluzione, scatenano manifestazioni di gioia sfrenata, lunghe raffiche in aria, il concerto prolungato dei clacson delle auto. È la felicità della fine di un incubo, una gigantesca, corale festa collettiva. Sono le cronache più drammatiche della giornata di ieri. Non è retorico affermare che in poche ore la Libia è repentinamente passata dalla fase della rivoluzione a quella post-Gheddafi.È finalmente morto il dittatore padre-padrone per 42 anni. Ora il Paese guarda alla stabilizzazione, può passare alla preparazione delle elezioni previste tra 18 mesi. Si sono concluse le incertezze più gravi che hanno caratterizzato tutto il periodo della rivoluzione avviato dalle sommosse a Bengasi del 17 febbraio e che erano rimaste irrisolte persino dopo la liberazione di Tripoli il 23 agosto. Sino all’altro ieri c’era ancora il timore che Gheddafi potesse organizzare la resistenza armata in clandestinità. C’era chi temeva uno scenario da Iraq 2003, quando la liberazione di Bagdad da parte delle truppe americane fu seguita da una breve parentesi di soffusa, palpabile tensione e quindi dalla stagione del terrorismo, dei massacri terribili, indiscriminati e della guerra civile. Ora non più. Possiamo quindi cercare di ricostruire le ultime ore del Colonnello ieri mattina.
Dopo i pesanti bombardamenti di martedì e mercoledì, era ormai evidente che le poche centinaia di lealisti asserragliati nel cosiddetto «quartiere nu mero due», una zona residenziale presso il lungomare di Sirte devastata dalle bombe, lunga meno di 2 chilometri e larga 500 metri, non avrebbero più potuto resistere. Da due mesi non hanno acqua, corrente, dispongono di poco cibo, quasi nessuna medicina, sono esausti. Verso le sette tentano dunque la sortita a bordo di un centinaio di vetture. Dai balconi alcuni cecchini scelti coprono la fuga. Le vedette delle colonne rivoluzionarie segnalano il movimento all’Alleanza Atlantica. Dopo pochi minuti intervengono i jet francesi e un drone americano, che distruggono almeno due veicoli. Un tema delicato: quale è stato il ruolo della Nato? «Sappiamo per certo che Gheddafi non è stato ucciso dalla Nato. Contro di lui hanno operato i nostri eroi libici», ci ha detto ieri tagliando corto bruscamente lo stesso premier ad interim, Mahmoud Jibril. La colonna lealista comunque si ferma, giungono veloci sul posto i mezzi delle truppe rivoluzionarie. Lo scambio a fuoco è intenso, caotico, i filo-Gheddafi si disperdono. Sembra che il dittatore cerchi di rifugiarsi in un tunnel per l’irrigazione dei campi. «Come Saddam, si è nascosto in un buco. Questa è la fine dei dittatori», commentano in tanti ripensando alla scena del presidente iracheno catturato a Tikrit. La differenza fondamentale però è che in questo caso sul terreno non ci sono soldati americani o della Nato, bensì operano esclusivamente i volontari della rivoluzione libica.
Uno di loro avrebbe sparato alla testa del dittatore con un’arma calibro nove millimetri. Poco dopo arrivano anche le immagini del cadavere del figlio Mutassim: sembra si trovasse in un’altra vettura dello stesso convoglio che stava cercando di rientrare tra i vicoli devastati di Sirte. Nel pomeriggio ancora Jibril annuncia ai giornalisti a Tripoli che anche l’altro figlio Saif Al Islam sarebbe stato preso. Di lui ci sono poche foto confuse. «Non è chiaro se sia illeso, ferito, oppure morto», dice Jibril. Pare sia stato invece catturato tra gli altri Mussa Ibrahim, il noto portavoce della dittatura. Che fare ora del cadavere di Gheddafi e dei suoi fedelissimi? Come evitare che le loro tombe divengano luoghi simbolici di aggregazione e sprone per i nemici della rivoluzione? «Francamente non ci abbiamo ancora pensato. Per me l’importante è che Gheddafi non possa più nuocere alla Libia e alle nostre libertà. A che fare del suo cadavere penseremo poi», replica ancora Jibril. Ieri sera l’annuncio della sepoltura in una località segreta. E dire che sino all’altro ieri sembrava che la piazzaforte di Sirte potesse resistere ancora per qualche giorno. Voci della possibile presenza del dittatore tra i fedelissimi arroccati nella sua città natale erano girate appena dopo la caduta di Tripoli.
Ma nell’ultimo mese era diffusa la tesi che Gheddafi fosse nascosto nelle zone desertiche del Sud, al confine con Niger e Ciad. Era stato ventilato che stesse addirittura pianificando la nascita di un micro-Stato di guerriglieri- beduini Tuareg, con i quali poteva terrorizzare il Paese e preparare le sue vendette. Con la moglie, la figlia Aisha, parte dei suoi generali e fedelissimi scappati in Algeria e Niger, si era detto potesse ragionevolmente pensare al riscatto armato, alla vendetta contro la sua gente. «Gheddafi è un serpente velenosissimo. Sino a quando sarà in vita potrà danneggiarci », era uno dei luoghi più comuni. Questa narrativa sembrava confermata dalle difficoltà incontrate dalle forze della rivoluzione nel battere le due ultime roccaforti lealiste lungo la costa: Sirte e Bani Walid. L’11 ottobre Sirte pareva dover cadere da un momento all’altro. Vi si era recato lo stesso presidente del Consiglio nazionale transitorio, Mustafa Abdel Jalil, per dichiarare «vittoria». Il giorno dopo veniva dato per catturato Mutassim, il figlio del Colonnello che da mesi guidava i combattimenti in loco. Ma poi i lealisti avevano rilanciato i combattimenti e di Mutassim nessuna traccia. Il 13 ottobre abbiamo assistito in diretta dalle strade devastate di Sirte all’ennesima «ritirata strategica» dei ribelli sotto una tempesta di proiettili sparati dai «gheddafiani». «Strano che siano tanto determinati. Dopo tutto sono accerchiati, isolati. Cosa li spinge a morire combattendo? », si erano addirittura chiesti i portavoce della Nato. Ora abbiamo la risposta: tra loro stava lo stesso Raìs a spronarli.
Domenica scorsa le colonne della rivoluzione avevano infine preso il centro di Bani Walid. Pensavano di trovarvi Saif Al Islam, il figlio più politico del Colonnello. E invece nulla. «Soltanto adesso ci siamo resi conto che tutte le figure più importanti della dittatura si erano radunate attorno a Gheddafi per offrire un’ultima, disperata resistenza a Sirte», ci ha detto ieri pomeriggio Hisham Buhagiar, il capo della brigata che catturò la piazza di Tripoli e da allora è stato incaricato di cercare di prendere Gheddafi. Dal suo racconto sembra che il Colonnello sino a poco fa abbia potuto viaggiare nel Paese con libertà inaspettata. «Dopo aver perso la capitale, Gheddafi è stato a Sirte, quindi a Bani Walid. Un mese fa l’avevamo rintracciato nell’oasi di Sabha. Ma l’abbiamo mancato per 24 ore. Sappiamo che più volte ha sconfinato nel Sud dell’Algeria, l’ultima tre settimane fa, quando l’abbiamo perduto. Evitava di parlare al telefono, era molto attento, i suoi collaboratori comunicavano in codice. Il suo nome non era mai pronunciato. Alcuni informatori lo segnalavano a Bani Walid una settimana fa. Da qui non gli è stato troppo complicato fuggire a Sirte. Capiva però che le riserve stavano finendo. Mancavano munizioni, non c’era più troppo margine di manovra. Ieri erano con lui 300 o 400 dei suoi migliori soldati. Erano ancora in possesso di armi estremamente sofisticate, molto migliori di quelle dei nostri», afferma. Le prossime giornate saranno intense. Tra le prime mosse del governo di transizione ci sarà quella di chiedere all’Algeria l’estradizione dei familiari di Gheddafi. Soprattutto ora si deve annunciare ufficialmente la liberazione del Paese, l’avvio del governo transitorio e la nascita della costituente volta a preparare le elezioni. La Libia è in festa. I problemi non mancano, a partire dalle profonde divisioni che lacerano il fronte rivoluzionario. Ma ora finalmente la strada per il futuro è aperta.Lorenzo Cremonesi
Chi lo ha ucciso? «È stato un ragazzo con una calibro 9»
WASHINGTON — Per Muammar Gheddafi i ribelli erano «ratti». Ma è stato lui a fare la fine del topo, scovato all'interno di una conduttura sotto una strada a Sirte. L'ultimo atto della ribellione libica è stato caotico come lo sono stati questi mesi e l'unica cosa certa è la morte della Guida. Ma su come si sia consumata l'agonia del Colonnello restano delle ombre. Sospetti di un uccisione a freddo suscitati dalle immagini girate con i telefonini. Video che mostrano Gheddafi subito dopo la cattura: è sanguinante, cammina sorretto dai suoi avversari. Poi lo ritraggono immobile, in apparenza senza vita.L'attacco
È mattina presto. I lealisti cercano di sottrarsi all'accerchiamento a Sirte. Un corteo di auto si dirige verso sud ma viene intercettato dagli insorti. «La terza vettura, una Toyota Corolla verde ha fatto una deviazione, seguita a ruota dalla quinta auto. È all'interno della Toyota che si trovava Gheddafi che, una volta circondato, è sceso ma è stato colpito all'addome e alla testa». Questa la prima ricostruzione dell'ambasciatore libico in Italia Abdul Gaddur. «Siamo stati noi a individuarlo e attaccarlo», precisa il responsabile dell'Informazione Shamman. Dunque un'operazione condotta dall'opposizione e, in particolare, dalla brigata Misurata. Scenario iniziale scompaginato quasi subito dal coinvolgimento diretto della Nato. Abu Bakr Al Frinjani, uno dei dirigenti militari a Sirte, è il primo ad ammetterlo: «Gheddafi è rimasto ferito gravemente in seguito a un bombardamento degli alleati». L'Alleanza non tace e si affida alle parole del Colonnello Roland Lavoie: «Alle 8.30 un nostro aereo ha centrato due veicoli di un convoglio più ampio». Poi arrivano i francesi, sempre pronti a tirare la volata nella campagna libica: «È stato un nostro aereo a bloccare il lungo corteo di mezzi». In serata tocca agli americani rivendicare: «C'era anche un nostro velivolo senza pilota a bombardare». L'Alleanza così si prende una parte del merito, ma è ben felice di lasciare il successo agli oppositori per motivi diplomatici e di opportunità. È ben noto che la Nato ha schierato commandos, aerei senza pilota, satelliti spia e il meglio della tecnologia per dare la caccia al Colonnello. Altri soldati hanno guidato da terra gli attacchi e si sono messi sulla tracce del Colonnello pronti a segnalare la sua presenza. Un network di supporto a incursioni mirate prima su Tripoli e poi su Sirte. Era evidente che il bersaglio fosse Gheddafi. «Noi non vogliamo ucciderlo ma se capita (di ucciderlo)...» è stata la foglia di fico sotto la quale nascondere la polemica sul diritto di eliminare o meno un leader straniero.
Il tunnel
Come mai il Raìs e i suoi compagni di avventura si sono infilati nella conduttura? La scelta del nascondiglio è la reazione disperata di chi finisce sotto un bombardamento aereo. E quanto raccontato dalle fonti alleate spiega cosa sarebbe avvenuto: sorpresi da caccia e Predator, i lealisti cercano riparo nei due tunnel che passano sotto la strada. Una scena da film. Arrivano gli insorti che si avvicinano al nascondiglio e aprono il fuoco centrando il Colonnello e il suo piccolo seguito. Protagonista — secondo fonti giornalistiche — è il ventenne Mohammed Al Bibi: disarma il Colonnello impossessandosi di una pistola dorata e poi, forse, spara insieme ad altri contro il nemico. Magari potrà chiedere di riscuotere la taglia da 20 milioni di dollari. Sulla strada restano almeno 15 mezzi inceneriti e ben 50 cadaveri, nessun cratere. I velivoli che hanno colpito lo hanno fatto con precisione e, visti i numeri, è probabile che fossero ben più di due. Oppure c'erano anche degli elicotteri d'attacco.
La fine
Come è morto Muammar Gheddafi? Nella prima versione gli oppositori affermano che è spirato per le ferite mentre lo stavano portando a Misurata. Un racconto che poteva starci, in fondo c'era stata una battaglia. Invece spuntano i video che mandano all'aria quella versione. I ribelli che sono lì registrano quei momenti sul telefonino. Immagini crude. In una il Colonnello ha la testa appoggiata alla gamba di una persona. Sanguina. In una seconda appare riverso sul cofano di una jeep. Lo tirano giù e lui sta in piedi, anche perché dei guerriglieri gli fanno da stampella. Si sente gridare due volte: «Tenetelo in vita». Poi degli spari. Il Raìs non si vede più. Riappare in altre clip. È per terra a torso nudo, non si scorge la ferita al torace, c'è però del sangue dietro la nuca. Lo girano e rigirano. Sembra davvero morto. Ancora un microfilmato del dittatore. Giace all'interno di un veicolo, si nota chiaramente una ferita all'altezza della pancia. Il Consiglio di transizione è sulla difensiva. E nella notte corregge la prima versione con un rattoppo frettoloso: stavamo portando Gheddafi in ospedale quando l'ambulanza è stata coinvolta in una sparatoria con i lealisti e una pallottola lo ha centrato alla testa. Fonti anonime confidano alla Reuters: «Lo hanno picchiato e fatto fuori». Chi gli ha sparato? Un ufficiale ribelle precisa in tv: un nostro militare con una calibro 9. La stessa pistola — rilanciano i media — che impugnava il ventenne Mohammed. Ma probabilmente sono altri che hanno inferto il colpo di grazia. E il Colonnello poteva essere curato? Interrogativi che spingono «Amnesty International» a sollecitare un'indagine, ma che non preoccupano i libici. Dopo decenni di massacri, ritengono che giustizia sia fatta. E sono rilassati anche coloro che temevano un possibile processo-show del Raìs: avrebbe avuto tante cose da raccontare.
Guido Olimpio
Così si era illuso di poter ancora vincere
Nessuna fuga a Sud o all'estero. L'ultima trincea nella sua città natale Bani Walid «Con i soldi e l'oro che si è portato dietro potrebbe costruire una città o uno Stato senza che ce ne accorgessimo. Laggiù non vive nessuno». Ancora dieci giorni fa Musa Al Koni, tuareg e rappresentante del nuovo governo, era convinto che Muammar Gheddafi si nascondesse nel deserto sterminato a sud del Paese, i confini con l'Algeria e il Niger scritti sulla sabbia.Invece il Colonnello era rintanato nella città che si era già costruito su misura della sua megalomania, trasformando un villaggio di pescatori nella seconda capitale. Perché dalle parti di Sirte era nato, perché lì aveva frequentato le elementari e perché la Libia non doveva avere una storia prima di lui. Il fastoso centro congressi Ouagadougou, adesso devastato dalle brigate rivoluzionarie, nel novembre 2010 aveva ospitato il vertice dell'Unione africana con l'Europa. Sulla spiaggia restano le tende che l'ex dittatore usava per ospitare i dignitari stranieri. A Tripoli ripetono che Sirte era la vera residenza di famiglia, che Gheddafi e i figli lasciavano malvolentieri le ville sulla costa. A Tripoli ripetevano che non poteva essersi rifugiato proprio lì, troppo prevedibile.
Così nei quasi due mesi di inseguimento le piste (sbagliate) hanno portato in direzioni diverse, lontano dalla strada costiera che unisce Sirte a Misurata. «Quando Muammar ha lasciato la capitale — commentava Fathi Sherif, uno dei cacciatori di taglie che braccava il qaid — quell'area era già sotto il nostro controllo. La via di fuga passa verso sud». Verso il deserto e Sebha, l'oasi a ottocento chilometri da Tripoli. Verso Gadamesh e la frontiera con l'Algeria. «È protetto da una tribù nomade», spiegava Hisham Buhagiar, commerciante di tappeti che i doveri della rivoluzione hanno trasformato in segugio. «La carovana è composta da cento fedelissimi che gli stanno sempre stretti attorno e da un anello di difesa più esterno formato da 300-500 mercenari».
L'ultima volta che Muammar Gheddafi è apparso in pubblico sfidava a scacchi Kirsan Iliyumzhinov, presidente della federazione internazionale. Era il 13 giugno. Da allora il Colonnello ha continuato a giocare la sua partita contro i nervi dei libici con i proclami audio, che venivano rilanciati dagli altoparlanti anche per le strade di Sirte e Bani Walid, l'altra roccaforte dove in molti erano sicuri si fosse asserragliato.
In agosto, dopo essere stato cacciato da Tripoli, parla di «ritirata strategica» e giura di essere disposto al «martirio»: «Combatteremo in ogni valle, in ogni strada, in ogni oasi e in ogni città. Non ci arrenderemo, non siamo donne». Una settimana dopo annuncia: «Gheddafi non lascerà la terra dei suoi antenati. Siamo pronti a dare battaglia». Insulta i ribelli: «Questi topi, questi germi, non sono libici: potete chiedere a chiunque». Sembra ancora convinto di poter vincere: «La gioventù resiste per eliminare i mercenari. Sconfiggeremo la Nato. Chi non combatte andrà all'inferno».
Abdel Salem Jallud, amico d'infanzia del dittatore ed ex primo ministro, aveva previsto che Gheddafi sarebbe rimasto in Libia. «È difficile che possa arrendersi, ma non ha il coraggio di suicidarsi come Adolf Hitler», diceva a Lucia Annunziata in un'intervista trasmessa dalla Rai alla fine di agosto. «Avrebbe potuto salvarsi solo con un accordo internazionale per l'uscita di scena. Questa fase è passata».
I pettegoli del complotto hanno ipotizzato trattative segrete tra il Qatar e l'Algeria. L'emiro avrebbe voluto farsi consegnare Muammar per passarlo ad Abdel Hakim Belhaj, l'islamista diventato capo militare di Tripoli e pedina prediletta dell'intreccio strategico manovrato da Doha in Libia.
Solo che in Algeria, dove si sono rifugiati tre dei suoi figli e la seconda moglie Safiya, il Colonnello non ha mai provato ad andare. Ha preso la via opposta, a est, fino a Sirte, perché ha finito con il credere alla sua propaganda e ha pensato di poter ancora vincere.
Davide Frattini
Dai politici alle hostess, i troppi amici italiani
«Appuntato Gheddafi, aaattenti!». Francesco Cossiga ci rideva su e giurava che nel passato del Raìs ci fosse non solo una mamma che forse era ebrea ma un papà che aveva vestito la divisa dei carabinieri. Il presidente un giorno raccontò di aver portato lui stesso l’amico Muammar a vedere, tra il confine tunisino e Tripoli, «la casermetta di Zuara dove suo padre, sottufficiale dell’Arma, aveva prestato servizio». Vero? Falso? Certo è che nessuno quanto Gheddafi è stato per gli italiani «il tiranno della porta accanto ». Italiana era la mina che, scoppiata quando era piccolo, gli uccise due cugini e lasciò a lui una cicatrice al braccio. Italiani erano i ventimila coloni che cacciò dal Paese nel luglio del 1970. Italiani i nemici odiati e incolpati di tutti i crimini commessi dai fascisti e dal maresciallo Rodolfo Graziani contro i quali proclamò la «Giornata della vendetta» scegliendo il 24 ottobre, anniversario della strage del 1911 in cui a Sciara Sciat era stato massacrato con particolare ferocia un contingente tricolore. Italiane erano le donne delle Tremiti che, nel periodo in cui l’isola di San Nicola fu usata dal Duce come confino per i patrioti tripolini, avrebbero ceduto al fascino beduino così da spingere il Colonnello a chiedere a Roma un’analisi a tappeto del Dna degli abitanti delle isole per avere la conferma di quanto aveva scritto l’agenzia Jana. E cioè che «avrebbero sangue libico tutti gli abitanti del posto». Tesi provocatoria raccolta da qualche politico tremitese che di tanto in tanto, in polemica con Roma, proclamava di accettare la rivendicazione gheddafiana sulle isole: «Tripoli è meno lontana di Roma!».
E ancora italiane le hostess che un paio di volte, durante le passerelle romane del dittatore, furono reclutate con annunci surreali: «Cercansi 500 ragazze piacevoli, tra i 18 e i 35 anni, alte almeno un metro e 70, ben vestite ma rigorosamente non in minigonna o scollate». Gettone di presenza: 60 euro. Incarico: accettare il dono di un Corano e ascoltare una omelia del dittatore che nel novembre del 2009 donò alle fanciulle, una delle quali uscì dal consesso rivelando ai giornalisti d’essere istantaneamente diventata maomettana («che, m’a fate ’na foto? »), indimenticabili chicche come questa: «Gesù non fu crocefisso: crocefissero al suo posto uno che gli somigliava». E non c’era semestre in cui il Colonnello non ricevesse la visita di un premier di destra o di sinistra, un ministro, un sottosegretario, o una delegazione o un giornalista. Come Oriana Fallaci, che a metà degli anni Ottanta, dopo tre ore e mezzo di attesa a Bab el Azizia davanti a una «biblioteca tappezzata principalmente di "Who’s who"» piantò una grana delle sue per «fare la pipì» e si ritrovò con «un cerchio di kalashnikov puntati contro lo stomaco» e si vendicò scrivendo peste e corna («oltre ad essere un tiranno è un gran villanzone» dalle «labbra maligne e portate al sorrisino compiaciuto, di chi è molto soddisfatto di sé perché oltre a sapersi importante, potente, si crede anche bello») di quell’ospite bollato nei suoi ricordi come «senz’altro il più cretino di tutti». Per non dire del racconto di Ilaria D’Amico che, a dispetto della bellezza mediterranea, fu fatta aspettare per cinque ore e infine accolta tra dense nuvole d’incenso che forse sarebbero piaciute a Salomè ma costrinsero lei, allergica, a fuggire in cerca d’aria tra le risate delle guardie del corpo. O del meraviglioso ricordo conservato da Adriano Sofri, lui pure ospite anni fa con una delegazione: «Solo una volta Gheddafi, sotto la tenda di Bab-el-Azizia, fu all’altezza del desiderio di esotismo desertico dei viaggiatori nordici: successe che, mentre parlava, uno scarafaggio venne fuori dalla sabbia e avanzò lentamente ma sicuramente lungo il tappeto verso la sua scrivania.
Quando fu arrivato alla sua portata, Gheddafi tolse un piede dallo zoccolo in cui era infilato, afferrò con le dita del piede l’animaletto, senza neanche abbassare gli occhi, e lo gettò da una parte, dove poté tornare a insabbiarsi». Un’immagine che mesi fa, mentre infuriava la guerra, Sofri rievocò auspicando che anche al Raìs fosse riservato un destino simile. Una rimozione non cruenta. Perché si seppellisse nella sabbia. Fatto sta che per anni e anni, dall’acquisto delle quote Fiat nel periodo più duro della casa torinese all’irruzione del figlio Saadi, capricciosamente deciso a giocare a calcio (a sue spese) nel «campionato più bello del mondo» dopo essere stato attaccante, capitano e presidente della squadra Al Ittihad, Muammar e i suoi viziatissimi figli sono stati una presenza fissa nella nostra vita. Al punto che, ricordò un giorno Filippo Ceccarelli, «si è autocandidato al Quirinale, ha offerto di salvare Venezia, si è proposto di pagare gli avvocati ad Andreotti e di acquistare le quote latte per far cessare le proteste degli allevatori». Senza dimenticare la distribuzione di migliaia di videocassette con l’edizione integrale del suo «Libretto verde». E la stralunata lezione di «democrazia» alla Sapienza di Roma dove, dopo avere fatto aspettare per ore tutti i convenuti, spiegò indifferente a ogni etimologia greca, tra i salamelecchi del rettore Luigi Frati, che «la democrazia è una parola araba che è stata letta in latino. Demos in arabo vuol dire popolo e crazi vuol dire sedia. Cioè il popolo si vuole sedere sulle sedie». Spiegò la sua idea, davanti ad un mucchio di autorità in muto ma sorridente imbarazzo, anche in Campidoglio: «Il partitismo è un aborto della democrazia. Se me lo chiedesse il popolo italiano io gli darei il potere. Annullerei i partiti, affinché il popolo possa prendere il loro posto. Non ci sarebbero più elezioni e si verificherebbe l’unità di tutti gli italiani. Non ci sarebbe più destra e sinistra. Il popolo eserciterebbe il potere direttamente ». E aggiunse ridendo: «Non c’è nulla in contrario se l’amico Berlusconi si presentasse per diventare il presidente del governo libico. Il popolo libico sicuramente ne trarrebbe vantaggio. Potrebbe trasferire delle fabbriche e aziende agricole così la Libia diventerebbe industriale. Io non potrei offrire industrie come il mio amico Berlusconi: noi abbiamo il gas e il petrolio e garantiremmo il continuo flusso verso l’Italia». Insomma, una joint venture: Muammar Berlusconi e Silvio Gheddafi.
Del resto, il Colonnello l’aveva detto già nel 1994: «Io e lui siamo fatti per intenderci, in quanto rivoluzionari. Prevedo per lui grandi successi nella gestione dello Stato, così com’è stato nella gestione del Milan. La sua personalità è apparsa all’orizzonte cambiando tutto da cima a fondo». Il Cavaliere sorrideva. Lasciandosi immortalare impettito con l’amico in mezzo ai cavalli berberi. Su giganteschi manifesti incollati su tutti i muri tripolitani. Perfino in un francobollo celebrativo della rivoluzione. Fino al celebre bacio della mano che sarebbe finito su tutti i telegiornali del pianeta, da Santiago del Cile all’isola di Hokkaido. Uno slancio così compromettente (una sviolinata tra le tante: «Gheddafi è un grande amico mio e dell’Italia. È il leader della libertà») da costringerlo successivamente a una rara autocritica: «Ho un forte carattere guascone, che qualche volta mi porta in modo spontaneo a comportamenti non strettamente conformi alla forma». E poi c’erano i figli che affittavano ville megagalattiche in costa Smeralda e spendevano diecimila euro a sera a Cala di volpe e si sistemavano nei dintorni di Udine a villa Miotti di Tricesimo al modico canone di 13 mila euro al mese e spalancavano buchi clamorosi negli alberghi più di lusso lasciando detto al portiere «fatevi pagare dall’ambasciata». Fino ai capricci più assurdi, come l’ordinazione alla «Tesco Ts» di Torino, specializzata in fuoriserie, di un’auto disegnata da lui medesimo, Muammar, chiamata «The Rocket», il razzo. Grati di tanto onore, i costruttori descrissero i due prototipi con parole di ossequio e le lettere maiuscole al posto giusto: «Durante la realizzazione di questa macchina, l’équipe tecnica di Tesco TS ha seguito alla lettera le idee del designer, il Leader, per produrre la vettura perfetta secondo la sua visione». Perfetta in che senso? Una fuoriserie deve essere una fuoriserie. Non bastavano le leghe ultraleggere e i materiali avveniristici. Marmo: le rifiniture dovevano essere di marmo! Tutte cose che hanno contribuito, probabilmente, all’agghiacciante scempio compiuto ieri sul suo corpo. Una fine che, nella sua arroganza, il Colonnello aveva però messo nel conto. O almeno così pare a rileggere quelle parole scritte dal tiranno stesso nel racconto «Fuga all’inferno e altre storie» del 1990 edito in Italia da manifestoLibri: «Amo le masse e le temo, proprio come amo e temo il mio stesso padre. Nel momento della gioia, di quanta devozione sono capaci! E come abbracciano alcuni dei loro figli! Hanno sostenuto Annibale, Pericle, Savonarola, Danton, Robespierre, Mussolini, Nixon e quanta crudeltà hanno poi dimostrato nel momento dell’ira».
Gian Paolo Stella
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