lunedì 26 marzo 2012

FRANCIA

L' allievo dei Taliban nato nella banlieue È un duro, addestrato per uccidere

TOLOSA - L' aveva giurato che avrebbe venduto cara la testa. Era l' ultima sfida, la tappa finale della guerra. L' ha lanciata quando ha capito che quelli là fuori, i "nemici", anche loro incappucciati e vestiti di nero, lo volevano vivo. Braccato come un cane, sotto gli occhi del mondo, forse l' ex carrozziere Mohamed Merah detto «l' afgano» doveva rifarsi dalla banalità degli errori commessi, che smacco per un sedicente qaedista. Uno che si costruisce la fama di cecchino metropolitano (quasi) perfetto; uno che abbatte sette persone in nove giorni e spara a una bambina dopo averle afferrato la testa; uno che intanto "sporca" il computer e come un centauro della domenica va dal concessionario per chiedere come si smonta il satellitare dello scooter. Uno che infine dice «mi dispiace di non avere potuto uccidere di più». «Lo conosco da quando era bambino, è un duro, non si arrenderà facilmente, vedrete...». Quanto ha ragione Karim - dice di chiamarsi così. Ha 27 anni, quattro in più di Merah, è cresciuto anche lui a Les Izards, la banlieue a nord-est di Tolosa dove un giovane algerino «calmo» e «rispettato», terzo di cinque fratelli, amico dei pusher nordafricani senza diventare spacciatore, qualche furtarello, decide che la sua vita ha più senso se è quella di un terrorista spietato. Svelto ma non invulnerabile, nemmeno furbissimo, esperto nell' uso delle armi e tecnologico come i jihadisti di ultima generazione: uno che si fa filmare dagli amici mentre si diverte in Bmw su un campo sterrato e due anni dopo fa precipitare nel terrore la sua città e tutta la Francia. Uno che si è inventato, che si è appiccicato addosso il fanatismo. «Terrorista di Al Qaeda? Di lui proprio non l' avrei mai detto - si stupisce Karim, che nelle ultime ore é stato sentito dai poliziotti dell' antiterrorismo - piuttosto del fratello, lui sì...». E invece Mohamed Merah studiava. No, non più il corso di formazione professionale che a 16 anni lo aveva portato a lavorare per 48 mesi in una carrozzeria. Troppo banale, non è roba per chi - nel segreto delle aspirazioni che lievitano con la follia - era attratto dai video degli attentati degli integralisti islamici. «Sono un mujaheddin», ha raccontato al telefono l' altra notte al giornalista di France 24, mentre in Rue de Sergent Vigné gli agenti delle forze speciali preparavano il blitz. «O mi ascoltano, oppure vado incontro alla morte con il sorriso». Nel minestrone del suo fanatismo autarchico il Bin Laden di Tolosa ha ficcato dentro un po' di tutto: i bambini palestinesi da vendicare, la politica estera francese, l' esercito, la polizia. Sta di fatto che tra il 2009 e il 2010 la distanza tra Merah e i gruppi jihadisti e salafiti si accorcia: il killer dei paracadutisti, il macellaio dei bambini della scuola ebraica finisce nel laboratorio dell' odio, la regione tra Pakistan e Afghanistan dove vengono addestrate le leve del terrorismo islamico. «Mi hanno chiesto di fare un attentato suicida all' estero ma non ho accettato, poi mi hanno affidato questa spedizione in Francia» - butta lì ai poliziotti che trattano la resa. Ricorda Karim: «A Les Izards pregavano insieme, coi suoi fratellie altri amici. Poi Mohamed si è trasferito qui, nel Coté Pavé, e io anche». Il quartiere, tranquilloe residenziale,è il cavallo di Troia di Merah. Il collegio privato frequentato dai figli della borghesia ebraica è a 3 chilometri da casa. Perfetto per fare una strage e rintanarsi nel bilocale a piano terra al civico 17 di Sergent Vigné. Ideale per muovere in direzione degli altri obiettivi, i paracadutisti «assassini». Fa niente se la caserma Perignon, è a cinque minuti a piedi dal palazzo grigio e beige dove il killer si è arroccato. Forse, nella sua ottica, è persino meglio. Ma torniamo alla formazione del terrorista. «Mi avevano detto che era andato in Algeria, il suo Paese, e invece, scopro adesso, era in Afghanistan a addestrarsi» - racconta l' amico di infanzia. Il nuovo tempo di Merah è un percorso a ostacoli: piccole tacche che il futuro cacciatore di bambini si appunta sulla sua divisa da terrorista in erba. Tenta di entrare nella Legione straniera, ma viene respinto. Gira la notizia che nel 2008 il tribunale di Kandahar lo accusa di avere piazzato delle bombe in città. Che evade dalla prigione con dei Taliban. È un caso di omonimia. Merah è più "avanti". Sa sparare. Imbraccia fucili automatici e mitragliette, usa la pistola come una piuma. Si procura armi e esplosivo, ed è talmente sicuro da tenere in casa un mezzo arsenale. Però non ha fretta. Rientra a Tolosa e si fidanza con una ragazza che gli chiede di mettere su famiglia. Mohamed preferisce stare da solo nel covo del Coté Pavé, ogni tanto va a aiutare la madre che vive a Le Miraille, altra banlieue. Forse sta già prendendo la mira, le vittime vanno studiate, l' ha imparato. Vive sul filo: niente di grosso, qualche furto come nel 2005, l' ultimo a una signora che aspetta fuori da una banca. A febbraio lo fermano mentre guida la macchina senza patente: un mese di carcere, condanna da trasformare in pena pecuniaria.I paracadutisti stanno per cadere.I bambini aspettano la morte fuori da scuola. «Era un ragazzo pulito, gentile e educato», dice con ammirevole coraggio Marie Christine Ételin, il suo avvocato. Lui: «Peccato, volevo uccidere di più».

Paolo Berizzi

LA STRAGE DI MERAH QAEDISTA DELLE BANLIEUE
Ha voluto il "martirio" Mohammed Merah, il killer di Tolosa e Montauban. Una scelta obbligata per il giovane francese di origine algerina dalla tipica biografia del nuovo terrorismo globalizzato. La morte armi in pugno lo trasforma in shahid agli occhi di quanti si riconoscono nella sua causa. Una morte, la sua e quella che egli ha inferto spietatamente alle sue vittime, che, per chi crede nel qaedismo, riscatta una vita altrimenti destinata alla noia e alla devianza spicciola. Merah era cittadino di un Paese la cui promessa di integrazione è spesso messa in discussione dall' assenza di politiche pubbliche che offrano a chi si chiama Mohammed le stesse chance di partenza di chi si chiama Jacques. Frustrazione, diffusa tra le seconde e le terze generazioni, che può generare la rivolta delle banlieue o la radicalizzazione islamista. Se a questo si aggiunge, come nel caso di Merah, la memoria del colonizzato, in particolare quella dell' algerino che imputa all' antico colonizzatore, sia pure sconfitto nella lotta per l' indipendenza, di aver "moralmente corrotto" le società dei Paesi musulmani che non vogliono un ritorno all' islam politico in versione radicale, allora il cerchio si chiude. Merah ha compiuto lo stesso percorso di altri giovani nel primo decennio di questo tormentato secolo. Se la prima generazione dell' internazionalismo militante islamista combatte i sovietici in Afghanistan negli anni Ottanta, la seconda fa il suo pellegrinaggio jihadista due decenni dopo, per battersi contro gli americaniei loro alleati in Iraqe nell' Afghanistan dei Taliban e di Al Qaeda. Troppo giovane per accorrere nella Mesopotamia della funesta epopea di Zarkawi, Merah "l' afghano" è il classico "lupo solitario" che si ideologizza nelle periferie delle città europee: nel vuoto compulsivo della banlieue di Les Izards, tra storie ordinarie di piccoli crimini e disoccupazione, ibride frequentazioni con spacciatori e salafiti di quartiere, il mito di Al Qaeda come vendicatrice dei soprusi subiti dai musulmani. Anche nella Francia bollata da Zawahiri come "nemico dell' Islam" non solo per essersi schierata a fianco dei "golpisti algerini" negli anni Novanta e con gli americani nella "guerra al terrore", ma per "l' arroganza" dimostrata con la legge sul velo e quella sul burqa. Un giovane, Mohammed, che vuole sfuggire alla routine del lavoro in carrozzeria attraverso la riscoperta della religione come bricolage e della jihad online.E che decide di compiere il viaggio fatale, che lo trasformerà in mujaheddin, nelle aree tribali pakistane dove si addestrano i Taliban e le moschee deobandi danno forma alla loro rigida concezione dell' Islam. Da lì varcherà la linea Durand insieme a altri europei dalla doppia nazionalità, tedesco-marocchina o francese-algerina, per combattere in Afghanistan contro la coalizione occidentale. Dunque anche contro la Francia, il suo Paese. Al quale, come spesso accade a ogni mujaheddin europeo, poi ritornerà. Magari durante l' inverno, stagione che, ai piedi dell' Hindu Kush, scandisce il tempo ciclico della guerra. Non è un caso che servizi e antiterrorismo francesi siano arrivati a Merah setacciando non solo i protocolli Internet, malamente usati dalla sua cellula "familiare", ma anche i loro archivi: nei quali vi era una segnalazione di un suo fermo alla periferia di Kandahar. Una traiettoria, quella che va dalle aree tribali pakistane, passando per la città culla del movimento del Mullah Omar, sino a Tolosa, che rivela la mobilità del terrorismo degli "irregolari" globali; di quanti combattono nelle terre del jihad per qualche mese o anno, per poi riprendere, mimeticamente, una vita all' apparenza normalea migliaia di chilometri di distanza. Per restare "in sonno" sino a quando l' impulso all' azione, o un particolare momento politico, li indurrà a agire. Non necessariamente per un input di altri elementi della rete jihadista, ma spinti dal magnete della loro "bussola" ideologica. Un percorso che rivela come l' ideologia qaedista possa sopravvivere alla stessa crisi di Al Qaeda. Tanto lunga è la sua genesi e la penetrazione nell' immaginario collettivo della "generazione del fronte". Un' ideologia forgiata attorno alla figura del Nemico, che cristallizza il campo degli antagonisti irriducibili. L' identità dei bersagli di Merah è significativa: militari di origine maghrebina, come i parà di Montauban, musulmani percepiti, nella concezione jihadista, come "apostati" al servizio del Nemico, "traditori" che combattono gli "autentici credenti" in Afghanistan; ebrei, figli di quel popolo di Israele che, attraverso il sionismo ha dato vita a uno Stato ritenuto la causa della sofferenza dei palestinesi. È di questa ideologia mortifera che muore Merah, il qaedista delle periferie.

Renzo Guolo

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