Questo Blog si propone di dare risposta agli interrogativi e alle polemiche che più frequentemente hanno per oggetto la religione islamica e il Corano. Tale attività è particolarmente necessaria in Italia, data la totale disinformazione che gli italiani hanno sulla religione di un miliardo seicento milioni di musulmani in tutto il mondo.
mercoledì 30 novembre 2011
ELEZIONI EGIZIANE: ILLUSIONI OTTICHE,MIOPIA POLITICA O MALAFEDE?
Chi ripercorra i titoli apocalittici con i quali la stragrande maggioranza dei giornali e delle televisioni italiane hanno seguito i giorni precedenti le elezioni politiche in Egitto (le prime dopo 50 anni), sarà rimasto dal fatto che molto inferiore è stato lo spazio riservato all'eccezionale evento delle interminabili file di elettori egiziani, uomini e donne, vecchi e giovani, che si sono assiepate davanti ai seggi elettorali, sobbarcandosi ore e ore di paziente attesa, in un clima di serena allegria e di tranquilla consapevolezza: vedere donne anziane di 70-80 anni mostrare con fierezza il dito macchiato di inchiostro, come segno che per la prima volta nella loro vita avevano esercitato il democratico diritto di voto in piena libertà, è stata la rappresentazione più efficace di quale livello abbia la coscienza democratica del popolo egiziano.
Invece di esaltare tale spettacolo, gli pseudo democratici nostrani si sono posti inquietanti interrogativi su quale sarebbe potuto essere la sorte dei cristiani copti se, come tutto lasciava presagire, gli "islamici" avrebbero vinto le elezioni. Poi ogni clamore è finito e gli stessi mezzi di informazione che avevano parlato "ad abundantiam" di caos, massacri, minacce di golpe militari e altri cataclismi, sono stati colpiti da una totale paralisi espressiva. Il trafiletto che abbiamo appena profilato, pubblicato dal Corriere della Sera (ma La Repubblica ha omesso anche il minimo accenno all'evento), è il solo accenno all'esito delle elezioni: i Fratelli Musulmani (i cosiddetti islamici) e i loro alleati del partito "Nur", hanno riportato la maggioranza assoluta nel primo turno elettorale che si è svolto nelle grandi città. Quasi sicuramente quando si voterà nel resto del paese la maggioranza degli "islamici" sarà ancora più massiccia, perché durante le pluridecennali dittature che si sono succedute i Fratelli Musulmani, perseguitati, fuori legge, incarcerati e qualche volta impiccati, si dedicavano ad organizzare gratuitamente scuole, ambulatori, centri di distribuzione di viveri ai milioni di diseredati che vivevano nei villaggi.
Nel commentare la grande folla raccolta davanti ai seggi elettorali, un militante della Fratellanza Musulmana ha detto al cronista: "In Europa avete molto enfatizzato la gente che seguitava ad assieparsi a piazza Tahrir per dare l'impressione di un perdurante clima di guerra civile. Ma qui davanti ai seggi elettorali non c'è solo piazza Tahrir; c'è tutto l'Egitto!". Ci sembra perciò giusto correggere il titolo dell'articolo: non di illusione ottica si è trattato, ma di grave miopia politica e di radicata malafede.
martedì 29 novembre 2011
Egitto - 29 Novembre 2011
Egitto, in fila alle urne dopo il sangue i generali vincono la battaglia del voto
IL CAIRO. Il cronista impietoso è costretto a riconoscere che, ieri, in piazza Tahrir, l´epicentro della protesta, i sorrisi erano rari. Non c´era un´atmosfera di disfatta. Questo no. Una via di mezzo. Una dignità frustrata. Il trionfalismo sarebbe stato fuori luogo. La depressione eccessiva. Una battaglia perduta, quale è il successo del voto organizzato dai militari, non segna la fine di una rivoluzione destinata a durare. Il suo avvenire immediato da ieri si annuncia tuttavia più difficile. Meno luminoso. Il modesto numero degli irriducibili, contrari a una democrazia militare, presenti sulla piazza, roccaforte di una vera democrazia, era eloquente. Soltanto alcune centinaia di giovani scandivano slogan contro il maresciallo Tantawi, il capo della giunta dei generali, mentre centinaia di migliaia di egiziani facevano la coda davanti ai seggi elettorali presidiati da soldati e poliziotti, nella capitale, e ad Alessandria, a Porto Said, ad Assiut.
Insomma nelle sette province (su ventisette) chiamate a votare al turno iniziale, che riguarda quindici milioni di egiziani. Piazza Tahrir non era disertata ma, perlomeno in quelle ore, sembrava spenta. La partecipazione si è rivelata consistente, inattesa, e senza seri incidenti, già dalle prime ore. I seggi che dovevano restare aperti fino alle diciannove lo sono rimasti fino alle ventuno. Stasera, alla chiusura, avremo qualche cifra ufficiale cui affidarci. E diffidare. La manovra elettorale dei generali, destinata a durare sei mesi, ha debuttato bene. Poi si vedrà. Sono previste almeno altre quattordici consultazioni e le incognite sono numerose. Piazza Tahrir può riempirsi di nuovo, come è accaduto dopo le puntuali repressioni, con la partecipazione degli stessi cittadini che hanno fatto e fanno la coda davanti ai seggi. Amr Mussa, ex ministro degli Esteri e ed ex capo della Lega Araba, apprezzato dai giovani rivoluzionari, ha detto di avere votato per disciplina e ha aggiunto che questo non gli impedirà di andare in piazza Tahrir. Dunque il voto non esclude la rivoluzione; e ancor meno la rinuncia a chiedere la dimissione dei generali. Nonostante siano stati lanciati inviti individuali, non ci sono stati ordini perentori ad astenersi. Non si voleva privare gli egiziani di gustare la democrazia, anche se studiata nelle caserme; e al tempo stesso non si voleva correre il rischio di una disubbidienza di massa.
A questo punto va sottolineata la situazione un po´ paradossale. Il potere autoritario, incarnato dai militari, ha avuto la meglio sulle forze innovatrici usando lo strumento democratico del voto. Assomiglia a uno scippo. In fondo lo è. Quelle masse assiepate davanti alle urne hanno demoralizzato coloro che denunciavano e denunciano l´elezione programmata dai generali, ritenendo che sia destinata a soffocare, ad affogare l´insurrezione, e a garantire il potere "super costituzionale" dei militari. Non è un sospetto, non è un´accusa infondata. Il maresciallo Tantawi ha tenuto a precisarlo domenica, poco prima del voto: «La posizione delle forze armate rimarrà quella che è, e non può essere complicata da nessuna nuova Costituzione».
Bastava un´occhiata al vistoso, imponente spettacolo degli egiziani all´assalto delle urne per accorgersi che il rito del voto esercitava una forte attrazione dopo i mesi agitati della rivolta. Mesi esaltanti per la promessa di una democrazia e tormentati dalle sempre più severe difficoltà economiche. E´ crollato il numero dei turisti, essenziale risorsa per l´Egitto, e cresce a dismisura il numero dei disoccupati, in una società in cui almeno un terzo della popolazione vive a un livello di sussistenza. Ed è forte il timore di un disordine incontrollabile. Il primo voto dopo la cacciata di Hosni Mubarak, il vecchio raìs sacrificato dai suoi stessi generali, ha quasi scandito un´epoca, perché alcune libertà sono state nel frattempo conquistate. Senz´altro quella d´opinione, per la stampa e i partiti. Pur restando operante il fitto apparato poliziesco. Almeno dodicimila animatori della protesta sono in prigione.
In un quartiere popolare periferico i soldati hanno sparato per aria per frenare gli elettori che assaltavano un seggio, nel timore di non arrivare in tempo a votare. Era gente impaziente di esercitare un diritto democratico, con l´illusione che fosse infine rispettato? Oppure era un atto di obbedienza ai militari? Attraverso Facebook sono stati rivolti numerosi inviti a recarsi alle urne vestiti di nero, in segno di lutto per i quarantuno manifestanti di piazza Tahrir uccisi da soldati e poliziotti. Molti hanno ubbidito. Alcuni professionisti, medici e avvocati, hanno rivolto una secca domanda provocatoria ai giudici che controllavano le operazioni di voto: «Il mio suffragio equivale a una legittimazione del potere militare?». E con i telefoni cellulari hanno fotografato e registrato le risposte immagino imbarazzate dei giudici. O i loro silenzi. Quelle testimonianze saranno rese pubbliche in piazza Tahrir. Nell´attesa di entrare nei seggi si sono accese discussioni, e non sono mancati coloro che all´ultimo minuto hanno girato le spalle alle urne e se ne sono andati senza votare. Chi ha assistito alla recente elezione in Tunisia non ha notato la stessa aria di festa tra la gente che al Cairo si dirigeva in massa verso i seggi.
Nonostante la proibizione, molti militanti di partiti laici e religiosi distribuivano volantini all´ingresso dei seggi. Quelli del Partito Libertà e Giustizia, braccio politico della confraternita dei Fratelli Musulmani, erano i più organizzati. In quasi tutti i quartieri, armati di computer, guidavano gli elettori smarriti verso le scuole in cui dovevano votare. Aiutavano le persone anziane. Insegnavano come riempire le schede, abbastanza complicate, perché per i circa trentacinque partiti (due terzi) si vota alla proporzionale; e per i candidati individuali (un terzo) col sistema uninominale. I Fratelli musulmani sono i favoriti. Dovrebbero avere una robusta maggioranza relativa e per questo avrebbero rinunciato alle manifestazioni di protesta al fine di evitare che le elezioni fossero sospese o rinviate, e venisse cosi compromessa la loro vittoria. Molti giovani della confraternita hanno disubbidito e si sono schierati con i coetanei di piazza Tahrir, pur promettendo che avrebbero votato per Libertà e Giustizia, il loro partito.
Nelle code davanti ai seggi erano numerosi i partiti della "maggioranza silenziosa", tra i quali non mancano molti esponenti o nostalgici del regime di Mubarak, o coloro che si affidano ai militari, ritenuti i soli affidabili garanti dell´ordine. Ma c´erano anche molti "democratici illiberali", come vengono chiamati i laici che contano sull´esercito per contenere l´ondata islamica. Anche se i Fratelli musulmani, virtuali vincitori delle elezioni, si sono prodigati e si prodigano per dimostrare la loro moderazione e il rispetto della democrazia. Uno psicanalista, che si è ben guardato dal votare, formula una diagnosi: «E´ un´elezione senza legittimità, ma molti, pur essendone consapevoli, corrono alle urne perché sono convinti che l´esercito, per tradizione laico, fermerà l´avanzata dei religiosi».
Insomma nelle sette province (su ventisette) chiamate a votare al turno iniziale, che riguarda quindici milioni di egiziani. Piazza Tahrir non era disertata ma, perlomeno in quelle ore, sembrava spenta. La partecipazione si è rivelata consistente, inattesa, e senza seri incidenti, già dalle prime ore. I seggi che dovevano restare aperti fino alle diciannove lo sono rimasti fino alle ventuno. Stasera, alla chiusura, avremo qualche cifra ufficiale cui affidarci. E diffidare. La manovra elettorale dei generali, destinata a durare sei mesi, ha debuttato bene. Poi si vedrà. Sono previste almeno altre quattordici consultazioni e le incognite sono numerose. Piazza Tahrir può riempirsi di nuovo, come è accaduto dopo le puntuali repressioni, con la partecipazione degli stessi cittadini che hanno fatto e fanno la coda davanti ai seggi. Amr Mussa, ex ministro degli Esteri e ed ex capo della Lega Araba, apprezzato dai giovani rivoluzionari, ha detto di avere votato per disciplina e ha aggiunto che questo non gli impedirà di andare in piazza Tahrir. Dunque il voto non esclude la rivoluzione; e ancor meno la rinuncia a chiedere la dimissione dei generali. Nonostante siano stati lanciati inviti individuali, non ci sono stati ordini perentori ad astenersi. Non si voleva privare gli egiziani di gustare la democrazia, anche se studiata nelle caserme; e al tempo stesso non si voleva correre il rischio di una disubbidienza di massa.
A questo punto va sottolineata la situazione un po´ paradossale. Il potere autoritario, incarnato dai militari, ha avuto la meglio sulle forze innovatrici usando lo strumento democratico del voto. Assomiglia a uno scippo. In fondo lo è. Quelle masse assiepate davanti alle urne hanno demoralizzato coloro che denunciavano e denunciano l´elezione programmata dai generali, ritenendo che sia destinata a soffocare, ad affogare l´insurrezione, e a garantire il potere "super costituzionale" dei militari. Non è un sospetto, non è un´accusa infondata. Il maresciallo Tantawi ha tenuto a precisarlo domenica, poco prima del voto: «La posizione delle forze armate rimarrà quella che è, e non può essere complicata da nessuna nuova Costituzione».
Bastava un´occhiata al vistoso, imponente spettacolo degli egiziani all´assalto delle urne per accorgersi che il rito del voto esercitava una forte attrazione dopo i mesi agitati della rivolta. Mesi esaltanti per la promessa di una democrazia e tormentati dalle sempre più severe difficoltà economiche. E´ crollato il numero dei turisti, essenziale risorsa per l´Egitto, e cresce a dismisura il numero dei disoccupati, in una società in cui almeno un terzo della popolazione vive a un livello di sussistenza. Ed è forte il timore di un disordine incontrollabile. Il primo voto dopo la cacciata di Hosni Mubarak, il vecchio raìs sacrificato dai suoi stessi generali, ha quasi scandito un´epoca, perché alcune libertà sono state nel frattempo conquistate. Senz´altro quella d´opinione, per la stampa e i partiti. Pur restando operante il fitto apparato poliziesco. Almeno dodicimila animatori della protesta sono in prigione.
In un quartiere popolare periferico i soldati hanno sparato per aria per frenare gli elettori che assaltavano un seggio, nel timore di non arrivare in tempo a votare. Era gente impaziente di esercitare un diritto democratico, con l´illusione che fosse infine rispettato? Oppure era un atto di obbedienza ai militari? Attraverso Facebook sono stati rivolti numerosi inviti a recarsi alle urne vestiti di nero, in segno di lutto per i quarantuno manifestanti di piazza Tahrir uccisi da soldati e poliziotti. Molti hanno ubbidito. Alcuni professionisti, medici e avvocati, hanno rivolto una secca domanda provocatoria ai giudici che controllavano le operazioni di voto: «Il mio suffragio equivale a una legittimazione del potere militare?». E con i telefoni cellulari hanno fotografato e registrato le risposte immagino imbarazzate dei giudici. O i loro silenzi. Quelle testimonianze saranno rese pubbliche in piazza Tahrir. Nell´attesa di entrare nei seggi si sono accese discussioni, e non sono mancati coloro che all´ultimo minuto hanno girato le spalle alle urne e se ne sono andati senza votare. Chi ha assistito alla recente elezione in Tunisia non ha notato la stessa aria di festa tra la gente che al Cairo si dirigeva in massa verso i seggi.
Nonostante la proibizione, molti militanti di partiti laici e religiosi distribuivano volantini all´ingresso dei seggi. Quelli del Partito Libertà e Giustizia, braccio politico della confraternita dei Fratelli Musulmani, erano i più organizzati. In quasi tutti i quartieri, armati di computer, guidavano gli elettori smarriti verso le scuole in cui dovevano votare. Aiutavano le persone anziane. Insegnavano come riempire le schede, abbastanza complicate, perché per i circa trentacinque partiti (due terzi) si vota alla proporzionale; e per i candidati individuali (un terzo) col sistema uninominale. I Fratelli musulmani sono i favoriti. Dovrebbero avere una robusta maggioranza relativa e per questo avrebbero rinunciato alle manifestazioni di protesta al fine di evitare che le elezioni fossero sospese o rinviate, e venisse cosi compromessa la loro vittoria. Molti giovani della confraternita hanno disubbidito e si sono schierati con i coetanei di piazza Tahrir, pur promettendo che avrebbero votato per Libertà e Giustizia, il loro partito.
Nelle code davanti ai seggi erano numerosi i partiti della "maggioranza silenziosa", tra i quali non mancano molti esponenti o nostalgici del regime di Mubarak, o coloro che si affidano ai militari, ritenuti i soli affidabili garanti dell´ordine. Ma c´erano anche molti "democratici illiberali", come vengono chiamati i laici che contano sull´esercito per contenere l´ondata islamica. Anche se i Fratelli musulmani, virtuali vincitori delle elezioni, si sono prodigati e si prodigano per dimostrare la loro moderazione e il rispetto della democrazia. Uno psicanalista, che si è ben guardato dal votare, formula una diagnosi: «E´ un´elezione senza legittimità, ma molti, pur essendone consapevoli, corrono alle urne perché sono convinti che l´esercito, per tradizione laico, fermerà l´avanzata dei religiosi».
Bernardo Valli
Egitto, i rgazzi e i generali
Oggi l´Egitto va alle urne per la prima volta dalla caduta di Mubarak: sarà una maratona elettorale di sei mesi e i ragazzi della rivolta temono la truffa dei militari. La posta in gioco è alta, il futuro della democrazia: così i giovani cercheranno di non far morire la rivoluzione In duecento giorni ci saranno quindici o più appuntamenti al voto. Troppi per l´elettorato Gli oppositori disposti a credere nell´elezione promossa dal regime sono pochi Per la maggioranza silenziosa i generali sono la spina dorsale della nazione IL CAIRO. Più che un voto è una maratona. Una marcia di resistenza destinata a durare più di sei mesi. Ci vorrà un bel fiato politico per arrivare a un risultato, a un traguardo democratico che non si riveli un miraggio. Ma questo voto egiziano, il cui svolgimento si annuncia impervio prima ancora dell´esito, deve essere seguito come la tappa di un lungo processo rivoluzionario. È un importante momento dell´irrisolto confronto tra le forze del rinnovamento e quelle della conservazione. La rivolta di gennaio non si è conclusa con l´avvenuta esautorazione del rais; se è riesplosa dieci mesi dopo è perché la posta in gioco è più profonda: è storica e culturale. Il vecchio regime, il sistema politico e sociale in vigore resiste agli assalti della rivoluzione. E le rivoluzioni hanno tragitti lunghi. È in questa prospettiva che va seguita la maratona elettorale che comincia stamane nel più grande paese arabo.
La conclusione è prevista in un ancora imprecisato giorno di giugno: quando, formatisi i due rami del parlamento, eletti separatamente, a distanza di due mesi, e ognuno in tre tempi (nove province per volta su ventisette), gli egiziani sceglieranno infine un presidente. Contando i ballottaggi e un paio di referendum, per approvare la Costituzione e forse per decidere sul potere dei militari, nell´arco di circa duecento giorni, ci saranno quindici o più appuntamenti elettorali.
Troppi, anche per un elettorato paziente come quello egiziano. Il voto è simultaneo alla rivoluzione di piazza Tahrir. Questa è la sua peculiarità. Quello di oggi riguarda la camera bassa, l´Assemblea del popolo, ed è limitato alle grandi città: il Cairo, Alessandria, Assiut, Porto Said. Le altre province andranno alle urne fino ai primi giorni di gennaio. La camera alta (Shura) sarà eletta tra gli ultimi giorni di gennaio e i primi di marzo. Poi ci saranno i referendum e l´elezione presidenziale. Alla vigilia del primo voto vado in piazza Tahrir, epicentro della rivoluzione. Alcune migliaia di cairoti assiepati danno l´impressione di un accampamento ancora insonnolito. Il sole non è abbastanza alto per riscaldare le sponde del Nilo. La piazza non si presenta come l´arena rivoluzionaria che ha messo in crisi un regime militare, cacciato un rais e gettato il panico tra monarchi ed emiri del mondo arabo. Una piazza dove sono stati uccisi negli ultimi giorni quarantun giovani e feriti almeno un migliaio. E dove hanno perduto la vista decine di manifestanti investiti dai gas nervini.
L´aria di smobilitazione non deve ingannare. La folla riempie la piazza, fino a traboccare nei quartieri vicini, a investire i palazzi del governo e a paralizzare il Lungonilo, nei momenti di tensione. Lo stesso accade ad Alessandria, a Porto Said, ad Assiut. Gli irriducibili di piazza Tahrir in quelle occasioni attirano masse di egiziani di tutte le classi sociali: dagli operai ai professionisti, dagli studenti ai disoccupati. Di primo mattino, in un giorno che non sembra riservare sorprese, senza collera e repressione, a poche ore dal voto, ho l´impressione di essere in una numerosa adunata di anarchici sobri e taciturni. Niente simboli di partito, niente ritratti di leader, niente palchi per gli eventuali oratori.
I giovani disposti a credere nell´elezione ininterrotta promossa dai generali sono pochi. Molti la giudicano una trappola, una specie di terapia di massa tesa a sfiancare la rivolta e a riportare l´ordine nel paese grazie alla guida dei militari. Dopo una notte passata in un sacco a pelo, Wael Abu Hamad, 25 anni, dei quali tre in Inghilterra a studiare economia, dice senza esitare: «È una truffa». Un imbroglio ben programmato perché, anche per la sua durata, l´elezione sarà facilmente truccata. E i generali cercheranno di dimostrare al mondo che loro sono capaci di organizzare libere elezioni. Lui, Wael, pur essendo indignato, pur denunciando la manovra subdola dei militari, andrà comunque a votare. Ma poi ritornerà in piazza Tahrir per mantenere accesa «la fiamma della rivoluzione». E con gli irriducibili denuncerà gli imbrogli e promuoverà manifestazioni che smaschereranno il regime.
Ci si perde volentieri tra gli abitanti del grande accampamento di piazza Tahrir. Si esprimono con chiarezza e i loro discorsi sono maturati rispetto a quelli di gennaio. Dieci mesi dopo non si limitano ad esigere che i militari abbandonino il potere. La loro protesta implica una profonda riforma del sistema politico e sociale. Gli obiettivi immediati sono la destituzione del maresciallo Tantawi, ex braccio destro di Hosni Mubarak e adesso capo della giunta militare (il Consiglio superiore delle Forze armate), e il rifiuto del primo ministro da lui designato, il vecchio economista Kamal el Ganzuri, ex capo del governo pure lui di Mubarak. Ma c´è anche l´obiettivo più ampio di riformare la società dominata dalla classe militare, una casta formatasi nei decenni, che invade tutte le attività più importanti della vita nazionale: dall´economia all´industria alla stessa giustizia, affidata in larga parte ai suoi tribunali.
I militari hanno destituito in febbraio il loro capo, Hosni Mubarak, adesso imputato, con i figli e una manciata di complici civili, in un processo che sembra impantanato, ma è come se avessero gettato fuori bordo una zavorra, pensando di poter cosi salvare l´essenziale del regime. Vale a dire se stessi. Raccolti nel Consiglio supremo delle Forze armate, composto da una ventina di generali, si sono sostituiti al capo dello Stato. Una specie di presidenza collettiva, contestata, vilipesa, e tuttavia dotata di tutti gli strumenti di un regime autoritario: i mukabarat, i poliziotti (numerosi come gli scarafaggi, dice il giovane Wael di piazza Tahrir), continuano a tenere sotto sorveglianza il paese, come un tempo.
I generali reprimono e poi si scusano. Annunciano che si ritireranno dal potere politico ma chiedono garanzie per conservare i loro privilegi, anche quelli politici. E hanno programmato la maratona elettorale, destinata a rinnovare le istituzioni e la stessa Costituzione, ma non hanno nascosto l´intenzione di collocarsi al di sopra della Costituzione (suggerendo che il paese approvi questo singolare privilegio con un referendum). Hanno altresì chiesto che il loro bilancio rimanga segreto. Quest´ultima esigenza sarebbe giustificata dal ruolo decisivo che le forze armate egiziane hanno in Medio Oriente. Esse sono garanti degli accordi di Camp David (1979), su cui si basano i rapporti tra Egitto e Israele, e di riflesso quelli con gli Stati Uniti. I quali danno ogni anno un miliardo e trecento milioni di dollari all´esercito del Cairo. Un aiuto secondo soltanto a quello elargito all´esercito israeliano. Il recente richiamo della Casa Bianca, che ha invitato con toni asciutti i militari egiziani a trasferire i poteri ai civili, deve avere preoccupato i generali. Anche se essi sanno di essere interlocutori indispensabili alla super potenza, per quel che riguarda la pace mediorientale.
Per la maggioranza silenziosa egiziana i militari sono la spina dorsale del paese. La loro forza risiede in quella larga parte della popolazione. I rivoluzionari di piazza Tahrir raccolgono l´adesione della società civile, di una qualificata parte della popolazione urbana, ma l´Egitto rurale, prigioniero delle tradizioni e dei richiami religiosi, non ha le stesse reazioni. La principale formazione politica, il Partito della Libertà e della Giustizia, emanazione della Confraternita dei Fratelli Musulmani, dopo avere partecipato alle grandi manifestazioni di protesta di piazza Tahrir, ha assunto una posizione molto più moderata, e in definitiva tollerante se non sottomessa, nei confronti dei militari. Sui quali conta per far rispettare l´inevitabile successo elettorale dei Fratelli musulmani.
L´"alleanza per la continuità della rivoluzione", in cui sono raccolti i partiti di sinistra e i musulmani progressisti, oltre a non pochi cristiani copti, rifiuta il confronto tra laici e musulmani che ha prevalso nella campagna elettorale degli altri partiti, e pone soprattutto il problema della giustizia sociale e del potere dei militari. Ma pur essendo uno dei motori della protesta, può difficilmente concorrere con i Fratelli Musulmani e con la maggioranza silenziosa, in cui sono annidati anche i partiti nostalgici di Mubarak. La maratona elettorale è quindi al tempo stesso un essenziale esercizio democratico e un´abile operazione dei militari. In essa possono infatti dissolversi, sia pur per breve tempo, le forze rivoluzionarie di piazza Tahrir.
La conclusione è prevista in un ancora imprecisato giorno di giugno: quando, formatisi i due rami del parlamento, eletti separatamente, a distanza di due mesi, e ognuno in tre tempi (nove province per volta su ventisette), gli egiziani sceglieranno infine un presidente. Contando i ballottaggi e un paio di referendum, per approvare la Costituzione e forse per decidere sul potere dei militari, nell´arco di circa duecento giorni, ci saranno quindici o più appuntamenti elettorali.
Troppi, anche per un elettorato paziente come quello egiziano. Il voto è simultaneo alla rivoluzione di piazza Tahrir. Questa è la sua peculiarità. Quello di oggi riguarda la camera bassa, l´Assemblea del popolo, ed è limitato alle grandi città: il Cairo, Alessandria, Assiut, Porto Said. Le altre province andranno alle urne fino ai primi giorni di gennaio. La camera alta (Shura) sarà eletta tra gli ultimi giorni di gennaio e i primi di marzo. Poi ci saranno i referendum e l´elezione presidenziale. Alla vigilia del primo voto vado in piazza Tahrir, epicentro della rivoluzione. Alcune migliaia di cairoti assiepati danno l´impressione di un accampamento ancora insonnolito. Il sole non è abbastanza alto per riscaldare le sponde del Nilo. La piazza non si presenta come l´arena rivoluzionaria che ha messo in crisi un regime militare, cacciato un rais e gettato il panico tra monarchi ed emiri del mondo arabo. Una piazza dove sono stati uccisi negli ultimi giorni quarantun giovani e feriti almeno un migliaio. E dove hanno perduto la vista decine di manifestanti investiti dai gas nervini.
L´aria di smobilitazione non deve ingannare. La folla riempie la piazza, fino a traboccare nei quartieri vicini, a investire i palazzi del governo e a paralizzare il Lungonilo, nei momenti di tensione. Lo stesso accade ad Alessandria, a Porto Said, ad Assiut. Gli irriducibili di piazza Tahrir in quelle occasioni attirano masse di egiziani di tutte le classi sociali: dagli operai ai professionisti, dagli studenti ai disoccupati. Di primo mattino, in un giorno che non sembra riservare sorprese, senza collera e repressione, a poche ore dal voto, ho l´impressione di essere in una numerosa adunata di anarchici sobri e taciturni. Niente simboli di partito, niente ritratti di leader, niente palchi per gli eventuali oratori.
I giovani disposti a credere nell´elezione ininterrotta promossa dai generali sono pochi. Molti la giudicano una trappola, una specie di terapia di massa tesa a sfiancare la rivolta e a riportare l´ordine nel paese grazie alla guida dei militari. Dopo una notte passata in un sacco a pelo, Wael Abu Hamad, 25 anni, dei quali tre in Inghilterra a studiare economia, dice senza esitare: «È una truffa». Un imbroglio ben programmato perché, anche per la sua durata, l´elezione sarà facilmente truccata. E i generali cercheranno di dimostrare al mondo che loro sono capaci di organizzare libere elezioni. Lui, Wael, pur essendo indignato, pur denunciando la manovra subdola dei militari, andrà comunque a votare. Ma poi ritornerà in piazza Tahrir per mantenere accesa «la fiamma della rivoluzione». E con gli irriducibili denuncerà gli imbrogli e promuoverà manifestazioni che smaschereranno il regime.
Ci si perde volentieri tra gli abitanti del grande accampamento di piazza Tahrir. Si esprimono con chiarezza e i loro discorsi sono maturati rispetto a quelli di gennaio. Dieci mesi dopo non si limitano ad esigere che i militari abbandonino il potere. La loro protesta implica una profonda riforma del sistema politico e sociale. Gli obiettivi immediati sono la destituzione del maresciallo Tantawi, ex braccio destro di Hosni Mubarak e adesso capo della giunta militare (il Consiglio superiore delle Forze armate), e il rifiuto del primo ministro da lui designato, il vecchio economista Kamal el Ganzuri, ex capo del governo pure lui di Mubarak. Ma c´è anche l´obiettivo più ampio di riformare la società dominata dalla classe militare, una casta formatasi nei decenni, che invade tutte le attività più importanti della vita nazionale: dall´economia all´industria alla stessa giustizia, affidata in larga parte ai suoi tribunali.
I militari hanno destituito in febbraio il loro capo, Hosni Mubarak, adesso imputato, con i figli e una manciata di complici civili, in un processo che sembra impantanato, ma è come se avessero gettato fuori bordo una zavorra, pensando di poter cosi salvare l´essenziale del regime. Vale a dire se stessi. Raccolti nel Consiglio supremo delle Forze armate, composto da una ventina di generali, si sono sostituiti al capo dello Stato. Una specie di presidenza collettiva, contestata, vilipesa, e tuttavia dotata di tutti gli strumenti di un regime autoritario: i mukabarat, i poliziotti (numerosi come gli scarafaggi, dice il giovane Wael di piazza Tahrir), continuano a tenere sotto sorveglianza il paese, come un tempo.
I generali reprimono e poi si scusano. Annunciano che si ritireranno dal potere politico ma chiedono garanzie per conservare i loro privilegi, anche quelli politici. E hanno programmato la maratona elettorale, destinata a rinnovare le istituzioni e la stessa Costituzione, ma non hanno nascosto l´intenzione di collocarsi al di sopra della Costituzione (suggerendo che il paese approvi questo singolare privilegio con un referendum). Hanno altresì chiesto che il loro bilancio rimanga segreto. Quest´ultima esigenza sarebbe giustificata dal ruolo decisivo che le forze armate egiziane hanno in Medio Oriente. Esse sono garanti degli accordi di Camp David (1979), su cui si basano i rapporti tra Egitto e Israele, e di riflesso quelli con gli Stati Uniti. I quali danno ogni anno un miliardo e trecento milioni di dollari all´esercito del Cairo. Un aiuto secondo soltanto a quello elargito all´esercito israeliano. Il recente richiamo della Casa Bianca, che ha invitato con toni asciutti i militari egiziani a trasferire i poteri ai civili, deve avere preoccupato i generali. Anche se essi sanno di essere interlocutori indispensabili alla super potenza, per quel che riguarda la pace mediorientale.
Per la maggioranza silenziosa egiziana i militari sono la spina dorsale del paese. La loro forza risiede in quella larga parte della popolazione. I rivoluzionari di piazza Tahrir raccolgono l´adesione della società civile, di una qualificata parte della popolazione urbana, ma l´Egitto rurale, prigioniero delle tradizioni e dei richiami religiosi, non ha le stesse reazioni. La principale formazione politica, il Partito della Libertà e della Giustizia, emanazione della Confraternita dei Fratelli Musulmani, dopo avere partecipato alle grandi manifestazioni di protesta di piazza Tahrir, ha assunto una posizione molto più moderata, e in definitiva tollerante se non sottomessa, nei confronti dei militari. Sui quali conta per far rispettare l´inevitabile successo elettorale dei Fratelli musulmani.
L´"alleanza per la continuità della rivoluzione", in cui sono raccolti i partiti di sinistra e i musulmani progressisti, oltre a non pochi cristiani copti, rifiuta il confronto tra laici e musulmani che ha prevalso nella campagna elettorale degli altri partiti, e pone soprattutto il problema della giustizia sociale e del potere dei militari. Ma pur essendo uno dei motori della protesta, può difficilmente concorrere con i Fratelli Musulmani e con la maggioranza silenziosa, in cui sono annidati anche i partiti nostalgici di Mubarak. La maratona elettorale è quindi al tempo stesso un essenziale esercizio democratico e un´abile operazione dei militari. In essa possono infatti dissolversi, sia pur per breve tempo, le forze rivoluzionarie di piazza Tahrir.
Bernardo Valli
sabato 26 novembre 2011
MOLTI GIORNALI ITALIANI FANNO IL TIFO...
Le vicende dei paesi arabi, con i loro lutti e in qualche caso con il loro seguito di crisi economica e sociale, non sono partite di calcio da seguire con la faziosità dei tifosi di una squadra, ma vicende complesse e, almeno fino a quando non saranno positivamente concluse, vicende intrecciate con la tragedia quotidiana.
I - Non essendo avvenimenti sportivi non è possibile seguirle con la fretta che si può riservare a una partita di pallavolo o di pallacanestro. Gli eventi rivoluzionari e i sommovimenti sociali della storia europea, anche i più recenti, hanno spesso avuto durata pluridecennale; quasi sempre hanno conosciuto un momento "esplosivo" seguito da un alternarsi di repressioni, di incertezze e di riprese. Pretendere che un processo rivoluzionario che coinvolge paesi che contano 350 milioni di abitanti, che hanno situazioni economico-sociali estremamente diversificate, salvo la comune sorte di essere usciti da lunghi periodi di dominazione coloniale e di dittature più o meno feroci, è una manifestazione di malafede e di superficialità che ha nel suo sfondo una forma di latente razzismo e di meno latente anti-islamismo. Il fatto che i processi rivoluzionari si siano avviati contemporaneamente in tutta la sponda sud del Mediterraneo, dall'Egitto al Marocco e nel Medio Oriente dalla Siria allo Yemen è già qualcosa di stupefacente. Del pari stupefacente è l'eroismo con cui grandiose masse di giovani, di donne, di gente di ogni condizione e di età abbia saputo affrontare corpi militari e sistemi polizieschi armati fino ai denti e al servizio di tiranni spietati e senza scrupoli, quasi sempre a mani nude, uscendo dai venerdì di preghiera e avendo per scudo il grido: "Allahu Akbar!". Quest'ultimo elemento serve a ridicolizzare le versioni di quei pubblicisti i quali, nella quasi maggioranza delle loro corrispondenze, seguitano a sforzarsi di dimostrare che l'elemento propulsivo della primavera araba non sono stati i telefonini, le reti informatiche e gli altri strumenti moderni della comunicazione di massa (questi semmai sono stati uno degli strumenti), ma il profondo senso religioso che pervade i popoli del Corano. Eppure c'è stata una sorta di gara per dimostrare che l'Islam ha influito solo su gruppi più o meno fanatizzati di "islamisti";
II - Particolarmente grottesca è stata la versione fornita dell'ultima fiammata egiziana, iniziata con la mobilitazione massiccia operata da quei partiti e da quelle forze politiche potenzialmente maggioritarie che temevano con fondamento che elementi provocatori potessero provocare il rinvio delle prossime elezioni. Chi legga con attenzione alcuni degli articoli che abbiamo pubblicato si renderà conto facilmente della faziosità spesse volte stupida che gli ha ispirati. Patetico è ad esempio il tentativo di spacciare Muhammad Al Baredei come il vero leader della rivoluzione egiziana. In realtà questo "illustre" personaggio, premio Nobel per la Pace per i meritori sforzi profusi nell'impedire che fosse dato agli Stati Uniti il pretesto di intervenire militarmente contro l'Iran accusato di mire atomiche, è molto noto in occidente, che ha avuto modo di seguirne i lavori svolti nella commissione ONU sull'energia atomica e di apprezzare la serietà professionale e l'obbiettività; ma agli occhi della stragrande maggioranza degli egiziani, Al Baradei, è poco meno di uno sconosciuto, e il suo seguito elettorale è accreditato tra il 2 e il 5%;
III - Che piaccia o no in Egitto la forza politica egemone candidata a prevalere in una competizione elettorale che rispetti un minimo di regole democratiche è costituita dalla Fratellanza Musulmana, ben conosciuta dalle masse diseredate di quel grande paese che hanno avuto modo di apprezzarne la rete di beneficenza e di assistenza con la quale i Fratelli, rischiando la galera o peggio, hanno saputo tenere in piedi per decenni e per allentare lo stato endemico di crisi socio-economica provocato dalle ruberie dei dittatori.
L'ultima notazione vogliamo farla a proposito del Marocco: l'occidente ha tifato con patto per il re Muhammad VI, che a differenza di tiranni ottusi, ha avuto il merito di avviare in maniera pacifica un sia pur minimo, timido processo di riforma costituzionale, al cui interno si prevedono libere elezioni. Ma non si illudano gli anti-islamici di casa nostra: anche in Marocco il partito islamico che riprende i valori sociali della Fratellanza vincerà la prossima competizione elettorale; e allora vedrete i giornalisti di casa nostra fare a gara nel cercare di dimostrare che tale esito è dovuto all'alto tasso di astensionismo che si verificherà nelle elezioni marocchine.
giovedì 24 novembre 2011
mercoledì 23 novembre 2011
EGITTO - 23/11/2011
Ho pubblicato, senza commenti, numerosi articoli relativi alle più recenti vicende egiziane come saggio della difficoltà che i mezzi d'informazione italiani, anche quelli che sembrano essere i più obbiettivi, creano quando si voglia avere un quadro minimamente chiaro di ciò che accade veramente. Non ci riferiamo qui a tute le espressioni che vogliono creare l'effetto "caos" in relazione alle cosiddette rivoluzioni arabe (non sono mancati titoli del genere: "L'inferno Egiziano"), quanto invece all'effetto distorsivo della tendenza occidentale a "parlare degli arabi senza parlare con gli arabi": le vicende degli arabi, come in genere quelle dei musulmani, non vanno raccontate per come avvengono, ma per come vengono interpretate.
Un esempio difficilmente imitabile è stata la puntata dell'Infedele, dedicata alla Siria e all'Egitto: Gad Lerner, in genere, occupa con le sue verbose considerazioni e con le sue interruzioni che a volte superano i confini della buona educazione, ha in questa occasione superato ogni limite, relegando in angusti spazi i discorsi che in vano i suoi ospiti siriani ed egiziani tentavano di abbozzare. L'interruzione diventava inesorabile quando l'interlocutore cercava di accennare ai "Fratelli Musulmani". Singolare è stato l'originalissimo tentativo con il quale l'ineffabile Gad ha cercato di guadagnare tempo presentando il caso della giovane egiziana residente negli Stati Uniti che si è presentata nuda e in calze nere per sostenere la causa della pace universale e della libertà: Lerner ci ha raccontato che per solidarietà con la giovane, che con le rivolte arabe centrava come i cavoli a merenda, 40 donne israeliane si sono presentate alla televisione di Tel Avivi completamente nude.
Ci pare perciò necessario fissare dei punti fermi che servono a fare chiarezza su ciò che è effettivamente avvenuto in Egitto negli ultimi 5 giorni:
I - Sono stati i Fratelli Musulmani che venerdì scorso hanno dato il via alla nuova massiccia ondata di proteste in piazza Tahrir. Migliaia di aderenti alla fratellanza islamica e di militanti del movimento di libertà e giustizia, che raccoglie i fratelli più giovani e meno disposti a compromessi, hanno marciato sulla piazza contro il tentativo dei militari di garantirsi enormi poteri nella futura carta costituzionale e nei prossimi parlamento e governo. Il motivo della mobilitazione è stato quello di impedire il minacciato rinvio delle elezioni che avranno luogo a partire dal 28 Novembre. I Fratelli Musulmani hanno egemonizzato la rivolta anche il successivo Sabato e la Domenica; mille groppuscoli più o meno rappresentativi, si sono poi aggiunti e mescolati a quella che era ormai diventata la marcia del milione e le hanno conferito un carattere sempre più violento, nel tentativo di provocare essi un rinvio delle elezioni da parte della giunta militare.
II - A questo punto i Fratelli Musulmani si sono ritirati dalla manifestazione abbandonando la piazza anche perché la giunta militare ha dichiarato di confermare le elezioni legislative e ha anzi annunciato che le elezioni presidenziali avranno luogo entro fine Giugno 2012;
III - Gli analisti più obbiettivi hanno osservato che la decisione di prendere le distanze dal generico movimento di protesta è la prova che i Fratelli Musulmani sanno di potere uscire vincitori dalle elezioni previste per la prossima settimana. La rinuncia di forzare la mano alla giunta nel timore che il voto ad essi favorevole venga annullato, è stata così dettata dal fermo proposito di far svolgere le elezioni. Che i Fratelli Musulmani siano fortemente radicati nel paese e organizzati al meglio è un dato che non può essere messo in dubbio: per decenni essi sono stati l'unica vera forza di opposizione al regime, perseguitati e vietati come partito, chiusi in galera o nei campi di concentramento insieme con i comunisti, sono tuttavia riusciti a mandare in parlamento molti deputati etichettati come "indipendenti". La Fratellanza, inoltre è stata sempre attivissima nel campo sociale, dagli ospedali alla previdenza sociale, dall'assistenza ai poveri alla difesa in giudizio dei lavoratori. I Fratelli, inoltre, sono percepiti a ragione fra i pochi politici non afflitti dalla malattia nazionale della corruzione. I pochi sondaggi elettorali che circolano danno ai Fratelli una vittoria massiccia di circa il 38% dei voti, cui va aggiunto il 12% accreditato al movimento "Libertà e Giustizia", che dice di ispirarsi ai principi del partito turco di Erdogan.
A contestare l'esposta ricostruzione sono rimasti i partiti "laici e filo-occidentali" che, ovviamente vedono come il fumo agli occhi la possibilità che l'Egitto possa essere governato democraticamente da un movimento che si definisce "Musulmano". Secondo questi campioni della democrazia occidentale, un paese arabo, per essere autenticamente democratico, dovrebbe dichiarare di non essere musulmano e soprattutto dovrebbe manifestare benevoli sentimenti di amicizia nei confronti di Israele.
Costoro assomigliano a quanti nel nostro paese pretendono che gli stranieri di religione islamica residenti in Italia accettino una piena integrazione: naturalmente facendosi battezzare in una chiesa cattolica.
lunedì 21 novembre 2011
Quella "democrazia controllata" che ha tradito l´ultima rivolta
LA VIOLENTA repressione di Piazza Tahrir, che segue arresti e processi davanti ai Tribunali militari di migliaia di civili, molti dei quali attivisti del movimento che ha fatto cadere Mubarak come Alaa Abdel Fattah, rompe definitivamente la difficile tregua tra i militari e quanti negano legittimità al potere con le stellette.
Un potere accusato di rappresentare la continuità con il regime di Mubarak. In discussione è, infatti, la decisione dei militari di ritagliarsi uno spazio rilevante nel futuro Egitto. Qualunque siano i nuovi equilibri politici e tanto più se a vincere saranno i partiti islamisti. Le Forze armate hanno raggiunto in questi mesi un accordo interno sull´ipotesi Bastawisi, il vice presidente della Corte di Cassazione, la suprema magistratura egiziana, che l´ha ispirata con un suo documento. In quello schema ai militari competerebbe non solo la difesa del territorio nazionale ma anche la protezione attiva dell´ordine costituzionale. Dunque, saranno le stellette a decidere, in qualità di garanti di ultima istanza, se gli sviluppi politici saranno o meno in linea con i principi costituzionali. Con tutte le conseguenze del caso.
La prospettiva di una democrazia controllata ha generato il rifiuto dei maggiori partiti, compresi quelli di ispirazione Fratelli Musulmani, che pure per un certo periodo hanno cogestito con i militari la transizione. Rifiuto poi sfociato nella protesta dei giorni scorsi, che aveva come slogan "proteggere la democrazia e trasferire il potere". Opposizione che ha indotto il Consiglio Militare Supremo a puntare su un´ipotesi meno invasiva ma che, nella proposta costituzionale che ne è seguita, ha tenuto il punto sull´autonomia delle Forze Armate nelle vicende interne e in materia di bilancio. Nella proposta Bastawisi, infatti, il budget delle Forze Armate è di competenza non dal Parlamento ma del Consiglio Nazionale di Difesa - organo formato, tra gli altri, dal Presidente della Repubblica, dal comandante il capo e dal capo di stato maggiore delle forze armate - che avrebbe la supervisione delle questioni riguardanti la sicurezza nazionale. Un´autonomia che permetterebbe anche la tutela degli ingenti interessi economici derivanti dal controllo del conglomerato militare-industriale che produce sia beni militari che a uso civile, oltre che servizi. Attività, dai cospicui introiti, che coinvolge circa un quarto dell´economia egiziana; e che, unita al controllo del monopolio della forza e all´influenza nei media, rende pervasivo il potere degli uomini in divisa.
Un ruolo, quello delle Forze Armate, che si ispira al "modello turco". Più che quello attuale - nel quale i militari convivono con un governo democraticamente eletto di orientamento islamista come quello guidato dall´Akp di Erdogan, mantenendo la possibilità di far sentire il proprio peso su questioni di rilevante interesse - quello degli anni ‘80, sfociato nella prova di forza contro il Refah di Erbakan.
Gli scontri di piazza Tahrir, che hanno indotto alle dimissioni il ministro della Cultura Ghazi e provocato l´arresto all´unica donna candidata alle presidenziali Butaina Kamel, potrebbero mandare in soffitta la ventilata possibilità che i militari ritirino l´articolo che ne fa i garanti dell´ordine costituzionale e modifichino quelli sulla separatezza gerarchica ed economica delle Forze Armate e sui compiti del Consiglio Nazionale di Difesa. Saranno gli eventi in corso in queste convulse ore, così come le imminenti elezioni confermate dal Consiglio Supremo per il 28 novembre, a decidere i rapporti di forza tra civili e stellette in riva al Nilo e le stesse sorti della "Primavera araba".
Un potere accusato di rappresentare la continuità con il regime di Mubarak. In discussione è, infatti, la decisione dei militari di ritagliarsi uno spazio rilevante nel futuro Egitto. Qualunque siano i nuovi equilibri politici e tanto più se a vincere saranno i partiti islamisti. Le Forze armate hanno raggiunto in questi mesi un accordo interno sull´ipotesi Bastawisi, il vice presidente della Corte di Cassazione, la suprema magistratura egiziana, che l´ha ispirata con un suo documento. In quello schema ai militari competerebbe non solo la difesa del territorio nazionale ma anche la protezione attiva dell´ordine costituzionale. Dunque, saranno le stellette a decidere, in qualità di garanti di ultima istanza, se gli sviluppi politici saranno o meno in linea con i principi costituzionali. Con tutte le conseguenze del caso.
La prospettiva di una democrazia controllata ha generato il rifiuto dei maggiori partiti, compresi quelli di ispirazione Fratelli Musulmani, che pure per un certo periodo hanno cogestito con i militari la transizione. Rifiuto poi sfociato nella protesta dei giorni scorsi, che aveva come slogan "proteggere la democrazia e trasferire il potere". Opposizione che ha indotto il Consiglio Militare Supremo a puntare su un´ipotesi meno invasiva ma che, nella proposta costituzionale che ne è seguita, ha tenuto il punto sull´autonomia delle Forze Armate nelle vicende interne e in materia di bilancio. Nella proposta Bastawisi, infatti, il budget delle Forze Armate è di competenza non dal Parlamento ma del Consiglio Nazionale di Difesa - organo formato, tra gli altri, dal Presidente della Repubblica, dal comandante il capo e dal capo di stato maggiore delle forze armate - che avrebbe la supervisione delle questioni riguardanti la sicurezza nazionale. Un´autonomia che permetterebbe anche la tutela degli ingenti interessi economici derivanti dal controllo del conglomerato militare-industriale che produce sia beni militari che a uso civile, oltre che servizi. Attività, dai cospicui introiti, che coinvolge circa un quarto dell´economia egiziana; e che, unita al controllo del monopolio della forza e all´influenza nei media, rende pervasivo il potere degli uomini in divisa.
Un ruolo, quello delle Forze Armate, che si ispira al "modello turco". Più che quello attuale - nel quale i militari convivono con un governo democraticamente eletto di orientamento islamista come quello guidato dall´Akp di Erdogan, mantenendo la possibilità di far sentire il proprio peso su questioni di rilevante interesse - quello degli anni ‘80, sfociato nella prova di forza contro il Refah di Erbakan.
Gli scontri di piazza Tahrir, che hanno indotto alle dimissioni il ministro della Cultura Ghazi e provocato l´arresto all´unica donna candidata alle presidenziali Butaina Kamel, potrebbero mandare in soffitta la ventilata possibilità che i militari ritirino l´articolo che ne fa i garanti dell´ordine costituzionale e modifichino quelli sulla separatezza gerarchica ed economica delle Forze Armate e sui compiti del Consiglio Nazionale di Difesa. Saranno gli eventi in corso in queste convulse ore, così come le imminenti elezioni confermate dal Consiglio Supremo per il 28 novembre, a decidere i rapporti di forza tra civili e stellette in riva al Nilo e le stesse sorti della "Primavera araba".
Renzo Guolo
domenica 20 novembre 2011
LA VERA NATURA DELLA DITTATURA SIRIANA
A differenza della dittatura di Gheddafi e di Mubarak, a loro modo ben più presenti nel giudizio dell'opinione pubblica internazionale: il primo per la sua bizzarria a volte feroce, altre volte geniale, il secondo per essere stato a capo per un trentennio del più popoloso stato arabo, l'Egitto, le dittature degli Assad, padre e figlio, pur essendo al potere dal 1964 hanno goduto di una notorietà molto meno brillante, più legata alla presunta pericolosità del regime siriano nei confronti del cocco di mamma dell'occidente, Israele, che non per la ferocia dispiegata nei confronti dei propri concittadini. Eppure la dittatura di Assad padre è stata una delle più feroci del XX secolo, mentre quella del figlio Bachar sembra avere tutta l'intenzione di procedere sullo stesso metro.
Afez Assad andò al potere nel 1966 quando, nominato da un anno capo dell'aeronautica, organizzò un nuovo golpe interno da cui trasse vantaggio l'ala moderata e militare del partito, cui Assad aderì conferendogli il prestigio legato alle sue imprese di guerra (in passato gli era stato accreditato l'abbattimento di un caccia inglese durante l'intervento franco-inglese a Suez).
Dopo la sconfitta nella Guerra dei 6 Giorni, che fece vacillare il regime militare, Assad raccolse appoggi sufficienti per lanciare la cosiddetta rivoluzione "correttiva" (1970), un ennesimo colpo di stato senza spargimento di stato che gli consegnò il governo del paese. Assad seppe sfruttare a proprio vantaggio le divisioni etniche e religiose interne: non solo la setta Alauita cui lui stesso apparteneva, lo sostenne realmente con tutto il suo potentissimo clan, ma anche drusi e cristiani, temendo l'affermazione della maggioranza sunnita, si schierarono al suo fianco senza esitare. In modo altrettanto netto gli oppositori sunniti si raccolsero attorno agli Ulema e, soprattutto intorno ai Fratelli Musulmani, che diedero inizio a una sanguinosa offensiva, culminata nel 1979 con l'uccisione di 40 cadetti della scuola di artiglieria di Aleppo. Nonostante i duri tentativi di repressione, all'inizio del 1982 il regime di Assad sembrò sul punto di sgretolarsi. Molti impiegati pubblici e persino molti ufficiali dell'esercito smisero di recarsi al lavoro o di vestire la divisa: la vita del paese sembrò sospesa nel vuoto in attesa di un'imminente e drammatica soluzione della crisi.
Assad decise allora di ricorrere a misure estreme e attaccò il cuore stesso della rivolta, la testa di Hamah che Assad nei suoi discorsi definiva senza mezzi termini la "testa del serpente". Per catturare i capi della fratellanza musulmana e grazie alla risolutezza del partito Baath a lui fedele, Assad inviò contro Hamah un forte contingente di truppe scelte al comando del fratello Riifa'At. Le operazioni cominciarono la notte del 2 Febbraio; 3 settimane dopo Hamah era ridotta a un cumulo di rovine e la sua popolazione brutalmente decimata, con perdite stimate tra le 15 mila e le 40 mila persone per la maggior parte civili ed estranei alla rivolta. Il 21 Settembre 2001 Thomas Friedman ricordava sul New York Times che l'intera città sembrava devastata da un rovinoso tornado e che il regime non aveva fatto alcuno sforzo per nascondere l'entità dei danni causati, esibiti al contrario come monito agli oppositori.
E' difficile ancora oggi appurare cosa sia accaduto veramente ad Hamah nella fase iniziale della rivolta. Secondo la versione dei giornali siriani nella notte tra il 2 e 3 Febbraio, le truppe speciali cominciarono a setacciare la città casa per casa, in cerca di armi e individui sospetti. Mentre il rastrellamento era in corso, circa 500 Fratelli Musulmani lanciarono un violentissimo contrattacco: ne nacque una battaglia vera e propria con centinaia di morti, con combattimenti corpo a corpo dove le persone venivano raggiunte nelle loro abitazioni e trucidate.
Privi di armi sofisticate gli uomini di Assad utilizzarono l'artiglieria pesante campale. Hamah venne circondata da un anello di fuoco che poco a poco si strinse intorno al centro antico, mentre le truppe fedeli al regime attendevano ai margini dell'abitato con le armi al piede. Solo dopo due settimane di cannoneggiamento continuo entrarono in città, aprendosi il varco tra le macerie con i buldozer e rastrellando i superstiti, giustiziati sommariamente sul posto. Anche la grande moschea Omayyade, uno dei luoghi più venerati della Siria, venne rasa al suolo. Assad non voleva lasciare margini di dubbio: l'Islam veniva dopo lo stato Baathista e il suo uso politico non sarebbe mai stato tollerato.
Il massacro fu il peggiore atto criminale compiuto da un governo arabo contro il suo stesso popolo; le testimonianze raccolte negli anni successivi dalla sezione siriana di Human Rights Watch sono agghiaccianti e parlano di esecuzioni di massa e di fosse comuni, di feriti sgozzati e di donne e bambini sepolti vivi nelle macerie.
La feroce repressione ordinata da Assad stroncò la rivolta dei Fratelli Musulmani e salvò il regime Baathista Alauita.
Sono passati quasi 30 anni dal massacro di Hamah. Assad padre è morto nel 2000 e oggi il figlio Bashar Al Assad, subentratogli al potere, deve affrontare una nuova ondata di proteste popolari scandita dai venerdì di preghiera, ma che va ben oltre l'ambito religioso. I disordini durano da oltre 4 mesi, secondo il portavoce di Human Right Watch si contano ormai più di 3500 vittime civili e almeno 10000 persone, dopo essere state arrestate, vengono trattenute in carcere e sottoposte a torture senza alcuna prova delle accuse a loro carico e senza alcuna certezza di un processo equo e sulla durata della detenzione. Ai posti di frontiera con Libano e Turchia si moltiplicano le testimonianze di uomini e donne in fuga dal paese, ma il regime non trova altra via che la repressione sempre più feroce. La Siria soffoca nella sua incapacità di raggiungere un qualche equilibrio tra governo e sviluppo, tradizione e modernità, centralismo e autonomia tra le varie componenti entiche-religiose.
Un'altra generazione di siriani è stata tradita dal governo Baathista, che non solo non ha saputo garantire un adeguato sviluppo economico ma non ha nemmeno avuto il coraggio di offrire maggiori libertà ai suoi cittadini, sempre più consapevoli della complessità e della ricchezza degli orizzonti da cui sono esclusi. Se Assad padre riuscì a soffocare nel sangue la rivolta dei Fratelli Musulmani, è difficile che suo figlio possa riuscire ad arginare la marea della protesta attuale, meno aspra di quella che sconvolse il paese 30 anni fa, ma più potente, perché capace di raccogliere consensi anche al di fuori degli ambienti sunniti tradizionalisti. Nella Primavera dei venerdì di preghiera di Damasco, Homs, Aleppo, Dara, della stessa Hamah, ritornano gli spettri delle decine di migliaia di uomini e donne massacrati nel 1982, non solo come coscienza religiosa dei Fratelli Musulmani offesi dalla stranezza dell'eresia Alauita e dal laicismo di marca stalinista del partito Baath, ma come memoria dolente dei giovani siriani alla ricerca di un futuro migliore di libertà. Ma Dio è il più Grande.
lunedì 14 novembre 2011
LA VERA ESSENZA DI ISRAELE E DEL SIONISMO
Dal punto di vista strategico più evidente, Israele appare in impressionante declino geopolitico: dal punto di vista di un occidentale la "Primavera Araba" è con tutta evidenza "l'Inverno Israeliano". Sotto il profilo della sicurezza dello stato ebraico la contabilità degli sconvolgimenti in corso dalla fine del 2010 nella regione porta la bilancia a "meno 5". L'unico segno "più" può forse considerarsi la reazione immediata dell'Arabia Saudita al pericolo di destabilizzazione del Golfo, cui l'Arabia Saudita ha fatto fronte con l'invasione militare del Bahrein; e tuttavia l'attivismo del Qatar, con la sua bomba atomica mediatica di Al Jazeera non serve certo gli interessi di Gerusalemme.
Sulla colonna negativa della sicurezza israeliana vanno allineati i seguenti punti:
I - La perdita della Turchia, massimo bastione "dell'alleanza della periferia" che un tempo comprendeva Iran ed Etiopia;
II - La caduta di alcuni dei più affidabili dittatori arabi, da Ben Alì a Mubarak;
III - La prospettiva di una coalizione di fatto tra militari nazionalisti e Fratelli Musulmani in Egitto;
IV - Lo scivolamento dell'Iraq, con le sue risorse energetiche, nell'orbita dell'arci-nemico iraniano;
V - La mossa di Abu Mazen a caccia di un seggio o, almeno, di una presenza non solo simbolica all'ONU, che internazionalizza la disputa con Israele;
VI - Il rischio di perdere l'imbelle nemico siriano, che non è stato mai un gran problema;
VII - La caduta di influenza degli Stati Uniti, massimo garante della sicurezza israeliana, nel Medio Oriente del mondo; ed è proprio quest'ultimo elemento la radice di tutti i punti prima elencati. Alla perdita di potenza USA si accompagna anche la divaricazione tra interessi israeliani e americani, percepita a Washington e specialmente al Pentagono. Le affinità elettive fra Israele e Stati Uniti restano, ma nell'immediato la concordia è meno scontata.
Robert Gaters, già capo della CIA e Ministro della Difesa, ha espresso giudizi durissimi su Netanyahu: "Malgrado l'assistenza militare, tecnologica e di intelligence offerta a Gerusalemme, gli Stati Uniti non hanno ottenuto niente in cambio, specie per quel che riguarda il processo di pace". Netanyahu non è solo ingrato, ma mette in pericolo il suo paese rifiutandosi di affrontare il crescente isolamento di Israele e le sfide demografiche che gli derivano da voler controllare la Cisgiordania.
Gli osservatori più approfonditi tendono a ricollegare tutte queste debolezze al contesto della plurimillenaria vicenda ebraica, perché è in questa, e non nell'olocausto strumentalizzato in chiave propagandistica che l'Israele odierna trova la sua legittimazione.
Il carattere permanente di Israele è il particolarismo ebraico che ha tenuto gli ebrei non in sincronia con il resto del mondo (da notare che questo giudizio non è di un assatanato anti sionista ma di uno storico ebraico come Dan Vittorio Segre. Si tratta di un isolazionismo genetico stabilito nella sacra scrittura e prescritto agli ebrei osservanti ma sentito anche da numerosi ebrei che si professano laici. Il testo più citato sono le parole di Dio a Mosè (Esodo, XIX, 6): "Sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa...Ecco un popolo che abita a parte e non si conta tra le genti, perché tu sei un popolo consacrato al tuo Dio. Il Signore ti ha scelto per essergli popolo prediletto fra tutti i popoli che ci sono sulla faccia della Terra".
Secoli di diaspora, assimilazione, persecuzioni e tentativi di sterminio non hanno sradicato nella nazione ebraica il segno del patto divino. Il terzo Israele fondato nel 1948 è la moderna traduzione geopolitica del contratto tra Dio e la nazione eletta ristabilita "nella nostra terra" come canta l'inno nazionale di Israele. Non un popolo tra gli altri e neppure uno stato tra gli altri ma un popolo e uno stato superiori agli altri. Ciò spiega molto del vincolo con l'America, celebrata da numerosi scrittori e pensatori americani come l'Israele dei nostri giorni: una nazione grande e una piccola, accomunate da un Manifest Destiny di matrice divina, non omologabili alle sovranità banalmente terrestri: in buona sostanza l'alleanza tra Israele e gli Stati Uniti è il legame tra due "fuori classe".
Di tale elemento era ben consapevole il primo vero leader dell'OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) Yassir Arafat il quale, facendo delle acute considerazioni sul suo popolo, paragonò il destino dei palestinesi a quello degli indiani d'America, quasi sterminati e chiusi nelle riserve per far posto al miti americano del "Destino-Manifesto". Cos'è in fin dei conti la politica cocciutamente perseguita da tutti i governi di Israele di "rosicchiare" come un famelico topo i territori palestinesi per insediarvi isole di civiltà in un mare di barbarie. Del resto l'attuale revisionismo nazionalista degli intellettuali israeliani, teorici del muro di ferro tra il futuro Israele e gli arabi, non fa che aggiornare l'immagine cara al leader laburista Ehud Barak, oggi ministro della difesa: "Israele è come una villa nella giungla, un'isola di civiltà circondata da barbari di basso spirito e privi di civiltà".
Netanyahu ha in qualche modo aggiornato questa visione e l'ha resa se possibile ancora più drastica e stanno cedendo a una pericolosissima visione dettata da una sorta di ubriacatura nazional-religiosa. Egli sogna, con molti dei suoi ministri un quarto Israele ispirato a re David quando gli ebrei dominavano dal Sinai a Damasco e all'Eufrate. Fondare la geopolitica su una religione che, oltretutto inventa una Israele mitica che non è mai esistita, significa negare la geografia e la politica. La geoteologia è una droga potente, perché fa sentire liberi da ogni vincolo di tempo e di spazio e padroni assoluti del proprio destino, e del tutto indifferenti agli altri.
C'è solo da chiedersi in che cosa il delirio ultrà degli attuali governanti sionisti si differenzia dal delirio fortemente beffeggiato di Osama Bin Laden, che vagheggiava la rinascita di un califfato musulmano esteso dall'Atlantico al fiume Indo e comprendente anche la Spagna. I metodi, a ben vedere dello stato di Israele e del terrorismo di Al Qaeda, differiscono solo nelle dimensioni; ma almeno i sogni di Bin Laden facevano riferimento ad un califfato musulmano che è effettivamente esistito ed è stato fattore di civiltà, e a un impero Ottomano che per almeno 300 anni è stato la massima potenza politica e militare del mondo.
Sulla colonna negativa della sicurezza israeliana vanno allineati i seguenti punti:
I - La perdita della Turchia, massimo bastione "dell'alleanza della periferia" che un tempo comprendeva Iran ed Etiopia;
II - La caduta di alcuni dei più affidabili dittatori arabi, da Ben Alì a Mubarak;
III - La prospettiva di una coalizione di fatto tra militari nazionalisti e Fratelli Musulmani in Egitto;
IV - Lo scivolamento dell'Iraq, con le sue risorse energetiche, nell'orbita dell'arci-nemico iraniano;
V - La mossa di Abu Mazen a caccia di un seggio o, almeno, di una presenza non solo simbolica all'ONU, che internazionalizza la disputa con Israele;
VI - Il rischio di perdere l'imbelle nemico siriano, che non è stato mai un gran problema;
VII - La caduta di influenza degli Stati Uniti, massimo garante della sicurezza israeliana, nel Medio Oriente del mondo; ed è proprio quest'ultimo elemento la radice di tutti i punti prima elencati. Alla perdita di potenza USA si accompagna anche la divaricazione tra interessi israeliani e americani, percepita a Washington e specialmente al Pentagono. Le affinità elettive fra Israele e Stati Uniti restano, ma nell'immediato la concordia è meno scontata.
Robert Gaters, già capo della CIA e Ministro della Difesa, ha espresso giudizi durissimi su Netanyahu: "Malgrado l'assistenza militare, tecnologica e di intelligence offerta a Gerusalemme, gli Stati Uniti non hanno ottenuto niente in cambio, specie per quel che riguarda il processo di pace". Netanyahu non è solo ingrato, ma mette in pericolo il suo paese rifiutandosi di affrontare il crescente isolamento di Israele e le sfide demografiche che gli derivano da voler controllare la Cisgiordania.
Gli osservatori più approfonditi tendono a ricollegare tutte queste debolezze al contesto della plurimillenaria vicenda ebraica, perché è in questa, e non nell'olocausto strumentalizzato in chiave propagandistica che l'Israele odierna trova la sua legittimazione.
Il carattere permanente di Israele è il particolarismo ebraico che ha tenuto gli ebrei non in sincronia con il resto del mondo (da notare che questo giudizio non è di un assatanato anti sionista ma di uno storico ebraico come Dan Vittorio Segre. Si tratta di un isolazionismo genetico stabilito nella sacra scrittura e prescritto agli ebrei osservanti ma sentito anche da numerosi ebrei che si professano laici. Il testo più citato sono le parole di Dio a Mosè (Esodo, XIX, 6): "Sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa...Ecco un popolo che abita a parte e non si conta tra le genti, perché tu sei un popolo consacrato al tuo Dio. Il Signore ti ha scelto per essergli popolo prediletto fra tutti i popoli che ci sono sulla faccia della Terra".
Secoli di diaspora, assimilazione, persecuzioni e tentativi di sterminio non hanno sradicato nella nazione ebraica il segno del patto divino. Il terzo Israele fondato nel 1948 è la moderna traduzione geopolitica del contratto tra Dio e la nazione eletta ristabilita "nella nostra terra" come canta l'inno nazionale di Israele. Non un popolo tra gli altri e neppure uno stato tra gli altri ma un popolo e uno stato superiori agli altri. Ciò spiega molto del vincolo con l'America, celebrata da numerosi scrittori e pensatori americani come l'Israele dei nostri giorni: una nazione grande e una piccola, accomunate da un Manifest Destiny di matrice divina, non omologabili alle sovranità banalmente terrestri: in buona sostanza l'alleanza tra Israele e gli Stati Uniti è il legame tra due "fuori classe".
Di tale elemento era ben consapevole il primo vero leader dell'OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) Yassir Arafat il quale, facendo delle acute considerazioni sul suo popolo, paragonò il destino dei palestinesi a quello degli indiani d'America, quasi sterminati e chiusi nelle riserve per far posto al miti americano del "Destino-Manifesto". Cos'è in fin dei conti la politica cocciutamente perseguita da tutti i governi di Israele di "rosicchiare" come un famelico topo i territori palestinesi per insediarvi isole di civiltà in un mare di barbarie. Del resto l'attuale revisionismo nazionalista degli intellettuali israeliani, teorici del muro di ferro tra il futuro Israele e gli arabi, non fa che aggiornare l'immagine cara al leader laburista Ehud Barak, oggi ministro della difesa: "Israele è come una villa nella giungla, un'isola di civiltà circondata da barbari di basso spirito e privi di civiltà".
Netanyahu ha in qualche modo aggiornato questa visione e l'ha resa se possibile ancora più drastica e stanno cedendo a una pericolosissima visione dettata da una sorta di ubriacatura nazional-religiosa. Egli sogna, con molti dei suoi ministri un quarto Israele ispirato a re David quando gli ebrei dominavano dal Sinai a Damasco e all'Eufrate. Fondare la geopolitica su una religione che, oltretutto inventa una Israele mitica che non è mai esistita, significa negare la geografia e la politica. La geoteologia è una droga potente, perché fa sentire liberi da ogni vincolo di tempo e di spazio e padroni assoluti del proprio destino, e del tutto indifferenti agli altri.
C'è solo da chiedersi in che cosa il delirio ultrà degli attuali governanti sionisti si differenzia dal delirio fortemente beffeggiato di Osama Bin Laden, che vagheggiava la rinascita di un califfato musulmano esteso dall'Atlantico al fiume Indo e comprendente anche la Spagna. I metodi, a ben vedere dello stato di Israele e del terrorismo di Al Qaeda, differiscono solo nelle dimensioni; ma almeno i sogni di Bin Laden facevano riferimento ad un califfato musulmano che è effettivamente esistito ed è stato fattore di civiltà, e a un impero Ottomano che per almeno 300 anni è stato la massima potenza politica e militare del mondo.
sabato 12 novembre 2011
REPETITA IUVANT
Alcune puntualizzazioni sul Medio Oriente
I - I FRATELLI MUSULMANI
La confraternita dei Fratelli Musulmani (Jama'Ah) è un movimento riformatore islamico fondato nel 1928 da Hassan Al Ban, ucciso nel 1942 da sicari del governo monarchico di re Faruk, ma protagonista della lotta di liberazione dell'Egitto dalla presenza coloniale inglese. Il motto dei Fratelli Musulmani è tratto dal Corano (3°, 200): "Shiru Wa Subiru Wa Rabitu Wa Taqullah, La' Allakum Tuflihuna"..."Perseverate, incitatevi alla perseveranza, lottate e temete solo Dio, affinché si possa prosperare".
La fratellanza musulmana non ha mai avuto una sede centrale vera e propria ma è sempre consistita in centinaia di istituzioni collegate tra loro: associazioni caritatevoli e categorie professionali, patronati, scuole, biblioteche, istituti culturali, una rete che ha sempre costituito quei nuclei di società civile che hanno continuato a tener viva la speranza di un paese migliore in grado di confidare sulle sue risorse umane e produttive, oltre che sulla misericordia divina.
Dagli anni della sua fondazione in Egitto la presenza dei Fratelli Musulmani si è diffusa in decine di paesi e in ogni parte del mondo e in primo luogo in tutta la Umma: la credibilità della fratellanza è stata garantita dalla coerenza delle sue posizioni politiche che possono essere definite di democrazia sociale ispirata ai principi di solidarietà contenuti nel Corano. In Europa esistono due organizzazioni che fanno capo ai Fratelli Musulmani: la FIOE (Federation of Islam Organization in Europe), e il CAIR (Concil of American Islamic Relations). Leader riconosciuti della fratellanza sono Rashid Gannouci, tunisino leader del partito Ennahda, recente vincitore delle prime elezioni democratiche tunisine; Abdel Majid Zendahi, yemenita, fondatore e rettore dell'università dell'imam Hassan Tourabi, intellettuale sudanese, fondatore del Fronte Nazionale per lunghi anni al governo di quel paese, Yussuf Qaradawi, rettore dell'università islamica del Qatar, presidente del consiglio di "Fatwa" d'Europa saggista, considerato il gran Mufti dei Fratelli Musulmani.
II - LE PRINCIPALI NOTIZIE STORICHE SULLA FRATELLANZA MUSULMANA
Negli anni trascorsi dalla morte di Hassan Al Ban, la Jama'Ah ha subito ogni genere di persecuzione, oltraggio e mistificazione della sua realtà morale, spirituale e ideologica. Seguendo l'insegnamento del suo fondatore la Fratellanza si è sforzata di conciliare la modernità e gli assunti di democrazia e di libertà individuali che l'occidente proponeva con la fede nei principi coranici nella missione del Profeta Muhammad e nella adesione alla tradizione e alla giurisprudenza islamica. Tutto ciò non è stato permesso: non si poteva ammettere che i principi dell'Islam potessero essere armonicamente declinati con i principi di democrazia. I paesi europei e gli USA hanno appoggiato caste militari e dittatori, ideologicamente influenzabili e comunque subalterni alle linee neo colonialiste e agli interessi petroliferi occidentali; in qualche paese il cosiddetto socialismo arabo (Siria e Iraq), in altri la democrazia "popolare" (Libia), in altri ancora monarchie reazionarie che si sono impadronite del patrimonio di lotta e di sacrifici che i popoli arabi si erano sobbarcati per resistere e insorgere contro il colonialismo hanno negato ai Fratelli Musulmani la legittimazione del potere democratico espresso dal basso da una vera democrazia rappresentativa. In qualche occasione l'elemento etnico e religioso nella vita pubblica che viene spacciata come laicità è stata usata contro l'identità arabo-musulmana della Fratellanza; in tal modo è stata negata ai popoli arabi il diritto di essere uniti come Umma mentre in occidente i governi non hanno mai smesso di coalizzarsi tra loro, in qualche caso diventando alleanze occupanti di paesi musulmani come Iraq e l'Afghanistan; ciò nonostante i Fratelli Musulmani sono stati in qualche caso coinvolti in fatti d'armi sanguinosi anche se l'uccisione di Sadat, il presidente egiziano responsabile di un trattato di pace unilaterale con il nemico israeliano, gli ha visti del tutto estranei e ha in ogni caso scatenato una seconda grande repressione dopo quella della dittatura Nasseriana. In Egitto molte centinaia di Fratelli Musulmani furono assassinati, incarcerati o costretti all'esilio e i governi e i media occidentali gareggiarono nell'etichettare la Fratellanza come entità terroristica ed estremista. In tal modo l'élite intellettuale, morale e culturale dell'Egitto subì un tentativo di genocidio culturale, che si estese gradualmente in tutti i paesi arabi nei quali la Fratellanza aveva diffuso la sua influenza e posto radici profonde nel popolo. Particolarmente feroce fu la repressione scatenata dal regime siriano di Assad padre, che culminò nella distruzione a cannonate della città di Hama, che provocò oltre 20 mila morti; ma anche il regime sedicente-socialista di Saddam per lungo tempo fedele esecutore degli ordini di Washington usò nei confronti dei Fratelli Musulmani gli stessi metodi usati in Egitto e in Siria al pari del dittatore tunisino Ben Alì.
Il modificato carattere del governo turco, indispensabile alleato degli USA ma non più condizionato dal laicismo reazionario della casta militare ma anzi in larga misura ispirato ai principi della Fratellanza, ha indotto l'ultimo presidente degli Stati Uniti Barack Obama a considerare una diversa linea di comportamento nei confronti di essa: e questa è una delle chiavi di lettura delle rivoluzioni arabe vittoriose in Tunisia e in Egitto e in piena lotta contro il tirannico regime del giovane Assad siriano.
Alla luce di queste considerazioni è così possibile definire con obiettività la vera natura del movimento dei Fratelli Musulmani: non già un'entità "fondamentalista", confessionale, "islamista" collegata con movimenti terroristici ed estremisti, ma una forza autenticamente popolare, radicata tra le masse popolari arabe che aspira a portare nei paesi del Medio Oriente sistemi di governo retti da principi di democrazia e di libertà, di eguaglianza e di rispetto dei diritti umani, e tuttavia profondamente fedele alla religione dell'Islam e ai principi di cui è maestro supremo il Corano rivelato al Profeta Muhammad.
I - I FRATELLI MUSULMANI
La confraternita dei Fratelli Musulmani (Jama'Ah) è un movimento riformatore islamico fondato nel 1928 da Hassan Al Ban, ucciso nel 1942 da sicari del governo monarchico di re Faruk, ma protagonista della lotta di liberazione dell'Egitto dalla presenza coloniale inglese. Il motto dei Fratelli Musulmani è tratto dal Corano (3°, 200): "Shiru Wa Subiru Wa Rabitu Wa Taqullah, La' Allakum Tuflihuna"..."Perseverate, incitatevi alla perseveranza, lottate e temete solo Dio, affinché si possa prosperare".
La fratellanza musulmana non ha mai avuto una sede centrale vera e propria ma è sempre consistita in centinaia di istituzioni collegate tra loro: associazioni caritatevoli e categorie professionali, patronati, scuole, biblioteche, istituti culturali, una rete che ha sempre costituito quei nuclei di società civile che hanno continuato a tener viva la speranza di un paese migliore in grado di confidare sulle sue risorse umane e produttive, oltre che sulla misericordia divina.
Dagli anni della sua fondazione in Egitto la presenza dei Fratelli Musulmani si è diffusa in decine di paesi e in ogni parte del mondo e in primo luogo in tutta la Umma: la credibilità della fratellanza è stata garantita dalla coerenza delle sue posizioni politiche che possono essere definite di democrazia sociale ispirata ai principi di solidarietà contenuti nel Corano. In Europa esistono due organizzazioni che fanno capo ai Fratelli Musulmani: la FIOE (Federation of Islam Organization in Europe), e il CAIR (Concil of American Islamic Relations). Leader riconosciuti della fratellanza sono Rashid Gannouci, tunisino leader del partito Ennahda, recente vincitore delle prime elezioni democratiche tunisine; Abdel Majid Zendahi, yemenita, fondatore e rettore dell'università dell'imam Hassan Tourabi, intellettuale sudanese, fondatore del Fronte Nazionale per lunghi anni al governo di quel paese, Yussuf Qaradawi, rettore dell'università islamica del Qatar, presidente del consiglio di "Fatwa" d'Europa saggista, considerato il gran Mufti dei Fratelli Musulmani.
II - LE PRINCIPALI NOTIZIE STORICHE SULLA FRATELLANZA MUSULMANA
Negli anni trascorsi dalla morte di Hassan Al Ban, la Jama'Ah ha subito ogni genere di persecuzione, oltraggio e mistificazione della sua realtà morale, spirituale e ideologica. Seguendo l'insegnamento del suo fondatore la Fratellanza si è sforzata di conciliare la modernità e gli assunti di democrazia e di libertà individuali che l'occidente proponeva con la fede nei principi coranici nella missione del Profeta Muhammad e nella adesione alla tradizione e alla giurisprudenza islamica. Tutto ciò non è stato permesso: non si poteva ammettere che i principi dell'Islam potessero essere armonicamente declinati con i principi di democrazia. I paesi europei e gli USA hanno appoggiato caste militari e dittatori, ideologicamente influenzabili e comunque subalterni alle linee neo colonialiste e agli interessi petroliferi occidentali; in qualche paese il cosiddetto socialismo arabo (Siria e Iraq), in altri la democrazia "popolare" (Libia), in altri ancora monarchie reazionarie che si sono impadronite del patrimonio di lotta e di sacrifici che i popoli arabi si erano sobbarcati per resistere e insorgere contro il colonialismo hanno negato ai Fratelli Musulmani la legittimazione del potere democratico espresso dal basso da una vera democrazia rappresentativa. In qualche occasione l'elemento etnico e religioso nella vita pubblica che viene spacciata come laicità è stata usata contro l'identità arabo-musulmana della Fratellanza; in tal modo è stata negata ai popoli arabi il diritto di essere uniti come Umma mentre in occidente i governi non hanno mai smesso di coalizzarsi tra loro, in qualche caso diventando alleanze occupanti di paesi musulmani come Iraq e l'Afghanistan; ciò nonostante i Fratelli Musulmani sono stati in qualche caso coinvolti in fatti d'armi sanguinosi anche se l'uccisione di Sadat, il presidente egiziano responsabile di un trattato di pace unilaterale con il nemico israeliano, gli ha visti del tutto estranei e ha in ogni caso scatenato una seconda grande repressione dopo quella della dittatura Nasseriana. In Egitto molte centinaia di Fratelli Musulmani furono assassinati, incarcerati o costretti all'esilio e i governi e i media occidentali gareggiarono nell'etichettare la Fratellanza come entità terroristica ed estremista. In tal modo l'élite intellettuale, morale e culturale dell'Egitto subì un tentativo di genocidio culturale, che si estese gradualmente in tutti i paesi arabi nei quali la Fratellanza aveva diffuso la sua influenza e posto radici profonde nel popolo. Particolarmente feroce fu la repressione scatenata dal regime siriano di Assad padre, che culminò nella distruzione a cannonate della città di Hama, che provocò oltre 20 mila morti; ma anche il regime sedicente-socialista di Saddam per lungo tempo fedele esecutore degli ordini di Washington usò nei confronti dei Fratelli Musulmani gli stessi metodi usati in Egitto e in Siria al pari del dittatore tunisino Ben Alì.
Il modificato carattere del governo turco, indispensabile alleato degli USA ma non più condizionato dal laicismo reazionario della casta militare ma anzi in larga misura ispirato ai principi della Fratellanza, ha indotto l'ultimo presidente degli Stati Uniti Barack Obama a considerare una diversa linea di comportamento nei confronti di essa: e questa è una delle chiavi di lettura delle rivoluzioni arabe vittoriose in Tunisia e in Egitto e in piena lotta contro il tirannico regime del giovane Assad siriano.
Alla luce di queste considerazioni è così possibile definire con obiettività la vera natura del movimento dei Fratelli Musulmani: non già un'entità "fondamentalista", confessionale, "islamista" collegata con movimenti terroristici ed estremisti, ma una forza autenticamente popolare, radicata tra le masse popolari arabe che aspira a portare nei paesi del Medio Oriente sistemi di governo retti da principi di democrazia e di libertà, di eguaglianza e di rispetto dei diritti umani, e tuttavia profondamente fedele alla religione dell'Islam e ai principi di cui è maestro supremo il Corano rivelato al Profeta Muhammad.
GLI STRANI ATTACCHI ALLA TURCHIA
Terrore in Turchia, un traghetto ostaggio del Pkk
Un commando armato del Pkk ha dirottato un traghetto che viaggiava nel golfo di Izmit, nel mare della Marmara, con oltre venti persone a bordo, minacciando di dirigerlo dritto verso l´isola di Imrali, la fortezza blindata dove il leader del movimento indipendentista curdo, Abdullah Öcalan, sta scontando la condanna all´ergastolo.
Il capitano della nave, in contatto telefonico per pochi minuti con una televisione turca, ha riferito che i sequestratori dicono di appartenere al Hpg, il braccio armato del Pkk, il Partito di lavoratori del Kurdistan considerato un´organizzazione terroristica non solo dalla Turchia ma anche da Stati Uniti ed Unione europea.
Stando alle prime ricostruzioni, quattro o cinque uomini armati sono saliti a bordo della nave veloce, la "Kartepe", ieri intorno alle 17.45 locali e hanno fatto irruzione nella cabina di pilotaggio prendendo il comando della nave. Hanno preso in ostaggio le persone a bordo, almeno venticinque di cui diciannove passeggeri e sei membri dell´equipaggio, minacciando di far esplodere una bomba in caso di intervento da parte delle forze di sicurezza.
Non potendo avvicinarsi per non mettere a rischio la vita dei passeggeri, le imbarcazioni e gli elicotteri delle guardia costiera turca hanno seguito il traghetto a distanza. Le teste di cuoio si sarebbero preparate a intervenire per impedire ai terroristi di raggiungere l´isola-prigione di Ocalan. Imrali si trova a soli 120 chilometri da Izmit e non è chiaro se il traghetto abbia carburante sufficiente per arrivarci, anche solo per fare un´azione dimostrativa. Secondo il ministro dei Trasporti turco, Binali Yildirim, i terroristi in serata hanno chiesto gasolio, cibo e attrezzi per riparare alcuni guasti.
Imrali è inaccessibile, presidiata da un migliaio di uomini, tra cui le forze speciali delle Sas, e circondata da protezioni elettroniche. Öcalan, arrestato in Kenya nel 1999 e imprigionato in Turchia, è considerato uno degli uomini più sorvegliati del mondo. Dalla prigione continua a ispirare la guerriglia del Pkk, che si batte per l´autonomia dei curdi e dal 1984 ha causato oltre quarantamila vittime.
In Turchia vivono tra i 12 e i 15 milioni curdi su una popolazione di circa 73 milioni di abitanti. Negli ultimi mesi la questione curda si è fatta più tesa, con attentati e attacchi da parte dei militanti ai quali il governo di Erdogan ha risposto con operazioni militari e centinaia di arresti.
Il capitano della nave, in contatto telefonico per pochi minuti con una televisione turca, ha riferito che i sequestratori dicono di appartenere al Hpg, il braccio armato del Pkk, il Partito di lavoratori del Kurdistan considerato un´organizzazione terroristica non solo dalla Turchia ma anche da Stati Uniti ed Unione europea.
Stando alle prime ricostruzioni, quattro o cinque uomini armati sono saliti a bordo della nave veloce, la "Kartepe", ieri intorno alle 17.45 locali e hanno fatto irruzione nella cabina di pilotaggio prendendo il comando della nave. Hanno preso in ostaggio le persone a bordo, almeno venticinque di cui diciannove passeggeri e sei membri dell´equipaggio, minacciando di far esplodere una bomba in caso di intervento da parte delle forze di sicurezza.
Non potendo avvicinarsi per non mettere a rischio la vita dei passeggeri, le imbarcazioni e gli elicotteri delle guardia costiera turca hanno seguito il traghetto a distanza. Le teste di cuoio si sarebbero preparate a intervenire per impedire ai terroristi di raggiungere l´isola-prigione di Ocalan. Imrali si trova a soli 120 chilometri da Izmit e non è chiaro se il traghetto abbia carburante sufficiente per arrivarci, anche solo per fare un´azione dimostrativa. Secondo il ministro dei Trasporti turco, Binali Yildirim, i terroristi in serata hanno chiesto gasolio, cibo e attrezzi per riparare alcuni guasti.
Imrali è inaccessibile, presidiata da un migliaio di uomini, tra cui le forze speciali delle Sas, e circondata da protezioni elettroniche. Öcalan, arrestato in Kenya nel 1999 e imprigionato in Turchia, è considerato uno degli uomini più sorvegliati del mondo. Dalla prigione continua a ispirare la guerriglia del Pkk, che si batte per l´autonomia dei curdi e dal 1984 ha causato oltre quarantamila vittime.
In Turchia vivono tra i 12 e i 15 milioni curdi su una popolazione di circa 73 milioni di abitanti. Negli ultimi mesi la questione curda si è fatta più tesa, con attentati e attacchi da parte dei militanti ai quali il governo di Erdogan ha risposto con operazioni militari e centinaia di arresti.
Silvia Bernasconi
giovedì 10 novembre 2011
IRAN 10/11/2011
Iran, ultima sfida all'Occidente
Sembrano due pianeti distanti anni luce l´uno dall´altro l´Iran di Ahmadinejad che non intende «arretrare neppure di un millimetro» dal suo programma nucleare malgrado il rapporto dell´Aiea che, in base a "indizi convergenti", conferma l´intenzione della Repubblica islamica di voler costruire ordigni nucleari, e l´Iran della gente comune, quella maggioranza smarrita e silenziosa che fatica a sbarcare il lunario.
Il primo vanta di possedere strumenti bellici in grado di «distruggere Israele» un istante dopo l´eventuale attacco contro le sue installazioni nucleari (lo ha affermato ieri il capo di stato maggiore delle forze armate iraniane, Massud Jazayeri) e accusa il direttore dell´Aiea, Yukiya Amano, di essere un «servo degli americani». Il secondo, il popolo minuto, teme invece l´aggravarsi delle proprie condizioni di vita con l´imposizione di «sanzioni forti e ancora più dure».
A chiedere quelle sanzioni è parte della comunità internazionale, a cominciare dalla Francia e dall´Inghilterra, mentre l´Italia con il ministro degli Esteri Franco Frattini pretende dall´Iran «un dettagliato riscontro per dissipare le preoccupazioni destate dal rapporto dell´Aiea».
C´è poi la famigerata e minacciosa "opzione militare", seriamente e insistentemente presa in considerazione dagli israeliani, e non solo da loro: «Non si tratta di una pistola fumante», scriveva ieri il giornale israeliano Haaretz per commentare il rapporto dell´Agenzia dell´Onu che ha il compito di monitorare le attività atomiche nel mondo, ma di «un missile con la testata nucleare». Dunque, come ha detto ieri Benjamin Netanyahu dopo un lungo e emblematico silenzio: «La comunità internazionale deve fare in modo che l´Iran cessi di lavorare ad armi nucleari che mettono in pericolo il mondo e il Medi Oriente».
In questo caos tragico che regna nella Repubblica islamica, sono per la maggior parte giovani, ragazzi e ragazze spaventati che in questi giorni di «trambusto di tamburi che annuncia l´imminente guerra» cercano di trovare rifugio nelle pagine dei blog per scambiarsi pareri, per consolarsi e per sfogare la rabbia accumulata in seguito alla brutale repressione che ha soffocato il movimento di protesta per la rielezione di Ahmadinejad. Si firmano come un Ali qualsiasi, un Firuz che può essere ognuno di loro, una Shahla che ha il volto di mille altre Shahla, e il sostantivo più frequente nelle loro lamentele è l´inquietudine.
Sono i blogger la voce narrante dell´Iran che ignora i calcoli del regime, le sue reali possibilità di sopportare le sanzioni o i blitz militari e ha paura che l´insieme dagli apparati politico-militari del regime, sempre più gradassi e sicuri di sé quando si tratta di regolare i conti con l´Occidente, siano in realtà degli spavaldi "bluffer" e che alla fine sarà il popolo a pagare le conseguenze delle loro complicate acrobazie sui piani nucleari del paese.
«In nessuna fase della storia del nostro paese la guerra e l´invasione degli stranieri sono state a vantaggio della nostra gente e non lo saranno neppure questa volta. La guerra non conviene, né a noi iraniani né ad altri», ha scritto quell´Ali qualsiasi sul blog "Libertà e sviluppo". Vengono rievocate l´invasione degli arabi che hanno sconfitto l´Impero iraniano, quella dei mongoli che hanno elevato cumuli di cadaveri in ogni angolo del paese; si ricordano le interferenze della Cia che hanno determinato la fine di un governo apprezzato, quello di Mohammad Mossadegh negli anni Cinquanta, e soprattutto non si dimenticano le ferite provocate dagli otto anni di guerra imposta da Saddam Hussein. E quello dei blogger non è un pacifismo di maniera: è il terrore per il ritorno di un passato remoto e recente.
Ma è difficile che la repulsione nei confronti dell´invasore straniero renda accettabile un regime inviso. In un libro che non ha passato l´esame della censura e quindi è stato sintetizzato in un breve articolo sulla rete, l´accademico Rahimi Brugerdi scrive che l´Iran di oggi subisce ogni anno danni paragonabili al 75 per cento di quelli provocati in ciascuno degli anni di guerra con gli iracheni; che il governo di Ahmadinejad ha sperperato miliardi di dollari provenienti dalle vendite di petrolio in spese occulte oppure per scopi militari e che l´80 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà guadagnando meno di 500 euro al mese. Brugerdi elenca 23 voci per descrivere l´attuale situazione socio-economica del paese, citando le statistiche nazionali e quelle degli enti internazionali: una lenta agonia che non permette agli iraniani di occuparsi delle beghe tra Ahmadinejad e Khamenei, come fossero rassegnati a un male incurabile e a un destino maledetto.
Il senso d´impotenza che rasenta l´apatia, è cresciuto con la violenta sconfitta del movimento verde. L´eventualità di una guerra in questa situazione, che molti ritengono sia anche una speranza del regime, prospetta un triste panorama già visto, già vissuto: martellanti richiami all´orgoglio nazionale, a serrare le fila intorno al regime, mentre si farà scorrere acqua color sangue dalle fontane nelle piazze e si tappezzeranno le facciate degli edifici con le gigantografie degli eroi e dei martiri.
Tutto a vantaggio degli ayatollah ultraconservatori, dei pasdaran e dei nazional-militaristi che gestiscono il governo. Così qualcuno si aggrappa ai paradossi pur di uscire dell´odierno vicolo cieco e scrive: «Nessuna dittatura nella storia se n´è andata se non in seguito ad una guerra. Gli iraniani hanno di fronte due strade: chiedere con una sola voce la fine del regime, oppure accettare che sia una guerra a spazzarlo via. La prima soluzione non sembra a portata di mano: non ci resta che la guerra», ha scritto Iradj, un Iradj qualsiasi, ma la sua è una voce isolata.
Intanto gli strateghi della Repubblica islamica, insieme alle minacce, partendo dalla debolezza dell´Occidente a causa della crisi economica, dall´impasse degli Stati Uniti che faticano a uscire dal pantano afgano e dalle paludi mesopotamiche a un anno dalle elezioni presidenziali, non escludono la ripresa dei colloqui negoziali: «purché si faccia in un clima di rispetto reciproco», come sosteneva ieri il portavoce della diplomazia iraniana Rahim Mehmanparast. E puntano a tornare alle trattative, questa volta da una posizione di forza, proprio grazie al rapporto dell´Aiea e al sostegno della Russia, che giudica il dossier sul nucleare «non nuovo e politicizzato», e della Cina con entrambi i Paesi che già hanno fatto sapere di «non permettere che ci sia un attacco militare contro l´Iran». Da tempo infatti a Teheran molti pensano che con la bomba già pronta si negozia meglio. E si fa l´esempio della Corea del Nord, presa seriamente dagli americani soltanto quando si è accertato che Pyongyang possedeva l´ordigno atomico. Ma anche questo potrebbe essere un azzardo che fa crescere l´incertezza e l´inquietudine del popolo.
Il primo vanta di possedere strumenti bellici in grado di «distruggere Israele» un istante dopo l´eventuale attacco contro le sue installazioni nucleari (lo ha affermato ieri il capo di stato maggiore delle forze armate iraniane, Massud Jazayeri) e accusa il direttore dell´Aiea, Yukiya Amano, di essere un «servo degli americani». Il secondo, il popolo minuto, teme invece l´aggravarsi delle proprie condizioni di vita con l´imposizione di «sanzioni forti e ancora più dure».
A chiedere quelle sanzioni è parte della comunità internazionale, a cominciare dalla Francia e dall´Inghilterra, mentre l´Italia con il ministro degli Esteri Franco Frattini pretende dall´Iran «un dettagliato riscontro per dissipare le preoccupazioni destate dal rapporto dell´Aiea».
C´è poi la famigerata e minacciosa "opzione militare", seriamente e insistentemente presa in considerazione dagli israeliani, e non solo da loro: «Non si tratta di una pistola fumante», scriveva ieri il giornale israeliano Haaretz per commentare il rapporto dell´Agenzia dell´Onu che ha il compito di monitorare le attività atomiche nel mondo, ma di «un missile con la testata nucleare». Dunque, come ha detto ieri Benjamin Netanyahu dopo un lungo e emblematico silenzio: «La comunità internazionale deve fare in modo che l´Iran cessi di lavorare ad armi nucleari che mettono in pericolo il mondo e il Medi Oriente».
In questo caos tragico che regna nella Repubblica islamica, sono per la maggior parte giovani, ragazzi e ragazze spaventati che in questi giorni di «trambusto di tamburi che annuncia l´imminente guerra» cercano di trovare rifugio nelle pagine dei blog per scambiarsi pareri, per consolarsi e per sfogare la rabbia accumulata in seguito alla brutale repressione che ha soffocato il movimento di protesta per la rielezione di Ahmadinejad. Si firmano come un Ali qualsiasi, un Firuz che può essere ognuno di loro, una Shahla che ha il volto di mille altre Shahla, e il sostantivo più frequente nelle loro lamentele è l´inquietudine.
Sono i blogger la voce narrante dell´Iran che ignora i calcoli del regime, le sue reali possibilità di sopportare le sanzioni o i blitz militari e ha paura che l´insieme dagli apparati politico-militari del regime, sempre più gradassi e sicuri di sé quando si tratta di regolare i conti con l´Occidente, siano in realtà degli spavaldi "bluffer" e che alla fine sarà il popolo a pagare le conseguenze delle loro complicate acrobazie sui piani nucleari del paese.
«In nessuna fase della storia del nostro paese la guerra e l´invasione degli stranieri sono state a vantaggio della nostra gente e non lo saranno neppure questa volta. La guerra non conviene, né a noi iraniani né ad altri», ha scritto quell´Ali qualsiasi sul blog "Libertà e sviluppo". Vengono rievocate l´invasione degli arabi che hanno sconfitto l´Impero iraniano, quella dei mongoli che hanno elevato cumuli di cadaveri in ogni angolo del paese; si ricordano le interferenze della Cia che hanno determinato la fine di un governo apprezzato, quello di Mohammad Mossadegh negli anni Cinquanta, e soprattutto non si dimenticano le ferite provocate dagli otto anni di guerra imposta da Saddam Hussein. E quello dei blogger non è un pacifismo di maniera: è il terrore per il ritorno di un passato remoto e recente.
Ma è difficile che la repulsione nei confronti dell´invasore straniero renda accettabile un regime inviso. In un libro che non ha passato l´esame della censura e quindi è stato sintetizzato in un breve articolo sulla rete, l´accademico Rahimi Brugerdi scrive che l´Iran di oggi subisce ogni anno danni paragonabili al 75 per cento di quelli provocati in ciascuno degli anni di guerra con gli iracheni; che il governo di Ahmadinejad ha sperperato miliardi di dollari provenienti dalle vendite di petrolio in spese occulte oppure per scopi militari e che l´80 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà guadagnando meno di 500 euro al mese. Brugerdi elenca 23 voci per descrivere l´attuale situazione socio-economica del paese, citando le statistiche nazionali e quelle degli enti internazionali: una lenta agonia che non permette agli iraniani di occuparsi delle beghe tra Ahmadinejad e Khamenei, come fossero rassegnati a un male incurabile e a un destino maledetto.
Il senso d´impotenza che rasenta l´apatia, è cresciuto con la violenta sconfitta del movimento verde. L´eventualità di una guerra in questa situazione, che molti ritengono sia anche una speranza del regime, prospetta un triste panorama già visto, già vissuto: martellanti richiami all´orgoglio nazionale, a serrare le fila intorno al regime, mentre si farà scorrere acqua color sangue dalle fontane nelle piazze e si tappezzeranno le facciate degli edifici con le gigantografie degli eroi e dei martiri.
Tutto a vantaggio degli ayatollah ultraconservatori, dei pasdaran e dei nazional-militaristi che gestiscono il governo. Così qualcuno si aggrappa ai paradossi pur di uscire dell´odierno vicolo cieco e scrive: «Nessuna dittatura nella storia se n´è andata se non in seguito ad una guerra. Gli iraniani hanno di fronte due strade: chiedere con una sola voce la fine del regime, oppure accettare che sia una guerra a spazzarlo via. La prima soluzione non sembra a portata di mano: non ci resta che la guerra», ha scritto Iradj, un Iradj qualsiasi, ma la sua è una voce isolata.
Intanto gli strateghi della Repubblica islamica, insieme alle minacce, partendo dalla debolezza dell´Occidente a causa della crisi economica, dall´impasse degli Stati Uniti che faticano a uscire dal pantano afgano e dalle paludi mesopotamiche a un anno dalle elezioni presidenziali, non escludono la ripresa dei colloqui negoziali: «purché si faccia in un clima di rispetto reciproco», come sosteneva ieri il portavoce della diplomazia iraniana Rahim Mehmanparast. E puntano a tornare alle trattative, questa volta da una posizione di forza, proprio grazie al rapporto dell´Aiea e al sostegno della Russia, che giudica il dossier sul nucleare «non nuovo e politicizzato», e della Cina con entrambi i Paesi che già hanno fatto sapere di «non permettere che ci sia un attacco militare contro l´Iran». Da tempo infatti a Teheran molti pensano che con la bomba già pronta si negozia meglio. E si fa l´esempio della Corea del Nord, presa seriamente dagli americani soltanto quando si è accertato che Pyongyang possedeva l´ordigno atomico. Ma anche questo potrebbe essere un azzardo che fa crescere l´incertezza e l´inquietudine del popolo.
Bijan Zarmandili
Ora con Teheran un vero negoziato
Israele è pronto alla guerra preventiva contro l´Iran per impedirgli di dotarsi dell´arma atomica. Non è più questione di voci o di rivelazioni informali, è dibattito pubblico nello Stato ebraico e nel mondo. Specie dopo che l´ultimo rapporto dell´Agenzia Internazionale per l´Energia Atomica ha sostanziato e circostanziato i sospetti sull´obiettivo recondito del programma nucleare di Teheran: costruire la Bomba.
Prima di trovarsi di fronte al fatto compiuto e irreversibile di uno scontro armato nel cuore del Medio Oriente, è utile porsi tre domande. Che grado di certezza abbiamo che i persiani stiano davvero producendo un arsenale atomico? Quanto minaccioso sarebbe il progetto iraniano per Israele e per il mondo? Quanto pericoloso sarebbe l´attacco israeliano per l´Iran e per il mondo?
Sul primo quesito, alziamo le mani. Non avremo mai una risposta certa, almeno finché l´Iran sarà uno Stato sovrano in grado di proteggere i propri segreti. Ma le intelligence arabe e occidentali convergono nell´accreditare lo stato piuttosto avanzato del progetto atomico iraniano, in termini di know how, tecnologie e materiali necessari a battezzare l´arma estrema. La differenza, non irrilevante, è sui tempi (molti mesi o pochi anni) necessari al regime di Teheran per disporre del primo ordigno, base di un più vasto e spendibile arsenale. In questo caso non contano dunque i fatti certificabili, ma la ragionevole sicurezza - categoria soggettiva - che i fatti stiano in un certo modo. In Israele e non solo, l´opinione dominante è che il rischio di un Iran atomico sia effettivo, probabilmente imminente. In Arabia Saudita, arcirivale geopolitico, energetico e religioso dell´Iran - e per conseguenza paradossale alleato dello Stato ebraico in questa partita - la psicosi da Bomba persiana è financo più acuta. Mentre negli Stati Uniti, potenza protettrice di Gerusalemme, l´approccio è più conservativo, anche se gli allarmisti guadagnano terreno.
Un fattore decisivo ma quasi imperscrutabile riguarda il fronte politico iraniano. Lo scontro fra la Guida Suprema Ali Khamenei e il presidente Mahmud Ahmadinejad - agli occhi del primo un eretico, accomodante con l´America, dunque traditore - è al calor bianco. Nei prossimi mesi assisteremo alla resa dei conti ai vertici della Repubblica Islamica, anche in vista dell´elezione del successore di Ahmadinejad.
Quanto alla seconda domanda, in apparenza la risposta è lampante: l´arsenale nucleare di Teheran sarebbe una minaccia esistenziale per Israele, un pericolo per tutta la regione e per il mondo. A uno sguardo meno superficiale, questo giudizio si rivela semplicistico. Nessun paese dotato di bombe atomiche - Israele incluso - le ha finora mai impiegate, salvo gli Stati Uniti nel 1945. Sarebbe stupido inferirne che non sarà mai così. Ma gli stessi leader israeliani, compresi coloro che favoriscono l´ipotesi di un attacco preventivo ai siti nucleari persiani, sono consapevoli che l´Iran non ha una vocazione suicida. Nel momento in cui, in un atto di suprema follia, Teheran lanciasse dei missili con testata atomica su Tel Aviv, avrebbe la certezza di venire vetrificata nel giro di minuti dalla replica dei missili nucleari israeliani lanciati dai sottomarini Dolphin e da una copiosa rappresaglia atomica americana, se non atlantica.
La questione non è quindi riducibile all´aspetto militare. Il sottotesto decisivo è geopolitico. Ammettendo che l´Iran produca nel tempo bombe e vettori in quantità sufficiente da dotarsi di una credibilità nucleare paragonabile a quella dei vicini pachistano, russo o israeliano, il suo rango nella regione e nel mondo ne verrebbe notevolmente innalzato. Teheran si affermerebbe come egemone nel Golfo e in Asia occidentale, con grande scorno non solo di Israele e degli occidentali, ma soprattutto dell´Arabia Saudita, degli altri Stati arabi e del Pakistan. Si scatenerebbe la corsa regionale all´atomica. In prima linea Turchia, Egitto e Arabia Saudita, forse altri attori minori. Una proliferazione che renderebbe assai labile il paradigma della deterrenza e più concreta l´alea della catastrofe atomica anche solo accidentale.
Alla terza domanda si può replicare con le parole dell´ex capo del Mossad, Meir Dagan, che ha bollato i piani di attacco israeliani agli impianti nucleari persiani come "follia". Nell´establishment politico-militare di Gerusalemme è in atto un confronto non meno virulento di quello che divide le élite iraniane. In compenso, è largamente pubblico. Il premier Netanyahu e il ministro della Difesa Barak - cui di recente si è aggiunto il ministro degli Esteri Lieberman - sarebbero pronti a sferrare l´attacco nei prossimi mesi. Buona parte dei generali e soprattutto del Mossad dubita alquanto della convenienza e dell´utilità di bombardare l´Iran. La più che probabile rappresaglia iraniana si materializzerebbe in una pioggia di missili forse anche con testate chimiche, di attentati terroristici e di contromisure (blocco dello Stretto di Hormuz, da cui transita gran parte degli idrocarburi diretti ai paesi sviluppati), con rischio di guerra regionale, intervento americano e di altre potenze esterne. Il prezzo dell´energia salirebbe alle stelle, almeno per qualche mese, con effetti economici devastanti. Chi è disposto ad accettare questi rischi, in cambio del ritardo di qualche anno nello sviluppo della Bomba iraniana?
Combinando le risposte alle tre domande, la conclusione ragionevole parrebbe di inasprire le sanzioni contro l´Iran e insieme di aprire con Teheran un vero negoziato. Obiettivo: impedire al regime dei pasdaran di sviluppare l´arsenale nucleare in cambio del riconoscimento del suo ruolo regionale e della sua reintegrazione in ciò che resta del "sistema internazionale". Ipotesi forse troppo razionale per diventare realtà.
Prima di trovarsi di fronte al fatto compiuto e irreversibile di uno scontro armato nel cuore del Medio Oriente, è utile porsi tre domande. Che grado di certezza abbiamo che i persiani stiano davvero producendo un arsenale atomico? Quanto minaccioso sarebbe il progetto iraniano per Israele e per il mondo? Quanto pericoloso sarebbe l´attacco israeliano per l´Iran e per il mondo?
Sul primo quesito, alziamo le mani. Non avremo mai una risposta certa, almeno finché l´Iran sarà uno Stato sovrano in grado di proteggere i propri segreti. Ma le intelligence arabe e occidentali convergono nell´accreditare lo stato piuttosto avanzato del progetto atomico iraniano, in termini di know how, tecnologie e materiali necessari a battezzare l´arma estrema. La differenza, non irrilevante, è sui tempi (molti mesi o pochi anni) necessari al regime di Teheran per disporre del primo ordigno, base di un più vasto e spendibile arsenale. In questo caso non contano dunque i fatti certificabili, ma la ragionevole sicurezza - categoria soggettiva - che i fatti stiano in un certo modo. In Israele e non solo, l´opinione dominante è che il rischio di un Iran atomico sia effettivo, probabilmente imminente. In Arabia Saudita, arcirivale geopolitico, energetico e religioso dell´Iran - e per conseguenza paradossale alleato dello Stato ebraico in questa partita - la psicosi da Bomba persiana è financo più acuta. Mentre negli Stati Uniti, potenza protettrice di Gerusalemme, l´approccio è più conservativo, anche se gli allarmisti guadagnano terreno.
Un fattore decisivo ma quasi imperscrutabile riguarda il fronte politico iraniano. Lo scontro fra la Guida Suprema Ali Khamenei e il presidente Mahmud Ahmadinejad - agli occhi del primo un eretico, accomodante con l´America, dunque traditore - è al calor bianco. Nei prossimi mesi assisteremo alla resa dei conti ai vertici della Repubblica Islamica, anche in vista dell´elezione del successore di Ahmadinejad.
Quanto alla seconda domanda, in apparenza la risposta è lampante: l´arsenale nucleare di Teheran sarebbe una minaccia esistenziale per Israele, un pericolo per tutta la regione e per il mondo. A uno sguardo meno superficiale, questo giudizio si rivela semplicistico. Nessun paese dotato di bombe atomiche - Israele incluso - le ha finora mai impiegate, salvo gli Stati Uniti nel 1945. Sarebbe stupido inferirne che non sarà mai così. Ma gli stessi leader israeliani, compresi coloro che favoriscono l´ipotesi di un attacco preventivo ai siti nucleari persiani, sono consapevoli che l´Iran non ha una vocazione suicida. Nel momento in cui, in un atto di suprema follia, Teheran lanciasse dei missili con testata atomica su Tel Aviv, avrebbe la certezza di venire vetrificata nel giro di minuti dalla replica dei missili nucleari israeliani lanciati dai sottomarini Dolphin e da una copiosa rappresaglia atomica americana, se non atlantica.
La questione non è quindi riducibile all´aspetto militare. Il sottotesto decisivo è geopolitico. Ammettendo che l´Iran produca nel tempo bombe e vettori in quantità sufficiente da dotarsi di una credibilità nucleare paragonabile a quella dei vicini pachistano, russo o israeliano, il suo rango nella regione e nel mondo ne verrebbe notevolmente innalzato. Teheran si affermerebbe come egemone nel Golfo e in Asia occidentale, con grande scorno non solo di Israele e degli occidentali, ma soprattutto dell´Arabia Saudita, degli altri Stati arabi e del Pakistan. Si scatenerebbe la corsa regionale all´atomica. In prima linea Turchia, Egitto e Arabia Saudita, forse altri attori minori. Una proliferazione che renderebbe assai labile il paradigma della deterrenza e più concreta l´alea della catastrofe atomica anche solo accidentale.
Alla terza domanda si può replicare con le parole dell´ex capo del Mossad, Meir Dagan, che ha bollato i piani di attacco israeliani agli impianti nucleari persiani come "follia". Nell´establishment politico-militare di Gerusalemme è in atto un confronto non meno virulento di quello che divide le élite iraniane. In compenso, è largamente pubblico. Il premier Netanyahu e il ministro della Difesa Barak - cui di recente si è aggiunto il ministro degli Esteri Lieberman - sarebbero pronti a sferrare l´attacco nei prossimi mesi. Buona parte dei generali e soprattutto del Mossad dubita alquanto della convenienza e dell´utilità di bombardare l´Iran. La più che probabile rappresaglia iraniana si materializzerebbe in una pioggia di missili forse anche con testate chimiche, di attentati terroristici e di contromisure (blocco dello Stretto di Hormuz, da cui transita gran parte degli idrocarburi diretti ai paesi sviluppati), con rischio di guerra regionale, intervento americano e di altre potenze esterne. Il prezzo dell´energia salirebbe alle stelle, almeno per qualche mese, con effetti economici devastanti. Chi è disposto ad accettare questi rischi, in cambio del ritardo di qualche anno nello sviluppo della Bomba iraniana?
Combinando le risposte alle tre domande, la conclusione ragionevole parrebbe di inasprire le sanzioni contro l´Iran e insieme di aprire con Teheran un vero negoziato. Obiettivo: impedire al regime dei pasdaran di sviluppare l´arsenale nucleare in cambio del riconoscimento del suo ruolo regionale e della sua reintegrazione in ciò che resta del "sistema internazionale". Ipotesi forse troppo razionale per diventare realtà.
Lucio Caracciolo
martedì 8 novembre 2011
LE DIFFICOLTA' DEL DIALOGO INTER CULTURALE IN ITALIA
La crescente presenza di immigrati di religione islamica in Italia (secondo gli ultimi dati una cifra compresa tra il milione e mezzo e il milione e settecento mila, più un numero imprecisato di "irregolari" o "clandestini") ha reso ineludibile il bisogno di un dialogo inter religioso e inter culturale tra Islam e Cattolicesimo.
In questo dialogo l'Italia arriva buon ultima: perché è recentissima la sua trasformazione da terra di emigrazione a terra di immigrati; perché a differenza di altri grandi paesi europei gli italiani non sono culturalmente e psicologicamente attrezzati per instaurare "rapporti normali" con l'Altro; perché la presenza e il peso politico della Chiesa Cattolica e del Vaticano hanno fatto si che più che altrove l'enfatizzazione delle radici cristiano cattoliche è stata più accentuata. Tutti ricordano che il governo italiano, facendosi carico delle precise istanze vaticane, è stato il porta bandiera dell'inserimento nella costituzione europea delle espressioni "radici cristiane dell'Europa e dell'Italia in particolare"; a ben vedere sia l'Europa, sia l'Italia, di radici ne hanno molte altre e non meno profonde, dal diritto romano all'arte e alla filosofia greca, dagli apporti inconsapevoli delle invasione barbariche, germanico,slave alle influenze dei popoli colonizzati; non si comprende perché tra le radici, e neppure tra le più piccole non possa trovare posto anche la radice islamica. Una grande regione come la Sicilia è stata governata per 300 anni dagli arabi e in un periodo che va dall'VIII secolo al XIII secolo la cultura araba ha permeato di se la scienza, l'architettura e persino la poesia: i primi poeti italiani sono stati i poeti siciliani cresciuti alla corte arabo-normanna di Federico II. Accenniamo appena agli innumerevoli vocaboli di origine araba presenti nella nostra lingua e alle non conosciute tracce che gli arabi hanno lasciato nel nostro costume: solo ieri ho scoperto che Dante Alighieri era un appassionato di un gioco misto di dadi e dama il cui nome era "Dazara": la parola Azar è araba e da essa deriva l'espressione "Gioco d'Azzardo".
Escludere come se si trattasse di un'inaccettabile contaminazione la presenza di queste radici nella nostra storia, nella nostra cultura e nelle nostra lingua è già di per se un elemento che getta una macchia sulle possibilità di dialogo tra la cultura italica di matrice europea e la cultura arabo-islamica che, pure, ha in comune con quella italiana il fatto di essere l'erede delle grandi civiltà che hanno dominato il Mediterraneo per migliaia di anni e formato i popoli che vi si affacciano.
A livello di massa sono pochi, specie nelle regioni del nord Italia dove allinea il becero razzismo della Lega, disposti a riconoscere che l'identità italica è molto più vicina a quella degli egiziani e dei nord africani che non a quella degli scandinavi, degli slavi e degli stessi tedeschi. Credendo di fare una battuta di sicuro effetto propagandistico un politico come Casini, nel polemizzare con chi sosteneva le ragioni dell'incontro e dello scambio fra civiltà ebbe ad esclamare in una trasmissione televisiva che lui voleva seguitare ad andare a messa la domenica e non il venerdì, alludendo al fatto che il venerdì è il giorno di preghiera dei musulmani ma ignorando che essi, nelle moschee, non celebrano messe di alcun genere anche perché non hanno preti.
Il fatto che la gran parte dei musulmani presenti in Italia siano immigrati provenienti da paesi considerati arretrati culturalmente e sottosviluppati dal punto di vista economico, genera nella maggioranza degli italiani la diffusa convinzione che i musulmani siano poco più che dei selvaggi; e questo complesso di superiorità, per non dire di disprezzo, viene esteso anche a chi, nato in Italia, cresciuto in Italia e fornito di livelli d'istruzione e di cultura superiore alla media si è "infangato" abbracciando una religione di fondamentalisti intolleranti e non di rado sanguinari terroristi.
Anche la Chiesa Cattolica nella sua versione ("ufficiale") non manca in molte occasioni di accingersi al dialogo con i musulmani non accantonando del tutto i pregiudizi accumulati dei secoli nei confronti dei "saraceni", dei turchi e dei "mori": il che da spesso agli incontri con qualche prelato dall'atteggiamento benevolmente paternalistico un tono inconsciamente missionario e salvifico: non dimentichiamo che mentre per l'Islam il Vangelo di Gesù è un testo sacro ispirato da Dio e che Gesù è il solo Profeta cui Dio ha dato il potere di compiere miracoli: riconoscimenti neppure lontanamente accostabili a quanto viene concesso al Corano e al Profeta Muhammad.
Purtroppo non manca nella Chiesa chi tende ad imbastire il dialogo inter religioso e inter culturale con quei musulmani che, per opportunismo, scarsa fede e deplorevole tendenza a compromessi non paritari, sono pronti a rivendicare per se la qualifica di musulmani moderati, tacciando gli altri dell'arbitrario attributo di islamisti o islamici estremisti.
Su questa linea abbiamo registrato anche a Vicenza negativi comportamenti che si sono estesi agli uomini politici, presenti nelle istituzioni, che più facilmente amano assumere atteggiamenti clericali.
E questo è un tema che approfondiremo in un prossimo post alla luce di alcuni episodi accaduti nella città di Vicenza.
In questo dialogo l'Italia arriva buon ultima: perché è recentissima la sua trasformazione da terra di emigrazione a terra di immigrati; perché a differenza di altri grandi paesi europei gli italiani non sono culturalmente e psicologicamente attrezzati per instaurare "rapporti normali" con l'Altro; perché la presenza e il peso politico della Chiesa Cattolica e del Vaticano hanno fatto si che più che altrove l'enfatizzazione delle radici cristiano cattoliche è stata più accentuata. Tutti ricordano che il governo italiano, facendosi carico delle precise istanze vaticane, è stato il porta bandiera dell'inserimento nella costituzione europea delle espressioni "radici cristiane dell'Europa e dell'Italia in particolare"; a ben vedere sia l'Europa, sia l'Italia, di radici ne hanno molte altre e non meno profonde, dal diritto romano all'arte e alla filosofia greca, dagli apporti inconsapevoli delle invasione barbariche, germanico,slave alle influenze dei popoli colonizzati; non si comprende perché tra le radici, e neppure tra le più piccole non possa trovare posto anche la radice islamica. Una grande regione come la Sicilia è stata governata per 300 anni dagli arabi e in un periodo che va dall'VIII secolo al XIII secolo la cultura araba ha permeato di se la scienza, l'architettura e persino la poesia: i primi poeti italiani sono stati i poeti siciliani cresciuti alla corte arabo-normanna di Federico II. Accenniamo appena agli innumerevoli vocaboli di origine araba presenti nella nostra lingua e alle non conosciute tracce che gli arabi hanno lasciato nel nostro costume: solo ieri ho scoperto che Dante Alighieri era un appassionato di un gioco misto di dadi e dama il cui nome era "Dazara": la parola Azar è araba e da essa deriva l'espressione "Gioco d'Azzardo".
Escludere come se si trattasse di un'inaccettabile contaminazione la presenza di queste radici nella nostra storia, nella nostra cultura e nelle nostra lingua è già di per se un elemento che getta una macchia sulle possibilità di dialogo tra la cultura italica di matrice europea e la cultura arabo-islamica che, pure, ha in comune con quella italiana il fatto di essere l'erede delle grandi civiltà che hanno dominato il Mediterraneo per migliaia di anni e formato i popoli che vi si affacciano.
A livello di massa sono pochi, specie nelle regioni del nord Italia dove allinea il becero razzismo della Lega, disposti a riconoscere che l'identità italica è molto più vicina a quella degli egiziani e dei nord africani che non a quella degli scandinavi, degli slavi e degli stessi tedeschi. Credendo di fare una battuta di sicuro effetto propagandistico un politico come Casini, nel polemizzare con chi sosteneva le ragioni dell'incontro e dello scambio fra civiltà ebbe ad esclamare in una trasmissione televisiva che lui voleva seguitare ad andare a messa la domenica e non il venerdì, alludendo al fatto che il venerdì è il giorno di preghiera dei musulmani ma ignorando che essi, nelle moschee, non celebrano messe di alcun genere anche perché non hanno preti.
Il fatto che la gran parte dei musulmani presenti in Italia siano immigrati provenienti da paesi considerati arretrati culturalmente e sottosviluppati dal punto di vista economico, genera nella maggioranza degli italiani la diffusa convinzione che i musulmani siano poco più che dei selvaggi; e questo complesso di superiorità, per non dire di disprezzo, viene esteso anche a chi, nato in Italia, cresciuto in Italia e fornito di livelli d'istruzione e di cultura superiore alla media si è "infangato" abbracciando una religione di fondamentalisti intolleranti e non di rado sanguinari terroristi.
Anche la Chiesa Cattolica nella sua versione ("ufficiale") non manca in molte occasioni di accingersi al dialogo con i musulmani non accantonando del tutto i pregiudizi accumulati dei secoli nei confronti dei "saraceni", dei turchi e dei "mori": il che da spesso agli incontri con qualche prelato dall'atteggiamento benevolmente paternalistico un tono inconsciamente missionario e salvifico: non dimentichiamo che mentre per l'Islam il Vangelo di Gesù è un testo sacro ispirato da Dio e che Gesù è il solo Profeta cui Dio ha dato il potere di compiere miracoli: riconoscimenti neppure lontanamente accostabili a quanto viene concesso al Corano e al Profeta Muhammad.
Purtroppo non manca nella Chiesa chi tende ad imbastire il dialogo inter religioso e inter culturale con quei musulmani che, per opportunismo, scarsa fede e deplorevole tendenza a compromessi non paritari, sono pronti a rivendicare per se la qualifica di musulmani moderati, tacciando gli altri dell'arbitrario attributo di islamisti o islamici estremisti.
Su questa linea abbiamo registrato anche a Vicenza negativi comportamenti che si sono estesi agli uomini politici, presenti nelle istituzioni, che più facilmente amano assumere atteggiamenti clericali.
E questo è un tema che approfondiremo in un prossimo post alla luce di alcuni episodi accaduti nella città di Vicenza.
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