mercoledì 7 marzo 2012

FONDAMENTALISMI EUROPEI

La cecità dell'Europa

Se è vero quello che disse una volta Jean Monnet –«l´Europa si fa nelle crisi» –siamo davanti a un´occasione unica per diventare un´Unione autentica, capace di pensare e agire con la propria testa.Unione non determinata all´esterno da Stati-tutori, non corrosa all´interno dai vecchi imperativi dell´equilibrio fra potenze. È in crisi la sua economia, lo sappiamo. Ma è in crisi anche la sua democrazia, perché pluralismo e alternanza sono sempre più visti come ostacoli alle decisioni rapide, prese da pochi competenti: lo comprova il disastro greco, e anche i timori che alcuni governi (Berlino in testa) sembrano nutrire verso la possibile sconfitta di Sarkozy in Francia. 
È poi in crisi la laicità, che della democrazia è condizione, perché le chiese quando scorgono Stati fragili «si organizzano per vincere» (sono parole recenti del cardinale Martini), non per affinare la capacità profetica, guardando lontano e profondo. Il primato dato a non-negoziabili valori bioetici, il disinteresse manifestato soprattutto in America per l´equità sociale, sono elementi di una lotta solo di potere. 
Infine è in crisi la politica estera, legata in Europa agli schemi del dopoguerra e della guerra fredda. Ignari delle mutazioni mondiali, gli europei faticano a prender atto che i centri di potere si sono moltiplicati, che l´Occidente non è più ombelico dell´universo. Sono abituati a seguire Washington, ma Washington non è più né l´autorità che ci garantisce come nella guerra fredda, né il solo potere globale come supponevano Bush padre, Clinton, Bush figlio. 
Che posizione hanno gli europei sul Mediterraneo, e su Israele, sull´Iran, sullo scontro fra Stati sciiti e sunniti? Per ora non ne hanno alcuna: anche in politica estera esiste la tentazione del laissez-faire (il mondo tolemaico che ruota attorno alla terra americana pensa per tutti noi). Ma la svolta è vicina, anzi è già presente. Tocca prendere in mano il nostro destino, se non si vuol ripetere l´inerzia e il non-pensiero che ci contraddistingue da vent´anni e più.
Se guardassero oltre il proprio naso, gli europei vedrebbero quel che sta succedendo nelle presidenziali Usa. Vedrebbero che l´America è uno Stato debole, esposto a ogni sorta di pressioni, e ansioso di liberarsene. Vedrebbero, sulla vicenda Iran, un´amministrazione che ha proprie idee ma stenta ad attuarle perché incapace di imporre la condotta che ritiene razionale a un minuscolo Stato – Israele – che ha il potere di condizionarla. Un potere abnorme, alla lunga non sostenibile, dunque pericoloso per Israele stesso. Secondo Gideon Levy, commentatore del giornale Haaretz, il peso è senza precedenti storici e finirà col ritorcersi contro lo Stato ebraico. Non fosse altro perché chi difende Israele negli Usa (l´AIPAC, Comitato Israele-America per gli Affari pubblici) rappresenta solo una parte del paese: i conservatori, avvinti all´occupazione dei Territori da 45 anni. 
In tre anni, Obama ha ceduto a tali pressioni, fino a seppellire i piani sullo Stato palestinese. Ora Netanyahu lo spinge a posizioni bellicose sull´Iran, nel preciso momento in cui l´America, spezzata da guerre perdute e inferma economicamente, non è pronta a nuovi atti militari. La visita di Netanyahu a Washington, lunedì, ha confermato questo divario di esperienze e intenti, dando l´impressione – falsa – di due potenze simmetriche. Domenica, all´AIPAC, Il Presidente ha detto che «tutte le opzioni sono sul tavolo» (guerra inclusa), ma ha avversato «incontrollati discorsi bellici»: «Per il bene della sicurezza di Israele, della sicurezza Usa, della pace e della sicurezza del mondo, questo non è il momento di fare i gradassi». Netanyahu è avvisato: l´America non si farà trascinare in conflitti incontrollati, e senza lei Netanyahu penerà a gettarsi in azioni militari. Resta il fatto che il suo governo entra nelle elezioni Usa come primo attore, puntando su Obama disfatto. 
Non è l´unico gruppo di pressione a operare in tal modo, profittando dell´indebolita democrazia americana. Altre lobby (etniche, confessionali, finanziarie) la comprimono: ricordiamo gli evangelicali o i cattolici. A proposito di questi ultimi sono preziose le analisi di Massimo Faggioli, professore di teologia in Minnesota, sui giornali L´Europa o L´Unità. In maniera abnorme, anche qui, la Chiesa influenza il voto Usa: con i cattolici bianchi attratti dai valori bioetici (la contraccezione, oggi) e i cattolici non bianchi (neri, ispanici) «più attenti alle esigenze di giustizia sociale che alla morale sessuale». 
L´affievolirsi della sovranità politica americana, la sua dipendenza da poteri esterni e lobby interne: sono deperimenti che dovrebbero indurre l´Europa a divenire potenza sovrannazionale non solo economicamente, non solo per fare dei singoli debiti sovrani un comune debito dell´Unione, ma anche in politica estera, di difesa. Così come non potremo in futuro affidare il mondo multipolare a una moneta di riserva internazionale, il dollaro, che riflette i bisogni di una sola nazione, così non possiamo affidare la nostra politica estera a una potenza fattasi più influenzabile da paesi, chiese, interessi economici coi quali dobbiamo imparare a costruire un nostro rapporto, fondato sulla lealtà e la storia d´Europa – compresa la storia degli ebrei d´Europa – ma anche sulla laicità (esiste un imperativo di deconfessionalizzazione del mercato e delle diplomazie, oltre che delle chiese). Il caso della Chiesa cattolica è significativo; nonostante gli irrigidimenti anti-conciliari, in Europa è più difficile che i cattolici trascurino l´equità sociale come in America.
L´America stessa non potrà farsi guidare da lobby sino a divenire loro ombrello e collettore. Dovrà trovare se stessa, e – l´abbiamo visto - questo potrebbe sfociare in uno scontro con Israele. Tornando a Teheran: la politica che s´impernia sul ricorso ineluttabile alle armi potrebbe esser sostituita in un secondo tempo da altre visioni, fondate sull´arbitrato anziché la guerra. La nuclearizzata Corea del Nord non minaccia il Giappone meno esistenzialmente di quanto l´atomica iraniana insidi Israele – eppure Tokyo non ha lo stesso peso sulla politica statunitense. Il 29 febbraio si è aperta una fase negoziale, giudicata con interesse dall´Economist, ma Pyongyang non rinuncia alle testate che ha. Promette di congelare l´arricchimento dell´uranio - in una sola centrale – in cambio di copiosi aiuti alimentari. Perché lo stesso non potrebbe avvenire con l´Iran, un giorno? Perverso, nella storia nordcoreana, è che dotarsi di bombe è stato propedeutico ai negoziati odierni. Questo conferma che nessuno Stato può sopportare la spada di Damocle di una guerra preventiva continuamente minacciata. Prima o poi, fatalmente, desidererà dotarsi dell´atomica e santuarizzarsi, proprio per poter meglio trattare e aprirsi. È quel che ha fatto il Nord Corea. È quel che forse medita il governo iraniano.
Dipendere dall´America significa oggi, per l´Europa, dipendere da una democrazia scossa, da un´economia fragile, da una difesa non più prodiga di garanzie. Vale la pena, per l´Europa come per Israele, uscire dai ghetti e cominciare a costruire il proprio destino etsi deus non daretur, come se non esistesse un Dio-custode oltre Atlantico. Quale amministrazione scegliere, migliore di quella di Obama?
Nel 2014, cioè domani, si voterà per il nuovo Parlamento europeo. È sperabile che fra tanti partiti ce ne sia uno che abbandoni gli occhiali nazionali (non fanno vedere più nulla) e inforchi gli occhiali cosmopolitici che vedano e progettino gli Stati Uniti d´Europa. La non – Europa già ci è costata tanto, troppo. Il federalismo non è un´opzione tra le altre: è una via obbligata. Gli Stati-nazione sono più gracili di un´unione. La storia americana, e i suoi regressi, ce lo mostrano con evidenza.



Barbara Spinelli


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