sabato 24 marzo 2012

LIBIA E EGITTO

Sul Corriere della Sera fra le lettere al direttore che hanno il privilegio di ricevere delle risposte equilibrate e documentate di Sergio Romano, ne è stata pubblicata Martedì 20 Marzo una di tal Giovanni Bertei di La Spezia.
Pubblichiamo sia la lettera, sia la risposta di Sergio Romano, esemplare nella ricchezza di argomenti e di aderenza alla verità storica.

LA CRISI IN EGITTO E LIBIA DUE TRANSIZIONI A CONFRONTO

In Egitto e in Libia, due Paesi dove regnavano, se non altro, ordine, sicurezza e anche un certo progresso economico, ora imperversano guerriglia e massacri tra bande opposte, nel tentativo di pervenire a una democrazia irraggiungibile causa il prevalere di un Islam fanatico e prevaricatore, che certamente condurrà a dittature religiose o militari ben più spietate e feroci di quelle di Mubarak e Gheddafi. Valeva la pena di fare ciò che è stato fatto in Libia?

Giovanni Bertei, La Spezia


Caro Bertei, fra l’Egitto e la Libia esistono fondamentali differenze. L’Egitto ha vecchie istituzioni, collaudate dal tempo. Ha una classe dirigente che ha avuto importanti incarichi internazionali, come quello di Boutros Boutros Ghali, segretario generale dell’Onu dal 1992 al 1996, e di Mohamed el Baradei, direttore dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) dal 1997 al 2009. Ha forze armate moderne che stanno sovraintendendo, bene o male, al passaggio del Paese da un regime autoritario a un sistema politico rappresentativo. Ha una classe di imprenditori che hanno, come nel caso di Naguib Sawiris fondatore di Wind, importanti posizioni internazionali. Ha giovani educati che sanno usare le nuove tecnologie e conoscono il mondo molto meglio dei loro padri e delle loro madri. Ha scuole superiori, centri di studio e ricerca, la maggiore università del mondo musulmano (Al Ahzar) e il quotidiano più autorevole della regione (Al Ahram). È certamente la casa madre della Fratellanza musulmana, vale a dire dell’organizzazione che ha generato quasi tutti i movimenti integralisti del mondo arabo. Ma è anche il Paese dove la Fratellanza ha svolto un apprezzabile ruolo sociale e ha saputo rimettere in discussione le proprie strategie. Con tutte le incertezze di un processo incompiuto, l’Egitto ha un calendario politico e istituzionale che è stato sinora sostanzialmente rispettato. Attenzione. Questo apparente elogio tiene conto del contesto politico e sociale in cui il Paese è collocato. Ogni giudizio, in questa materia, è sempre necessariamente relativo. La Libia è pressoché totalmente priva delle virtù egiziane. Ha una classe dirigente modesta e numericamente limitata perché Gheddafi ha allevato soltanto clienti e cortigiani. Ha un esercito debole e poco autorevole perché Gheddafi diffidava delle forze armate. Non ha istituzioni statali perché Gheddafi era, letteralmente, il padrone del Paese. Non ha una società civile perché il cittadino è anzitutto membro della propria tribù. Mentre in Egitto assistiamo a una transizione, in Libia la transizione non è ancora cominciata. Il governo non può contare sull’esercito, pressoché inesistente, e deve fare fronte a una galassia di milizie (circa duecentomila uomini) che non hanno rinunciato alle armi trovate negli arsenali dello Stato o fornite dalla coalizione antigheddafiana durante il conflitto. Non può contare sulle tribù perché ciascuna di esse vuole trarre il massimo vantaggio possibile dai giacimenti scoperti nel proprio territorio. Non può contare sul sentimento nazionale perché le tribù della Cirenaica chiedono un’autonomia che confina pericolosamente con l’indipendenza. Non è facile, in una tale situazione, rimettere in moto l’economia nazionale e garantire ai libici i benefici elargiti da Gheddafi. In un articolo apparso nell’ultimo numero di Oasis, rivista di una fondazione internazionale creata dal cardinale Angelo Scola, un docente dell’Università di Losanna, Moncef Djaziri, ne ha ricordati alcuni. L’elettricità per uso domestico era gratuita, la benzina costava 10 centesimi di euro, i libici, praticamente, non pagavano le tasse, le banche concedevano prestiti a tassi d’interesse molto bassi, le automobili importate venivano vendute a prezzo di fabbrica, i lavori più sgraditi e logoranti erano fatti da un milione e mezzo d’immigrati, il reddito pro capite ammontava a 17.000 dollari, il doppio di quello tunisino, tre volte quello dell’Egitto. Non vorrei che qualche libico, di qui a poco, cominciasse a dire che il regime del colonnello non era poi così male. 

Sergio Romano


Abbiamo ritenuto di pubblicare anche la lettera, cui Sergio Romano ha fornito risposta, come esempio di quella caratteristica di tanti lettori italiani i quali pretendono di interloquire o di discettare su argomenti di cui non sanno praticamente nulla. Va chiarito che molto spesso, dietro alla pretenziosità di taluni interventi, vi è normalmente una sostanziale ignoranza di base che, per altro, non è esente da disinformazione in malafede.
Un italiano che volesse parlare con cognizione di causa sulla Libia farebbe bene prima a leggersi la fondamentale opera dello storico De Voca, che documenta i crimini che gli italiani hanno commesso per quasi 50 anni in Libia e soprattutto in Cirenaica ai tempi in cui il nostro bel paese aveva governi desiderosi di restaurare l'Impero Romano, da Giolitti a Salandra per finire al Duce per eccellenza Benito Mussolini. Convinti com'erano della loro missione "civilizzatrice", i militari italiani che sbarcarono in quella che veniva chiamata "La IV Sponda italiana" o "La Sirena del Mediterraneo", rimasero esterefatti quando si resero conto che i libici (tripolitani e cirenaici) non avevano nessuna intenzione di considerare "liberatori" e civilizzatori gli italiani e fin dall'inizio dell'invasione di essi combatterono con durezza e con valore a fianco dei Turchi, infliggendo alle sbalordite truppe ammantate dal Tricolore sconfitte dietro sconfitte. Il ministro Salandra commentò sconsolato: "E' peggio di Adua! E' peggio di Adua!", facendo riferimento alla durissima batosta che gli Etiopi avevano inflitto alle truppe italiane inviate da Francesco Crispi poco più di vent'anni prima. La risposta italiana fu una delle più feroci, sanguinarie e selvagge dell'intera storia coloniale europea, e fecero impallidire le efferatezze che i francesi avevano compiuto in un secolo in Algeria. Impiccagioni di massa, decimazioni, marce della morte, lager, stragi di rappresaglia nella popolazione civile provocarono nella popolazione libica più di 100 mila morti in una popolazione inferiore al milione di abitanti.
Siamo i meno qualificati per soffermarci sulla ferocia di Gheddafi e su quanto è avvenuto in Libia in tempi più recenti.
Lo stesso pudore storico-politico dovrebbe trattenerci dal fare troppi svolazzi su quanto è avvenuto in Jugoslavia dopo il 1940 quando il solito Mussolini, nella sua gara di grandezza imperiale e di ferocia col suo "socio dai baffetti" (Adolf Hitler), invase la Jugoslavia, la fece a pezzettini, trasformò mezza Slovenia nella provincia italiana di Lubbiana, creò il regno fantoccio di Croazia di cui venne nominato re Aimone di Savoia, ma primo ministro fu nominato Antepavelic, guida dei nazi-fascisti-cattolici croati che in un quinquennio dimezzarono la popolazione serba di Bosnia ammazzandone un milione con metodi che fecero rabbrividire anche le SS tedesche e, già che aveva le mani in pasta, massacrò 80 mila ebrei e circa 100 mila rom. Naturalmente venne il momento in cui i nazi-fascisti italo-tedeschi dovettero lasciare il "maltolto" perché i partigiani jugoslavi, con una lotta di resistenza tra le più valorose della Seconda Guerra Mondiale, gli ricacciarono dal suolo della loro patria. Era inevitabile che dopo quanto gli italiani avevano combinato soprattutto in Slovenia, gli slavi avevano qualche conto da regolare; e lo regolarono con le foibe, dove secondo i dati accuratamente ricostruiti da una commissione post bellica italo-jugoslava risultò che gli italiani infoibati erano stato un numero compreso tra gli 8mila e i 10 mila, in buona parte componenti della legione giuliana di SS italiane.
Ho citato questa vicenda per mettere in evidenza che tra i personaggi che si inventano al loro consumo una realtà storica completamente deformata non vi sono soltanto disinformati lettori autori di lettere ai giornali, ma anche illustrissimi personaggi. Quando è stato introdotto in Italia poco tempo fa la "Giornata della Memoria" per ricordare le vittime italiane delle foibe, il presidente in carica Giorgio Napolitano disse con "forte e vibrante" indignazione: "Esse erano vittime del barbaro espansionismo sanguinario degli slavi". 
Il presidente croato Stipemesic commentò: "Il presidente Napolitano deve aver bevuto troppo Chianti". 

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