sabato 15 ottobre 2011

LIBIA, 15 Ottobre


Sirte, tra i guerriglieri all'assalto degli ultimi irriducibili di Gheddafi

SIRTE — Per raccontare due giorni della battaglia per Sirte cominciamo dalla fine. E cioè da ieri sera, quando, scornate per l'ennesima volta dalla tenace resistenza offerta dalle milizie pro-Gheddafi, le unità della guerriglia rivoluzionaria si sono leggermente ritirate dalle posizioni conquistate durante la giornata e hanno spostato carri armati russi T-55 e T-75 assieme ai mortai pesanti per essere pronte nelle prossime ore a bombardare a tappeto i cosiddetti «quartieri uno e due», che sono le zone residenziali in prossimità del mare dove sono asserragliati gli ultimi irriducibili. Tutto questo per dire che ancora adesso la battaglia continua. Cento volte i leader militari legati al Consiglio nazionale transitorio (Cnt) hanno promesso nelle ultime settimane che la vittoria finale è «solo una questione di ore», ma cento volte si sono trovati a dover rilanciare la lotta. Ieri mattina oltretutto la giornata si era aperta con la notizia della cattura di Mutassim, il figlio di Gheddafi che più di ogni altro era stato identificato con il braccio di ferro per Sirte. Ma poi è stato via via evidente che si trattava dell'ennesima bufala.

Già arrivando a Sirte da Tripoli mercoledì mattina si sono presentati evidenti alcuni elementi che gettano pesanti ipoteche sulla Libia del futuro. In primo luogo, i ribelli-soldati hanno imparato poco da otto mesi di guerra. Qui tra le loro «Qatiba», le unità combattenti, ci sono tanti, troppi predoni, che sparano a casaccio, spesso colpiscono solo i loro commilitoni, ma rubano bene. «È la vendetta di Misurata contro Sirte», sosteneva allegro un corpulento e barbuto guerrigliero impegnato a distribuire panini ripieni di hummus e fagioli all'ultimo posto di blocco. Detto fatto: i guerriglieri entrano in città con i loro veicoli vuoti ed escono carichi di bottino. Televisioni, antenne paraboliche, vestiti, scarpe, persino auto e trattori. In prima linea non mettono piede, ma approfittano a piene mani. Non tutti. Però molti. Ieri pomeriggio abbiamo visto tra gli altri una decina di ragazzini in mimetica che stavano saccheggiando lo «Ouagadougou», il centro congressi voluto da Gheddafi con il meglio del marmo di Carrara e giganteschi lampadari di cristallo per la sede dell'Unione pan-africana. Gli appartamenti vengono svuotati palmo a palmo. Ciò che non può essere preso, viene distrutto. Non a caso tre giorni fa il presidente del Cnt, Mustafa Abdel Jalil, nella sua visita lampo, quando sembrava che la città fosse ormai del tutto presa, si era dilungato in un appello contro gli abusi sui prigionieri e contro i saccheggi. Elemento fondamentale è che finalmente la litoranea diventa percorribile. Di fatto da tre giorni la Libia non è più divisa in due. Per qualsiasi cittadino è ora possibile viaggiare con la propria auto da Bengasi a Tripoli (circa 1.300 chilometri) e viceversa. Lo stesso non si può ancora dire dell'entroterra. Il deserto resta pericoloso. Ci sono i tuareg pro-Gheddafi, ladri, zone non bonificate dalla guerriglia. Bani Walid, la roccaforte della tribù Warfallah legata alla dittatura, resta invitta. Sarà il cuore della prossima battaglia. La continuità territoriale è comunque assicurata. Nei prossimi giorni il Cnt dichiarerà la «vittoria» della Rivoluzione del 17 febbraio e l'inizio del processo politico democratico, che in otto mesi dovrebbe condurre alle libere elezioni.

Eppure i lealisti combattenti a Sirte gridano al Paese e al mondo che occorre attendere prima di vendere la pelle dell'orso. Quanti sono? «Non lo sappiamo con precisione. Un numero compreso tra 500 e 800», diceva ieri mattina Issa Wafa, comandante 42enne della «Qatiba Jawara», 300 uomini forgiati direttamente dai bombardamenti terribili su Misurata tra marzo e aprile. «Contro di loro le forze della rivoluzione hanno messo in campo 20.000 guerriglieri. Abbiamo armi e munizioni a volontà. Ma poche radio e dunque grandi difficoltà di coordinamento. Per fortuna c'è la Nato che ci garantisce copertura aerea e logistica», aggiunge. Sembra di vedere i filmati della primavera, ma con le parti in campo rovesciate. Allora erano i miliziani di Gheddafi, forti, arroganti e fiduciosi, a sparare a casaccio sui civili. I misuratini facevano la fame, tiravano con il contagocce per risparmiare munizioni, i loro ospedali erano in realtà cliniche di fortuna con poche medicine e costantemente sotto tiro. Oggi le condizioni dei combattenti filo-Gheddafi sono a dir poco terribili. Abbiamo visto quelli di loro feriti o prigionieri: in molti casi scheletri viventi, la pelle gialla, scavati dalla fame, stanchi da morire, ridotti a bere l'acqua piovana. Tanti sono originari del Ciad o della Mauritania, quasi tutti con passaporto libico. Ma ci sono anche arabi «bianchi», libici a tutti gli effetti. I 100 mila abitanti di Sirte sono in stragrande maggioranza legati al Colonnello a filo doppio. Qui sono le tribù dei Qadhafah e Magariha: da sempre il nocciolo duro del regime. «Gheddafi ci ha continuamente aiutato. Ha portato ricchezza alla nostra città. Perché dovremmo odiarlo?», dice una donna da un'auto di profughi diretta verso Tripoli.

Da un balcone al quarto piano di una palazzina presso l'ospedale Ibn Sina, nel cuore della città, seguiamo per diverse ore le fasi della battaglia. I gheddafiani sparano poco, usano con abbondanza i cecchini, sono soldati esperti, se non ci fosse stata la Nato avrebbero avuto la meglio molti mesi fa. La guerriglia rivoluzionaria attacca in modo confuso, caotico. La sua arma preferita restano le contraeree da 23 millimetri di fabbricazione russa montate sui pick up mimetizzati. Ovvio che tra i suoi ranghi c'è molto più senso strategico che nei mesi difficili degli scontri sul fronte orientale tra Bengasi e Ras Lanuf da febbraio a giugno. Resta l'entusiasmo di allora. Tra le unità si avverte la coesione e il senso di fratellanza dei veterani. Eppure imperano ancora improvvisazione, volontarismo e soprattutto il gravissimo pericolo del «fuoco amico». Non esistono statistiche, ma se fosse possibile studiare la casistica delle vittime, quasi certamente il numero di ribelli uccisi o feriti dai loro compagni sarebbe più alto di quelli colpiti dal nemico. Ieri in molti casi si sono sparate addosso le formazioni provenienti da Misurata e quelle di Bengasi. Andare in pattuglia con loro significa assistere in continuazione alle scene di scambi urlati tra diverse unità dello stesso campo per chiedere il cessate il fuoco immediato. «Ogni comandante di Qatiba in teoria possiede due radio: una per le conversazioni con gli altri comandanti e una per essere in contatto con i suoi soldati. Però non sempre funziona», ammette il responsabile del settore Ibn Sina. Dal balcone si vede una città devastata, ormai quasi del tutto vuota di abitanti, priva di acqua, telefoni ed elettricità dai primi di settembre, con le strade ingombre di immondizia e tre alte colonne di fumo nero che si alzano dalla zona di palazzi grigi dove stanno trincerati i lealisti. I combattimenti sono un susseguirsi di scoppi intensi, continui e fasi con poche raffiche, spari isolati. Con la notte diminuiscono. E una luna bianco intenso illumina impietosamente le distruzioni.



Lorenzo Cremonesi

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