lunedì 12 marzo 2012

AFGHANISTAN

Marine spara sui civili strage di donne e bambini

NEW YORK - Ha portato l'inferno casa per casa, una strage della follia nella follia della guerra più lunga del secolo, è entrato e ha fatto fuoco come un Rambo impazzito, falciando le donne sorprese nel sonno, spedendo una decina di piccini in paradiso. I morti sono almeno 16, tra cui nove bambinie quattro donne. Ma i vecchi dei villaggi confinanti di Balandi e Alkozai, a mezzo chilometro dalla base Usa nel distretto di Panjwai, nella provincia di Kandahar che fu la roccaforte dei Taliban edè pure la patria del presidente Hamid Karzai, adesso dicono che i morti sono molti di più e che non è stato un Rambo impazzito, erano molti di più anche i soldati «ubriachi e in missione per uccidere». Gli americani smentiscono, il massacratore del Panjwai si è già consegnato e il presidente Barack Obama parla di incidente «tragico e scioccante»: però nell'attesa di «un'inchiesta rapida» promette di «assicurare alla giustizia chiunque si sia reso responsabile». Certo che è una frase di rito: ma davvero potrebbe essersi trattato di un gruppo impazzito? La strage si è consumata dall'1 alle 3 del mattino, tre o quattro sarebbero le case visitate dall'angelo della morte, un sergente appartenente a quei corpi speciali che dovrebbero essere il meglio del meglio delle truppe di stanza qui, incaricato per di più dell'istruzione e dell'addestramento delle truppe afgane che da quest'anno dovrebbe prendere in consegna la sicurezza del paese, nell'attesa del completo ritiro di americani e Nato che Obama ha promesso per il 2014. Karzai furioso parla di «assassinio», «intenzionale esecuzione di civili innocenti che è imperdonabile», come fa a chiamarlo «incidente» come gli americani? Il capo del Pentagono Leon Panetta è il primo a telefonargli per esprimergli «condoglianze e condanna» prima che a farlo sia lo stesso Obama, che in una dichiarazione ribadisce il concetto, assicura un'inchiesta rapida ma non riporta le reazioni del presidente afgano che devono essere state evidentemente devastanti.
No, questa non solo è la strage più atroce che sarebbe stata compiuta da un solo soldato in più di dieci anni di guerra. Questo è anche il «colpo mortale» sulla missione americana in Afghanistan, dice il direttore del Kroc Institute, David Cortright, che è uno dei massimi esperti in materia. Anche per Obama è più di uno shock nell'anno decisivo per la sua difficile rielezione.
Tentando di guadagnare qualche voto in più alla vigilia delle primarie, perfino Newt Gingrich, che in Mississippi e Alabama punta a un risultato per ritornare in corsa, dice che la missione in Afghanistan «non è più fattibile». Però lui, Mitt Romney e Rick Santorum hanno finora attaccato il presidente che aveva accelerato sul ritiro e aveva chiesto scusa agli afgani dopo il rogo del Corano che due settimane fa ha fatto ripiombare il paese nel caos: almeno 36 vittime, proteste, insurrezioni, morte agli yankees.
Non è un caso che condannando l'orrore ora Obama dice che «l'incidente non rappresenta l'eccezionale carattere dei nostri militari e il rispetto che gli Usa hanno per il popolo dell'Afghanistan»: altro che scuse. Ma la strage nei villaggi ora potrebbe accendere un rogo ancora più devastante di quello del Corano. Le testimonianze tutte da verificare della gente del posto, dove i Taliban sono popolarissimi, parlano di 50 morti. Racconta Agha, 20 anni: «Gli americani si sono fermati in casa per un po', io ero terrorizzato, mia madre centrata negli occhi e al volto, era irriconoscibile, mio fratello colpito alla testa e nel petto, mia sorella pure uccisa, io mi sono buttato per terra fingendomi morto». La gente dei villaggi insiste che i soldati erano ubriachie lo stesso Karzai rilanciai sospetti rivelando di aver parlato con un ragazzo, Rafallah, 15 anni, miracolosamente scampato e ferito alle gambe, che racconta di «diversi militari» che sarebbero piombati in casa sparando all'impazzata su tutta la famiglia. Anche una dichiarazione della Nato riconosce che la strage è stata compiuta «in più di un villaggio»: davvero da un solo uomo? L'anno scorso il mondo intero fu devastato dallo shock per l'arresto di un gruppo di soldati che si erano divertiti a uccidere «per sport, per gioco» - e sotto effetto di droghe - almeno tre civili afgani, mascherando gli attacchi con la legittima difesa.
Il mese scorso hanno sempre fatto il giro del mondo le immagini altrettanto shock dei marines che urinavano sui cadaveri dei Taliban. La guerra infinita sembrava avere già mostrato tutto il suo orrore: la strage della notte di Panjwai ha distrutto anche quest'ultima certezza.
Angelo Aquaro

Dal Vietnam all'Iraq, l'orrore insegue i soldati al fronte

Dal Vietnam all'Iraq, l'orrore insegue i soldati al fronte. Quanto è accaduto in Afghanistan è la normalità della guerra combattuta contro nemici senza uniforme. Dove l'odio cancella la pietà e scatena i massacri.

Abbiamo incontrato il nemico e il nemico siamo noi. Quello che è accaduto in Afghanistan è la conseguenza inevitabile di guerre demenziali condotte su premesse demenziali, chiamate addirittura “preventive” (ma de che?) disegnate, nel caso di Iraq e Afghanistan, da quegli imbecilli arroganti e supponenti chiamati neo-con che condizionarono un debole e ignorante Giorgino II, uno sbruffoncello texano senza palle, tutto cappello e niente cavallo come si dice appunto in Texas, dunque pericoloso come tutti i deboli, nel panico dopo l’ 11 settembre. (A proposito: il suo nome è diventato impronunciabile, nessun candidato repubblicano osa neppure nominarlo). Non meravigliamoci. Inorridiamo, ma non facciamo finta di non sapere e non vedere che cosa succede quando si combattono guerre per ragioni ideologiche, religiose o politiche, tinte da segrete ma visibilissime motivazione razziali. La democrazia non si esporta, non è un’automobile o un container di scarpe, la si produce. O la si distrugge. Via, via, via subito, ieri, non domani.
È il sogno di tutti gli eserciti. Un comandante svincolato da tutte le radici che lo legano alla madrepatria, con gli uomini sotto il suo comando come lui, dedito alla guerra come arte e fine ultimo della propria esistenza che non cerca medaglie od encomi ma fa bene il suo lavoro in maniera totalizzante (e questo anche per l’esercito russo; basta ricordare le forze speciali in Cecenia). Un comandante come il colonnello Kurtz, ma con una sola piccola condizione: che ubbidisca quando la madrepatria ha deciso il termine di quella campagna o di quella guerra e si ritiri per incominciarne magari subito dopo un’altra.
In un “soldato” l’esercito non ha mai cercato l’umanità: ha sempre cercato altre cose. E certi comportamenti sul “campo di battaglia” non solo sono tollerati ma pretesi ed incentivati. I militari li abbiamo bisogno “cazzuti”. Alle anime candide, perché si mantengano tali, si deve lasciare la politica in tempo di pace, ma in guerra devono poter comandare i militari senza condizionamenti di sorta.
Il plotone è un nucleo a sé dove i componenti agiscono in sintonia e sono pronti a mettere in gioco la propria vita l’uno per salvare l’altro mentre il controllo (ricordate il “commissario politico” e la “polizia segreta” aggregata alle compagnie dell’esercito russo della II Guerra Mondiale o le SS per la Wehrmacht dei tedeschi?) è oggi demandato al gruppo che autonomamente ne gestisce l’assorbimento o l’espulsione del singolo che si deve adeguare al “pensiero comune”. E la compagnia è lo “Stato” dove i plotoni hanno la cittadinanza.
Il fatto di ieri, con le due versioni (quella dell’esercito e quella discordante dei testimoni oculari locali) della “verità”, è sintomatico di come si risolvono le cose in ambito militare: si cerca la soluzione ottimale, con il minor danno possibile per tutti, e si avalla la tesi più consona al di là di ogni razionalità e di ogni evidenza. Si è addossata la colpa sul più alto in grado e lo si è definito come “impazzito”, forse in preda ad un forte esaurimento nervoso. Tutti però si dimenticano che i comportamenti (che un civile definirebbe criminali) “provocatori”, nel caso di un esercito d’occupazione, sono tollerati – anzi, favoriti – perché funzionali a far emergere, come reazione, gli insurgents in immediate azioni di risposta per essere individuati e repressi (terminati) e, così, pacificare in breve il Paese occupato.
Io, essendo un civile, propendo per la versione dei locali supportata dalla testimonianza di un cronista della AFP (France Presse). Nessuno potrà mai spiegarmi razionalmente che questa strage sia opera di un solo militare – versione del Pentagono – uscito dal campo (a piedi? Scavalcando le recinzioni a difesa del campo base senza essere visto dagli uomini di guardia? Su un Humvee? E se motorizzato passato da dove per uscire? Nessun altro di guardia all’ingresso principale?) che si è recato in due villaggi vicini a mezzo chilometro dalla base a fare il suo lavoro di uccidere per poi dare alle fiamme i cadaveri e tornarsene, passeggiando, alla base.
Questi due villaggi sono due no-name villages nei notiziari americani: viene nominata solo la località di Panjwai nella provincia di Kandahar (o Qandahar che dir si voglia). Alokozai e Garrambai non hanno importanza, sono non-luoghi che non devono esistere fisicamente, devono essere nel limbo di un immaginario lontano dalla realtà dell’americano medio.
Per avere una chiave interpretativa di certi accadimenti in ambito militare bisognerebbe sentire l’altra campana, oltre a quella ufficiale del Pentagono, e andare a rileggersi il libro-testimonianza del disertore Joshua (Josh) Key che, inviato in Iraq dopo due settimane dall’inizio della guerra, “non trova le armate del terrore globale ma moltitudini di civili iracheni maltrattati, mutilati o uccisi per una qualsiasi reazione o sospetto di provocazione. Partecipa a innumerevoli rastrellamenti e ispezioni di case in cui si ritiene che si nascondano terroristi o le tracce delle loro attività. Non trova mai nessuna prova. Assiste invece alla violazione continua dei diritti umani, alla sparizione di civili iracheni nei campi di detenzione americani, alla morte e alla sofferenza dei suoi amici, dei compagni d’armi, di donne e bambini. Sette mesi dopo Joshua ritorna a casa per una licenza di due settimane. Ne ha avuto abbastanza. Non riesce a sopportare il dolore e la vergogna, la violenza inflitta ai soldati americanie ai civili iracheni. Decide di rifiutare, di sottrarsi, di smettere di agire come il braccio senza testa di una strategia insensata e tragica. Sceglie di disertare. Informa i parenti e la moglie, che lo seguirà con i figli. Lunghi mesi di spostamenti e clandestinità, per poi attraversare il confine e cercare rifugio in Canada.
Joshua Key ha abbandonato gli Stati Uniti, e ha lasciato dietro di sé un uomo che non esiste piú, un altro se stesso” [dal risguardo di copertina del libro].

Fernardo Bezzi

Nessun commento:

Posta un commento