lunedì 7 maggio 2012

CONSIDERAZIONI SULL'ESITO DELLE ELEZIONI FRANCESI

Sarkozy, che oltre ad avere antenati ungheresi e greci deve annoverare anche qualche avo guascone, si era illuso che, cavalcando la tigre del terrorismo islamico in agguato per minare la sicurezza e l'identità della patria repubblicana francese, e prendendo a spunto il tragico fatto di cronaca (mi riferisco all'uccisione dei 3 militari francesi di origine marocchina e dei bambini ebrei massacrati per odio allo stato puro da un folle che poi si è suicidato) sarebbe riuscito a mobilitare la collera contro i musulmani per convogliare sulle esangui performance politiche della sua presidenza i voti della destra di Madame Le Pen: eccolo così mettere al bando prestigiosi intellettuali musulmani come Tarik Ramadan, arrestare una decina di presunti seguaci di Al Qaeda, mostrare i muscoli contro il velo islamico indossato dalle donne francesi di religione islamica, in breve gridare al grave pericolo che la Francia avrebbe corso se non avesse vinto le elezioni presidenziali.
Il giochino non ha funzionato: i francesi non sono come gli abitanti della Val Brembana, che sono riusciti perfino a considerare un fenomenale mostro di intelligenza e di cultura tal Renzo Bossi, detto il Trota, laureato in materie economiche in una inesistente università albanese dopo aver sostenuto in un anno 21 esami nella lingua "sqipetara"; e soprattutto sembra che quando vanno a votare pensano alla disoccupazione giovanile, al debito pubblico, alla crisi economica e, credo, anche alla pretesa della Merkel di voler funzionare da "Gauleiter" dell'Europa; quando votano, i nostri cugini d'Oltralpe, pensano alla politica; e se il candidato presidente (in riconferma) ha una bella moglie fanno considerazioni di natura estetica sulle sue caratteristiche somatiche.
E così Nikolas ha sbattuto il muso e il "normale" Holland, socialista, ha vinto alla grande e, si spera, si accinge nell'interesse degli europei a ridimensionare l'arroganza teutonica. Pare così che in Europa i socialisti ancora ci sono e se fanno i socialisti vincono. Lezione elementare di cui dovrebbero tenere conto le amebe del partito democratico per molte delle quali il termine "socialista" è qualcosa che appartiene al secolo scorso.
Questa considerazione dovrebbero farla anche quei presunti "riformisti" come Mario Giulianati e Ubaldo Alifuoco, rispettivamente presidente e vicepresidente di un'attualissima associazione culturale dedicata all'11 Settembre 2001, i quali, mentre ogni giorno si suicidano operai, pensionati, piccoli imprenditori disoccupati e pensionati "esodati", trovano il tempo di organizzare un convegno sulla sicurezza nel Mediterraneo e sul pericolo del terrorismo, naturalmente islamico. Questi signori gridano alla democrazia offesa perché il proprietario del locale in cui dovevano tenere il convegno e di proprietà della Curia Vescovile di Vicena, si sono visti negare i locali.
Alti strepiti per la grave lesione alla libertà di cultura e delle idee: il loro vittimismo ha raggiunto il diapason quando a dar loro man forte si è esibito addirittura il presidente della commissione esteri della camera, il dotto e raffinato senatore Stefani. L'aspetto più originale della vicenda è che il duo prima nominato pretende di incarnare il vero riformismo a Vicenza. I francesi che votano per Holland cosa sono? Naturalmente dei paleo-comunisti.
Ma andate a mangiare il sapone.

TURCHIA

Erdogan: «Sono pronto a richiedere l’intervento militare Nato in Siria»
La faccia di Erdogan sorride da ogni angolo della strada. «Benvenuto» si legge sugli striscioni. Il primo ministro turco è ad Adana, nel sud del Paese, per inaugurare un nuovo ospedale e parlare al Congresso provinciale del suo partito, l’Akp, al governo dal 2002. Bacia un paio di bambini, saluta la folla, stringe mani, mangia il cibo che gli viene immancabilmente offerto. Recep Tayyip Erdogan è il solito fiume in piena, un istrione in perenne movimento. Camicia celeste, giacca a quadri, nonostante il caldo, il leader del partito filo-islamico appare in grande forma dopo l’operazione dello scorso febbraio: «Sta talmente bene—dice un suo stretto collaboratore — che non riusciamo a stargli dietro». Accanto a lui, come sempre, la figlia Sümeyye e la moglie Emine, entrambe elegantissime, il viso incorniciato dal velo. L’intervista esclusiva con il Corriere della Sera comincia sull’aereo che ci riporta ad Ankara. Sono ormai le otto di sabato sera. Domenica Erdogan si sposterà al confine con la Siria per visitare il campo rifugiati di Kilis, poi partirà per la Slovenia, infine per Roma dove è atteso stanotte. Il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu nel suo ultimo discorso ha detto che la Turchia guiderà l’onda del cambiamento in Medio Oriente. Lei aspira a diventare il leader della regione? «Non siamo nella posizione di guidare o di essere i leader del cambiamento in maniera sistematica ma forse ci sono persone che sono ispirate dai passi che abbiamo compiuto. La Turchia non è uno stato religioso ma una repubblica parlamentare funzionante. Abbiamo dimostrato che Islam e democrazia possono convivere. Se ci sono dei regimi autocratici che opprimono il popolo, allora la gente cercherà di cambiare e noi possiamomostrare loro la strada per farlo, cioè quella del sistema parlamentare. Finora siamo stati disponibili con chi ci ha chiesto consiglio ». La situazione in Siria sta degenerando e sono migliaia i profughi che hanno cercato rifugio nel suo Paese. Secondo lei c’è ancora un futuro per Assad? State valutando seriamente l’opzione militare? «Il regime di Assad è finito. Ci sono stati 10mila morti, 25 mila rifugiati in Turchia, 100 mila in Giordania. Se un Paese opprime la sua stessa gente, la attacca con i cannoni e i carri armati, se, come conseguenza, centinaia dimigliaia di persone fuggono, dov’è la giustizia? Noi condividiamo con la Siria un confine lungo 900 chilometri. E abbiamo sempre avuto legami di grande amicizia. Sfortunatamente Assad non ha onorato la nostra fiducia. Quando le cose si sono cominciate a muovere in Tunisia l’abbiamo avvisato. Gli abbiamo detto: scegli la via giusta, lascia che nascano i partiti politici, apri la strada alla libertà, rilascia i prigionieri politici, ferma la corruzione. Ora la situazione èmolto grave. Finora siamo stati pazienti con la Siria ma se il governo commetterà ancora degli errori alla frontiera questo sarà un problema della Nato come recita l’articolo 5. Assad non ha mantenuto nessuna delle promesse fatte ad Annan. Le uccisioni continuano. Il Consiglio di sicurezza dovrebbe prendere la cosa più seriamente. La Ue non dovrebbe rimanere un osservatore esterno. Se penso a un intervento armato? Questo non è solo un problema della Turchia. Servono passi comuni del Consiglio di sicurezza, della Lega araba ». Quattro anni fa le relazioni tra Turchia e Israele erano molto buone e rappresentavano una speranza per l’intera regione, oggi quei rapporti sembrano essersi compromessi per sempre. È impossibile ricucire? «È vero, la Turchia era il più importate alleato di Israele nell’area ma loro hanno fatto dei grandissimi errori nei nostri confronti. L’attacco di Israele alla nostra Flotilla di aiuti umanitari non può essere perdonato. È avvenuto in acque internazionali. Nove persone sono morte e sui loro cadaveri c’erano più di 30 proiettili, anche sparati da vicino. Abbiamo dettato a Israele delle condizioni: vogliamo scuse pubbliche, un risarcimento per le famiglie delle vittime, la fine dell’assedio di Gaza. Oggi Gaza è ancora bloccata e a volte viene pure bombardata. Se non saranno soddisfatte queste condizioni le nostre relazioni non si normalizzeranno mai». Ankara oggi sembra guardare sempre più ad Oriente. Cosa ne è delle ambizioni di entrare nell’Unione Europea? Lei lo considera un capitolo chiuso? «No, questo è fuori questione. Come lei sa nel 1996 siamo diventati parte dell’unione doganale, una cosa che di solito si ottiene solo quando si è già membri Ue a pieno titolo. Ora, però, i Paesi membri della Ue fanno di tutto per non lasciarci entrare. Perché? Siamo l’unico Paese musulmano nella Nato ma questo non danneggia le nostre relazioni con i Paesi del Medio Oriente con i quali abbiamo valori in comune. Le assicuro che faremo di tutto per diventare membri della Ue. Ma loro non mantengono le promesse. Spero che la smettano di fare questi errori e che colgano al volo l’opportunità di diventare un grande attore globale accogliendoci nell’Unione».


Monica Sargentini


Il grido dei ribelli agli osservatori Onu: «Qui ci ammazzano tutti»
«Quando voi ve ne andrete, verranno a prenderci, ci arresteranno tutti», dice una vecchia col velo bianco intorno al volto all’osservatore Onu in giubbotto antiproiettile. È uno dei membri del team che dovrebbe assicurare il cessate il fuoco tra esercito e ribelli in Siria dopo 9.000 morti in 14 mesi, come prevede il piano di pace di Kofi Annan approvato il 12 aprile. Settanta dei 300 osservatori sono arrivati. E alle 10, ieri mattina, tre auto bianche con la scritta «UN» sono partite sfrecciando seguite da uno stuolo di macchine cariche di giornalisti, siriani e stranieri, dirette a Zabadani e ai villaggi vicini. Zabadani è un centro per lo più sunnita di 35 mila abitanti a 30 chilometri da Damasco, appena prima del confine col Libano. I buchi di kalashnikov nelle saracinesche e i fori di granate in alcuni edifici testimoniano la battaglia tra ribelli e soldati avvenuta a gennaio. Faris Muhammad, che si definisce un attivista politico, consegna all’Onu un foglio di carta con l’immagine ricostruita su Google Earth dei punti dove si troverebbero i checkpoint e i tank dell’esercito, una decina tutt’intorno al villaggio. Il piano di pace di Annan prevede il ritiro dei mezzi pesanti dai centri abitati e l’inizio della rimozione delle concentrazionimilitari intorno; ai ribelli si chiede di cessare i combattimenti. Molte perplessità sono state espresse: gli Stati Uniti giovedì hanno accusato il presidente siriano Bashar Assad di non fare «alcun tentativo di rispettare» il piano. L’Onu invece dichiara che «sta avendo un effetto calmante sugli scontri». Piccoli passi, ma pur sempre passi. Un osservatore fa l’esempio di tre tank rimossi da Hama, dove presidiavano una scuola. La riduzione del numero di morti non tranquillizza tutti: sia Amnesty che Human Rights Watch hanno denunciato un’escalation di uccisioni prima del cessate il fuoco e che gli arresti continuano. Venerdì oltre 20 manifestanti sono morti durante proteste nel Paese, il giorno prima 5 studenti ad Aleppo. Dopo la visita degli osservatori, ieri, secondo l’Associated Press i soldati hanno sparato sulla gente a Dael: tre feriti. Il piano di Annan prevede anche l’ingresso libero dei giornalisti: 40 visti a media stranieri sono stati concessi l’altro ieri secondo il governo, anche se per pochi giorni. Ed è prevista la fine delle detenzioni arbitrarie: Mohammed Ibrahim, un magistrato egiziano, in giacca e cravatta faceva colazione ieri nell’hotel degli osservatori vicino a tre yemeniti in camouflage: è appena arrivato per fornire la consulenza legale. A Zabadani e dintorni, gli osservatori trovano una mezza dozzina di tank e blindati, alcuni coperti da plaid a quadretti o teli di plastica. Uno è circondato da un forte odore di polvere da sparo. Un altro ha il cannone puntato verso l’entrata del villaggio di Seghaya. «Dov’è il caricatore?», chiede l’osservatore ad un soldato. «Rimosso il 12 aprile », è la risposta. «Quanto tempo ci vorrebbe per rimetterlo in funzione? », chiede una giornalista al casco blu, che risponde: «Buona domanda ». La propaganda è da ambo i lati. A Zabadani, più d’un giovane dalla lunga barba assicura: «Qui siamo tutti civili, nessun miliziano». «Sono estremisti finanziati dai sauditi e dal Qatar», urla un funzionario governativo a Seghaya. L’altro ieri due ordigni sono esplosi al mattino e uno la sera a Damasco, senza vittime; un altro ad Aleppo con tre morti. L’opposizione addita l’intelligence siriana, ma la comunità internazionale teme l’infiltrazione di jihadisti, seppure in minoranza tra i ribelli. Un uomo dai baffi neri e la kefia in testa dice al Corriere che il figlio è stato arrestato 9 mesi fa a Deir El-Zor, nell’Est dove ieri c’erano nuovi scontri. L’uomo, che dice di chiamarsi Abid, giura che il figlio aveva un fucile, «solo per andare a caccia». Oggi in Siria ci sono le elezioni parlamentari, le prime multipartitiche, presentate dal regime come segno di riforma, mentre gli oppositori le definiscono una farsa. Damasco è tappezzata di poster elettorali, ma a Zabadani sui muri ci sono le facce dei martiri, non dei candidati.

Viviana Mazza

sabato 5 maggio 2012

EGITTO








Egitto, il futuro è adesso
Qualcosa di ripugnante nell'atteggiamento da uccelli del malaugurio e da avvoltoi appollaiati su un albero in attesa che il moribondo tiri le cuoia, nei mezzi di informazione della stampa occidentale più diffusa che, di fronte al minimo intoppo sanguinoso che colpisce la vicenda della rivoluzione egiziana, ama esibire le più fosche previsioni sul paese attraversato dal Nilo: scontri fratricidi, guerre di religione, guerra civile strisciante e, naturalmente, prossimo trionfo delle fazioni più feroci e integraliste dell'Islam.
Ci sembra perciò un dovere verso un paese e un popolo di cui la civiltà mondiale è in qualche misura
debitrice, pubblicare l'esauriente articolo che il numero di Maggio di National Geographic ha pubblicato.





L'OCCIDENTE, INERTE DI FRONTE ALLE DECINE DI MIGLIAIA DI MORTI DELLA SIRIA E DELL'AFGHANISTAN, FINGE DI MOBILITARSI PER UNA DOZZINA DI CRISTIANI UCCISI DAGLI "ISLAMISTI"

Uno degli articoli che abbiamo pubblicato a commento dei massacri che vedono vittime i cristiani della Nigeria del Nord e quelli del Kenya reca il titolo "Se l'Africa diventa il continente del terrore".

Chi in completa malafede finge di ignorare gli elementi essenziali della tragica storia d'Africa non può che prendere atto che il "regno del terrore" in Africa è saldamente radicato da almeno 600 anni, e cioè da quando le prime navi portoghesi spagnole e olandesi presero terra in quello che per molto tempo è stato chiamato il Continente Nero. L'elemento comune che le vede straniere avevano era una croce: gli europei, chi prima chi dopo, si gettarono sull'Africa sub-saariana come un'orda famelica di locuste e le loro imprese fecero impallidire persino i massacri e i saccheggi delle orde mongole di Gengis Khan le cui gesta, oltretutto, durarono molto di meno. Il saccheggio dell'Africa da parte degli europei cristiani non è oltretutto ancora finito se si pensa che la corsa alle immense ricchezze (diamanti, oro, uranio, ecc.ecc.) non è certamente finita; e i suoi rigurgiti seguitano a provocare centinaia di migliaia e forse milioni di morti di "pelle nera". Gli europei infatti, hanno imparato a gestire i loro crimini per delega o per commissione e non arretrano neppure di fronte alla eventualità di reclutare i loro guerrieri tra i bambini con meno di 12 anni. 
Vogliamo, tuttavia, elencare per sommi capi i crimini che non possono meritare perdono: genocidi e delitti contro l'umanità non sono infatti prescrittibili ne dal punto di vista del delitto penale e internazionale ma soprattutto perché hanno violato il comandamento divino "non uccidere". Sarebbe difficile tenere una contabilità approssimativa delle vittime africane della cupidigia barbarica e sanguinaria degli europei, i quali, anzi, hanno spesso mascherato i loro delitti col nome di Dio, della civiltà e degli interessi economici dei popoli civili: fingere di indignarsi per l'uccisione di qualche centinaio di cristiani è il segno della ipocrisia senza fondo del cosiddetto occidente:
I - La tratta dei neri fu iniziata su provvedimento di un Papa, Alessandro VI Borgia, ma era stata a lungo teorizzata da preti e frati di vari ordini, i quali, di fronte alla rapida scomparsa per le stragi, per le epidemie e per il lavoro forzato degli indigeni delle Americhe (non meno di 20 milioni di morti), furono concordi nel giudicare gli "schiavi negri" più adatti ai massacranti lavori nelle viscere della terra. Splendidi e fiorenti regni africani (Ghana, Mali, Songhai, Mande, ecc.ecc.) furono praticamente cancellati: la loro popolazione venne più che dimezzata e aree di agricoltura fiorente praticamente desertificate. Uomini, donne e bambini strappati alla loro terra e caricati sulle navi negriere in condizioni tali da registrare una mortalità superiore al 50%, sfilavano davanti agli aguzzini di pelle bianca, che usavano senza motivo il "gatto a nove code", mentre qualche frate si premurava di annotare su un registro i nomi fittizi dei deportati, che veniva attribuito insieme a un sacrilego battesimo. Si veda il bel film di Spielberg "Amistad" (parola spagnola che significa "amicizia"). Non si tratta di un film dell'orrore o di fantascienza ma la storia vera che è andata avanti per secoli e ha provocato oltre 30 milioni di morti. Ci vuole un bel coraggio per chiedersi per quale motivo gli africani non abbiano ancora dimenticato nefandezze del genere. Forse è per questo che nonostante ogni sforzo per ogni africano che si converte al Cristianesimo ce ne sono 4-5 che abbracciano l'Islam, specialmente nelle zone che furono il principale obiettivo delle aree di tratta degli schiavi;
II - Una delle poche regioni dell'Africa che per ragioni climatiche e ambientali era sfuggita al flagello della tratta (l'ultimo paese che l'abolì ufficialmente fu l'impero portoghese del Brasile dove l'abolizione della schiavitù cessò nel 1885, trent'anni dopo la fine della guerra di Secessione nord americana) era il Congo, immenso territorio ricco di tutti i minerali preziosi conosciuti, in particolare di diamanti. Il Congo venne assegnato, per evitare guerre tra le grandi potenze dagli appetiti più sviluppati, in possedimento personale al re del Belgio Leopoldo I che se ne dedicò la capitale. Il pio re del Belgio introdusse nella "sua" colonia la coltivazione intensiva degli alberi da gomma: ad ogni villaggio era fatto carico di consegnare agli agenti coloniali una congrua quantità di prodotto: se il tetto assegnato non veniva raggiunto ai maschi adulti della comunità venivano tagliate le mani. Il Congo aveva nel 1890 una popolazione superiore ai 10 milioni di abitanti. Nel 1920, quando la neonata società delle nazioni decise di revocare la concessione al re del Belgio per le atrocità che da anni venivano denunciate da scrittori e politici (cito per tutti "Cuore di Tenebra" di Joseph Conrad), la popolazione congolese era ridotta a poco più di un milione di abitanti;
III - La tragedia del Congo riesplose quando negli anni 60' la colonia belga ottenne l'indipendenza. Il presidente eletto Patrice Lumumba venne destituito da mercenari belgi e torturato a morte. Un rinnegato di nome Ciombé organizzò la secessione della provincia più ricca del Congo (il Kivu e l'enclave di Kabinda). Ne seguì a fasi alterne una guerra civile durata fino a oggi e tutt'ora in corso: si calcola che essa ha provocato non meno di 5 milioni di morti. Non torniamo all'orribile genocidio del Ruanda del quale abbiamo parlato già in un post precedente: la specificità di questa tragedia consiste nel fatto che tra gli esecutori materiali degli eccidi vennero individuati numerosi preti cattolici e giuste le accuse del tribunale internazionale dell'Aia, anche qualche suora;
IV - Veniamo alla Nigeria: al momento della sua indipendenza la Nigeria, che si trovò ad essere lo stato africano più grande, più ricco e più popoloso, rivelò quasi subito la sua intrinseca debolezza. Il Nord semi desertico e ad economia pastorale era popolato da popolazioni di religione islamica, gli Hauss e i Fulani, prevalentemente nomadi e particolarmente bisognosi delle terre irrigate dal Niger; il Sud, popolato dagli Ibo di religione cattolica, agricoltori stanziali il cui territorio abbondava di materie prime e di petrolio. Un generale prezzolato dalle multi nazionali organizzò la consueta secessione, creando lo stato fantoccio del Biafra: la guerra civile che ne seguì provocò un milione di morti, la maggior parte appartenenti all'etnia Yoruba, che per non essere ne musulmana ne cristiana si trovò a fare il vaso di coccio in mezzo a quelli di acciaio. In forme diverse e con intensità variabile il conflitto è andato avanti fino ad oggi aggravato dalle gravi siccità che hanno spinto le popolazioni nomadi del nord a cercare terre per i pascoli verso sud. In questo contesto è esplosa una strisciante guerriglia tra cristiani e musulmani. Ci si meraviglia che oggi a pagare con il sangue questa realtà continentale siano i cristiani. I precedenti che abbiamo elencato spingono gli africani a considerare la religione cristiana la religione dell'occidente. Non costituisce un fatto eccezionale che a pagar prezzo siano oggi quelli che agli occhi dell'Africa vengono identificati con l'uomo bianco. 
I giornali danno notizia che nei paesi musulmani con grosse minoranze cristiane, queste ultime si sono sistematicamente schierate a fianco dei dittatori più feroci, da Saddam Hussein a Mubarak ed ora a Assad in Siria. Se come si spera il tiranno siriano verrà rovesciato e chiamato a rispondere dei suoi delitti qualcuno si meraviglierà se i musulmani sunniti, principali vittime della repressione, avranno qualche conto da presentare a chi ha sostenuto in modo feroce e sanguinoso il loro nemico?

mercoledì 25 aprile 2012

DUE ARTICOLI CHE POSSONO FORNIRE UN'INTERPRETAZIONE ALLA NON OSCURABILE PAURA CHE L'ISLAM SUSCITA NEI PAESI DI RELIGIONE CRISTIANA, IN PARTICOLARE CATTOLICA

Sull'ultimo numero del settimanale Sette, allegato al Corriere della Sera è stato pubblicato un accurato studio che, senza mai nominare l'Islam, contiene un accurato resoconto della crisi che attraversa la religione cattolica, al punto che il titolo è "Possiamo ancora dirci cattolici?".




Pochi giorni dopo il quotidiano La Repubblica ha pubblicato un servizio, articolato in due parti che ascrive la crisi del Cristianesimo prevalentemente al fatto che nel mondo vi sarebbero:

"Meno credenti, più atei convinti così il mondo volta le spalle a Dio"
CARATTERI maiuscoli rossi su copertina nera. "Dio è morto?" si chiedeva la rivista americana Time l' 8 aprile 1966. Solo per ribaltare l' argomento, tre anni più tardi, con una copertina bianca solcata dai raggi del Sole: "Dio è resuscitato?". Tom Smith, sociologo dell' università di Chicago, ricorda quella confusione di impulsi nell' America dei tardi anni ' 60 come il punto di partenza della più lunga ed estesa analisi sociale sulla salute di Dio nel mondo. Dopo le prime due tappe del 1991 e del 1998, il rapporto "Religion" dell' International Social Survey Programme sulla "Fede in Dio nel mondo attraverso gli anni e le nazioni" è arrivato oggi alla sua terza edizione. Sessantamila persone in 42 paesi dal Cile al Giappone hanno raccontato ai ricercatori il loro rapporto con la spiritualità. In una mappa che pure si presenta con colori distinti e contrastanti, contraddizioni e inversioni di rotta, la conclusione generale è che il declino della religiosità nel mondo è lento ma costante. LA FEDE IN CALO I numeri dello stillicidio parlano chiaro: i credenti tra il 1991 e il 2008 sono calati in 14 dei 18 paesi che hanno partecipato a entrambe le indagini. La percentuale degli atei viceversa è cresciuta in 15 nazioni. Per quanto riguarda l' Italia, nel corso dei vent' anni gli atei sono cresciuti del 3,5% e i credenti hanno registrato un declino della fede per nulla trascurabile: il 10,5%. Come se stesse progressivamente prendendo forma l' immagine di Pasolini che nel 1973 vedeva la parola "Jesus" una volta per tutte legata a una marca di jeans. Il bastione della terza età Il bastione della fede resta la fascia degli over 68. In Italia ad esempio dichiara di credere in Dio il 66,7% delle persone con più di 68 anni contro il 35,9% dei giovani al di sotto dei 28 anni. Basta dunque saltare due generazioni per tagliare a metà il bacino della fede degli italiani.E il fenomeno è ancora più netto nella cattolicissima Spagna, dove la religiosità balza dal 65,4% degli anziani al 21,8% dei giovani. In maniera del tutto speculare viaggia il numero di coloro che dichiarano di "Non credere e non aver mai creduto". In Italia sono il 12% tra gli under 28 contro un misero 0,5% tra gli over 65. «La fede in Dio - spiega Smith cresce molto probabilmente tra i più anziani per via dell' approssimarsi della morte». GLI EFFETTI DEL COMUNISMO Il comunismo avrà fallito dal punto di vista economico ma il lavoro di spugna sulla spiritualità degli individui sembra aver funzionato bene nei paesi del blocco socialista. Pur con due importanti eccezioni (la Polonia e la Russia), le nazioni dell' Europa dell' est si ammassano in fondo alla classifica dei credenti. L' ex Germania dell' est ha anche il record di atei convinti (52,1%), seguita dalla Repubblica Ceca (39,9%). E sempre fra i tedeschi orientali la religiosità raggiunge uno striminzito 12,7% tra gli over 68 edè addirittura ferma allo zero tra i giovani con meno di 28 anni. FEDE E CONFLITTI C' è un aspetto che impressiona tra i dati del rapporto. I paesi in cui la religiosità è in aumento sono spesso quelli in cui per la fede si combatte e si muore. Israele ad esempio è secondo solo alle Filippine per il numero di persone che dichiarano di "credere fermamente in Dio" e i credenti sono aumentati del 23% tra il ' 91 e il 2008. Cipro è al quarto posto. Scendendo di poco si incontra l' Irlanda del Nord. Nella classifica dei paesi più vicini alla religione ci sono ovviamente gli Stati Uniti. Paese che è forse azzardato definire in guerra per la propria fede. Ma in cui sicuramente - fanno notare i ricercatori dell' università di Chicago - «c' è un' intensa competizione tra le religioni principali e tra le varie confessioni cristiane». LA FORMA DI DIO Il Dio in cui credono gli intervistati (in maggioranza, ma non esclusivamente cristiani) è soprattutto u n Dio-persona, che si preoccupa per le sorti dell' umanità. Per tre italiani su quattro è in grado di compiere miracoli. E quando nel 2008 Tom Smith ha provato a domandare a un campione di americani a quale figura familiare si sentirebbero di associare Dio, la maggioranza ha scelto "padre" a "madre", "padrone" a "sposo", "giudice" piuttosto che "amante" e "re" piuttosto che "amico". IL PARADOSSO ITALIANO La parte italiana dei datiè stata raccolta da Cinzia Meraviglia dell' Istituto di Ricerca Sociale dell' università del Piemonte Orientale, mentre il rapporto sul nostro paese è stato curato da Deborah De Luca dell' università di Milano. «In Italia - spiegano le due ricercatrici - il 41% delle persone dichiara di seguire la religione cattolica ma di non considerarsi una persona spirituale. Come se la fede fosse un valore culturale, le cui radici vanno cercate nella tradizione e nell' abitudine». Si spiega così come mai il 76% degli italiani abbia un crocefisso o un altro simbolo religioso in casa, ma solo il 23% vada a messa regolarmente. Nel nostro paese la Chiesa è anche l' istituzione di cui ci si fida di più accanto alla scuola (anche se l' 80% degli intervistati ritiene che il Vaticano non debba dare indicazioni di voto o fare pressioni sui governi). Ma allo stesso tempo il 61% degli italiani dichiara di avere un proprio modo personale di comunicare con Dio, senza passare per Chiesa e riti religiosi.


Elena Dusi




Non occorre molta intelligenza per capire che un articolo che da un resoconto della percentuale dei cattolici e dei cristiani facendo riferimento a meno di un terzo della popolazione mondiale ed escludendo dal conteggio l'Asia (con l'eccezione del Giappone, l'intera America Latina, Australia, Oceania e Canada e non tenendo conto di grandi paesi come la Cina, l'India, l'Indonesia, tutti i paesi islamici) non è un credibile fondamento per parlare di un mondo che volta le spalle a Dio. Ci sembra che sia più convincente l'ipotesi secondo la quale "sono i dogmi della Chiesa Cattolica che non convincono più"; e a questo riguardo ci sembra molto più equilibrato l'articolo del teologo Vito Mancuso (pubblicato anch'esso da La Repubblica):





“Il Dio personale del secondo millennio”

Un ampio studio dell´Università di Chicago spiega che la fede in Occidente va lentamente ma progressivamente diminuendo; che interessa soprattutto gli anziani e ben poco i giovani; che avanza sempre più in chi crede la figura di un Dio personale e su misura; e infine che la presenza della fede non è comunque trascurabile perché rimane ancora largamente maggioritaria, visto che i credenti sono maggioranza in 22 paesi su 30, e in 7, tra cui gli Usa, sono al di sopra del 50 per cento. Sono dati che confermano tendenze note agli studiosi e che sarebbero diversi se la ricerca non avesse preso in esame solo una parte di mondo, in gran parte occidentale: la presenza del Sudamerica è ridotta al Cile, quella dell´Asia al Giappone e alle Filippine con la macroscopica assenza di Cina, India e di tutti i paesi delle aree buddista e islamica, mentre l´Africa non esiste nemmeno. Se lo studio avesse considerato l´andamento della fede su scala mondiale, le conclusioni sarebbero non dissimili da quelle di due giornalisti dell´Economist, Micklethwait e Wooldridge, uno cattolico e l´altro ateo, che nel 2009 pubblicarono a New York un volume la cui tesi è già nel titolo: God is Back, Dio è tornato. Non a caso le religioni costituiscono oggi nel mondo un fattore geopolitico di importanza imprescindibile per la lettura del presente, nel bene e purtroppo anche nel male, poiché è innegabile che dalle religioni derivano sia beni sia mali (e per questo spesso è così difficile ragionarne con pacatezza e senza passionalità). Ma soprattutto uno il dato che a mio avviso va sottolineato: cioè il fatto che in tutti i principali paesi europei se si sommano i credenti convinti agli atei altrettanto convinti non si raggiunge la metà della popolazione. È il caso di Germania (ovest), Austria, Olanda, Svizzera, Spagna, Russia, Italia, paesi in cui ci sono più credenti che atei; e di Gran Bretagna, Francia e paesi scandinavi dove la situazione è opposta. Il paese simbolo di questa tendenza a evitare gli estremi è il Giappone, dove solo il 4,3 crede fermamente in Dio ma solo l´8,7 è ateo. tutti gli altri vivono nell´incertezza di chi non sa, nel limbo di chi non prende posizione. Forse anche l´Europa è destinata con il passare del tempo a diventare teologicamente “giapponese”?
Di sicuro la mente occidentale, uscita da poco da quel secolo di ferro e di sangue che è stato il ‘900, è abitata da una forte perplessità e intravede motivi per continuare a credere in Dio e altri per non credervi più: il suo simbolo più adeguato è forse il labirinto, oppure una bilancia i cui piatti non sanno trovare il punto di equilibrio. Se la fede tradizionale a poco a poco viene meno, non per questo i più si rassegnano al materialismo e al nichilismo di chi ritiene che l´uomo sia solo “ciò che mangia”, con il risultato che la fede in una dimensione dell´essere chiamata “spirito” nonostante tutto persiste, anche se non si capisce bene che cosa si dice quando si pronuncia il termine “spirito” e quindi neppure quando si nomina “Dio”.
Per questo non sorprende il dato a mio avviso più significativo offerto dallo studio americano, cioè che a fare le spese di questa crescente perplessità è soprattutto la fede cattolica nella sua configurazione dogmatica e teista. Infatti la perdita della fede in Dio durante il decennio 1998-2008 risulta più alta proprio nei paesi tradizionalmente cattolici, come Austria (-10,6), Portogallo (-9,4), Spagna (-7), Italia (-6,7), Francia (-5,8), persino Polonia (-5,5). Se poi si calcola quello che è successo dal 2008 a oggi nella Chiesa tra scandali legati alla pedofilia e restaurazione di messe in latino con connessa riabilitazione dei gruppi cattolici più reazionari e spesso antisemiti, possiamo essere sicuri che i dati nel frattempo non sono certo migliorati. Ormai è da tempo che a causa della scarsità di vocazioni locali nei nostri paesi vi sono preti e suore extraeuropei in numero sempre crescente, ma se continua così anche le nostre antiche chiese saranno prive dei discendenti di coloro che le hanno costruite.
E il Vaticano cosa fa? Invece di guardare in faccia la situazione e correre ai ripari abolendo la legge ecclesiastica e non biblica del celibato sacerdotale, aprendo al diaconato e al cardinalato femminile, rivedendo le leggi anacronistiche in tema di morale sessuale e di disciplina dei sacramenti, non ha saputo fare altro che istituire un altro centro di potere, un altro ministero clericale, il Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione, i cui frutti inesistenti sono e continueranno a essere sotto gli occhi di tutti. Io mi chiedo come si faccia a non voler considerare la drammaticità della situazione lasciando sistematicamente ignorati tutti i numerosi appelli alla riforma che regolarmente giungono a Roma da tutte le parti, me lo chiedo, ma non so rispondere. Se si avesse veramente a cuore la fede di quello che un tempo si chiamava “popolo” di Dio oggi destinato a diventare un circolo per pochi, non si dovrebbe agire in modo diverso?

SPUNTANO LE CELLULE ISLAMICHE ITALIANE LEGATE AD AL QAEDA

All'indomani di una intensa campagna di stampa dedicata alla crisi della religione cristiana e alla quale i due principali quotidiani italiani, Corriere della Sera e La Repubblica hanno dedicato articoli di più pagine, spunta il fantasma del possibile terrorismo islamico anche nel nostro paese. La circostanza ci insospettisce, anche perché, vivo Bin Laden, le notizie sulla presenza del terrorismo islamico in Italia si erano quasi tutte rivelate prive di fondamento: a Vicenza una cellula di 7 potenziali terroristi, arrestata e sottoposta al processo, erano stati tutti quanti assolti con formula piena. Tra i sospettati di terrorismo il Giornale di Vicenza aveva fatto riferimento a un fantomatico imam yemenita che si spostava di moschea in moschea per organizzare chissà quali diavolerie. Cessata la fase virulenta della psicosi anti islamica, anche perché la Lega Nord da qualche settimane ha altre grane a cui pensare, si è scoperto che il fantomatico imam yemenita nomade, una volta che ha trovato casa si è stabilito a Vicenza è l'attuale imam della moschea di Ponte Alto.
Tuttavia ci sembra opportuno dedicare al tema una approfondita attenzione: anche perché, in parallelo con le scoperte delle cellule potenzialmente terroriste, questa volta formate da italiani convertiti, in numerosissime trasmissioni culturali televisive personaggi famosissimi come protagonisti del dibattito culturale sull'Islam, diventano sempre più numerosi e, pur non prendendosela direttamente con l'Islam, insistono molto sul tema dell'esistenza di Dio: tanto per fare qualche nome citiamo Corrado Augias, Margherita Hack e il simpaticissimo Odi Freddi, tutti atei convinti (è un loro diritto esserlo) sulla base del solito argomento che non vi è nessuna prova che Dio esista. Per affrontare l'argomento delle diverse forme che assume l'islamofobia, mentre aspettiamo  che la notizia della cellula italo-islamica abbia un qualche seguito, ci dedichiamo alla campagna allarmistica scatenata sul tema della "Fine del Sacro", della presunta morte di Dio o della sua inesistenza, non senza aver dato conto del bollettino sulla cellula terroristica annidata con la sua rete nella nostra penisola



Terrorismo, fermata una cellula tutta italiana

PESARO - Un professore di lettere del liceo, tre impiegati, due operai, due vigilantes e alcuni disoccupati. È composta così la cellula terroristica, tutta italiana, scoperta ieri dalla Polizia di Stato. Si tratta di persone, convertite all´estremismo islamico, che si stavano addestrando per compiere il "martirio" in nome della Jihad. Dalle loro case di Palermo, Como, Milano, Cagliari, Brescia, Pesaro, Salerno e Cuneo, quasi ogni giorno, i dodici si scambiavano informazioni su come fabbricare bombe (utilizzando semplice materiale da cucina) per «uccidere gli impuri e i miscredenti». Almeno fino a ieri, quando la divisione nazionale anti terrorismo della Polizia di Stato (Ucigos) ha arrestato uno del gruppo (che era sul punto di fuggire in Marocco) e perquisito le case degli altri undici, sequestrando computer e altro materiale. Sono tutti indagati con l´accusa di "addestramento con finalità terroristica", ma in carcere, per il momento, è finito solo Andrea Campione, 28 anni, operaio di Pesaro. 
Il ragazzo che da tempo si fa chiamare Abdul Wahid As Siquili - sposato con una donna di origine marocchina - si era licenziato dal lavoro (una fabbrica dell´indotto del settore del mobile) perché voleva partire per "compiere la sua missione". Gli inquirenti sostengono che Campione fosse in stretto contatto con un ragazzo - anch´egli di origine marocchina - arrestato a Brescia un mese fa e accusato di aver progettato un attentato alla sinagoga di Milano. Proprio l´arresto dell´amico avrebbe convinto l´operaio marchigiano a prenotare un biglietto di sola andata per il Marocco. «Sarebbe partito a giorni. A Rabat probabilmente avrebbe finito l´addestramento per poi andare in Afghanistan a combattere», rivela Claudio Galzerano, dirigente della divisione anti terrorismo. «Questo gruppo italiano», rimarca il dirigente dell´Ucigos «ha sostenuto la causa jihadista in diverse forme: c´è anche chi si è preoccupato di tradurre i testi di al Qaeda in italiano». Durante le perquisizioni nelle varie città è stato trovato anche un video di un attentato kamikaze. L´operazione è stata denominata «Niriya», dal nickname che Campione usava sul web per acquisire e diffondere testi di natura jahidista e quaedista, e per portare avanti il progetto di terrorismo islamico insieme - ritengono gli inquirenti - con un docente di origine sarda. L´insegnante indagato è un professore quarantenne (precario) che insegna al liceo Dettori di Cagliari. Questa mattina gli agenti hanno bussato alla porta di casa sua e acquisito materiale informatico che adesso verrà analizzato.

Giuseppe Caporale





venerdì 20 aprile 2012

AFGHANISTAN

In posa con i corpi mutilati dei kamikaze
bufera sui soldati Usa in Afghanistan

NEW YORK - Sorridendo, alcuni soldati americani appaiono accanto a corpi maciullati di insorti afghani, morti presumibilmente mentre preparavano ordigni esplosivi: sono le foto che il Los Angeles Times pubblica oggi e che con ogni probabilità inaspriranno ulteriormente i rapporti tra le forze Nato in Afghanistan e le autorità afghane. Sull'accaduto, ha detto Barack Obama, è stata già avviata un'inchiesta, mentre il segretario Usa alla Difesa Leon Panetta ha già espresso «con fermezza» la sua condanna. 
Le immagini. Il giornale, nonostante le pressioni che dice di aver avuto dalle autorità militari Usa, ha deciso di pubblicare due delle 18 foto di cui è entrato in possesso. La più scioccante mostra due soldati Usa accanto a due agenti della polizia afghana che tengono sollevate da terra per i piedi due gambe nude malamente amputate e sanguinolente. Nell'altra si vede un soldato in primo piano che sorride mentre alle sue spalle un suo compagno esamina il cadavere di un uomo che ha gli occhi sbarrati. Il Los Angeles Times scrive che nelle altre foto si possono vedere due soldati in posa che sostengono la mano di un cadavere con il dito medio sollevato, e anche una fascia con scritto Zombie Hunter (cacciatore di zombie). Il giornale scrive che si tratta di scatti del 2010 e di averli avuti da soldati della stessa 82esima divisione aviotrasportata a cui appartengono i militari ritratti nelle foto, che hanno affermato di voler così attirare l'attenzione sui problemi di sicurezza di due basi in Afghanistan. «Posare con cadaveri per fotografie per scopi diversi da quelli ufficiali rappresenta una violazione delle procedure militari», ha sottolineato un portavoce dell'esercito, George Wright.
La condanna Usa. Dura condanna da parte dell'ambasciatore Usa in Afghanistan, Ryan Crocker, e del comandante della Coalizione Nato, il generale John Allen. I militari ritratti nelle foto hanno mostrato «ignoranza e scarsa conoscenza» dei valori dell'esercito Usa, ha detto Allen. L'ambasciatore Crocker ha parlato di «azioni moralmente ripugnanti» da parte dei militari responsabili.


In genere sono i soldatacci pieni di terrore, per lo più mandati in guerra da governi tirannici che schiacciano paesi dove si muore di fame a macchiarsi delle peggiori atrocità in guerra.
Ora anche la crudeltà appiattisce la gente: non vi è più nessuna differenza tra le antiche mutilazioni che i popoli cosiddetti selvaggi infliggevano ai corpi dei nemici uccisi, e la totale mancanza di compassione nei confronti del nemico fatto prigioniero e i soldati iper-nutriti e iper-armati che mutilano, torturano, umiliano chiunque venga genericamente classificato come nemico. Una differenza c'è: le tribù cannibali che mangiavano il cervello di un nemico eliminato o infliggeva le più fantasiose torture ai prigionieri non sembra che si gloriasse dell'atrocità commessa. Persino i tedeschi della Wermacht  si lasciavano sfuggire un moto di compassione vedendo i prigionieri russi che in preda alla fame mangiavano gli elenchi telefonici trovati nelle stazioni o qualche compagno stramazzato al suolo per l'inedia. Il loro commento di fronte a spettacoli del genere era, come riporta Cursio Malaparte nel romanzo "Kaputt", "Povera gente..". Il progresso tecnologico ha creato una quantità enorme di strumenti fotografici e cinematografici, e ha fornito ai soldati dei paesi ultra-civilizzati tutti i mezzi con cui eternare le immagini delle peggiori efferatezze: pisciare sui cadaveri dei nemici caduti, fotografarne le gambe o le braccia maciullate, fare dettagliati reportage delle torture-interrogatorio.
Penso agli onori che gli Indiani d'America rendevano agli avversari più valorosi; e mi vengono in mente le parole che il Profeta in numerosi hadith pronunciava quando vedeva un guerriero dell'Islam comportarsi in maniera disumana con un nemico fatto prigioniero o caduto in battaglia. Così Muhammad si rivolse al suo luogotenente Abu-Bakr che stava legando le mani ad un prigioniero e si accingeva ad applicargli il collare che lo rendeva schiavo: "Sua madre lo ha generato senza segni che ne documentassero la schiavitù perché Allah lo ha creato libero. Chi sei tu che pensa di poter fare ciò che Allah non ha fatto?".
Saladino, dopo aver conquistato a prezzo di gravi perdite Gerusalemme, ordinò ai suoi medici di curare per primi i crociati feriti.

ITALIA

ITALIANI BRAVA GENTE

Rimpatriati con la bocca tappata da scotch

Nastro adesivo da pacchi a tappare la bocca, fascette di plastica a bloccare i polsi. Così si viaggia sulla rotta Roma-Tunisi. Protagonisti due immigrati espulsi dall`Italia e scortati martedì scorso da quattro agenti a bordo di un volo Alitalia. A denunciarlo uno dei passeggeri, che scatta una foto e la pubblica su Facebook. Esplode così il caso politico: «Il governo riferisca con la massima urgenza» è l`invito del presidente della Camera, Gianfranco Fini. E il capo della polizia, Antonio Manganelli, chiede una relazione alla polizia di frontiera di Fiumicino.
Tutto comincia con la foto shock che il regista Francesco Sperandeo pubblica su Facebook (rilanciata da Repubblica.it): «Ero sul volo Alitalia Roma-Tunisi delle 9.20 di martedì scorso – racconta il testimone -negli ultimi posti c`erano due uomini scortati da quattro agenti. Avevano la bocca coperta da una mascherma d`ospedale. Quando a uno di loro è caduta, abbiamo visto che la sua bocca era tappata con scotch da pacchi. Nella totale indifferenza degli altri passeggeri, in due ci siamo alzati per protestare. Sia lo steward che gli agenti ci hanno detto che era una normale operazione di polizia».
Sulla vicenda il capo della polizia Manganelli chiede una prima relazione all`ufficio di frontiera dell`aeroporto di Fiumicino, da dove sono partiti i due immigrati. Qualche elemento, però, sembra già in possesso degli investigatori. I due uomini sarebbero algerini, avrebbero fatto scalo tecnico a Roma con un volo che da Tunisi doveva portarli in Turchia. Arrivati a Fiumicino la mattina del 15 aprile, avrebbero rifiutato per due volte di imbarcarsi sul volo diretto in Turchia. A quel punto le autorità italiane avrebbero fatto scattare la procedura di respingimento che prevede di riportarli nel luogo dal quale sono partiti e dunque a Tunisi. La decisione di mettergli una mascherina fermata con il nastro adesivo, sottolineano fonti della polizia, sarebbe stata presa per la sicurezza degli altri passeggeri: gli immigrati, infatti, tentavano di ferirsi la bocca mordendosi, per poi sputare il sangue addosso agli altri passeggeri ed evitare così l`imbarco.
Nella foto però si vede che lo scotch non è sulla mascherina ma sulla bocca dell`uomo. E non è affatto escluso che sulla vicenda anche la procura voglia fare chiarezza: secondo fonti giudiziarie della Cassazione nel caso sono infatti ipotizzabili due ipotesi di reato, l`abuso di autorità e la violenza privata. «Una cosa è certa – ricorda Riccardo Noury di Amnesty International – per scongiurare i rischi di asfissia posturale, il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d`Europa raccomanda nelle espulsioni via aerea il divieto assoluto di mezzi che possano ostruire le vie respiratorie».
L`immagine del migrante con la bocca tappata rimbalza da Internet al Parlamento, dove esponenti di Pd, Fli e Idv chiedono al governo di riferire e spiegare perché queste procedure vengono definite «normali». Si tratta, dice invece il presidente del Pd Rosy Bindi, di un «trattamento inaccettabile». Per il vicepresidente del Senato, Emma Bonino, «quanto accaduto è sconcertante sia che si confermi come “normale procedura”, sia se frutto della libera valutazione degli agenti».
Secondo Stefano Pedica (Idv), «ciò che è avvenuto sul volo è indecente, neanche a Guantanamo abbiamo assistito a soprusi del genere». Il ministro Andrea Riccardi non risponde nel merito, ma si limita a ricordare che «le persone vanno trattate sempre bene». Alla fine è lo stesso presidente della Camera, Gianfranco Fini, a invitare il governo a «riferire quanto prima» sulla vicenda.


Vladimiro Polchi


"VIOLATA ANCHE LA COSTITUZIONE COSÌ SVANISCE LA DIGNITÀ UMANA"

«Trattare le persone come merci da impacchettare è un pratica degradante che confligge con i diritti inviolabili dell'uomo». Gaetano Azzariti, costituzionalista alla Sapienza di Roma, ha visto la foto shock del migrante con lo scotch sulla bocca: «Se tutto questo venisse confermato saremmo di fronte a una grave violazione dei principi fondamentali della Costituzione».
Ma motivi di ordine pubblico non giustificano talvolta misure straordinarie?
«Oggi si riducono tutti i problemi dell'immigrazione all'ordine pubblico. Ma assolutizzare il valore dell'ordine pubblico e imporre sempre una logica securitaria rischia di far svanire nel nulla la dignità dell'essere umano. A prescindere dai profili penali, in questo caso saremmo di fronte a un conflitto di valori e di sistema con l'intera nostra Costituzione, che si oppone a ogni atto degradante».
Quali articoli vede violati?
«I principi fondamentali, come l'articolo 2 che obbliga a garantire i diritti inviolabili di ogni essere umano, che sia ricco o povero, cittadino o immigrato. E l'articolo 3 che riconosce a tutti pari dignità sociale: non è dunque accettabile che i consociati non rispettino la dignità altrui. Ricordo che da Kant alla Costituzione il valore della dignità umana è assoluto. Oggi siamo invece di fronte al prodotto perverso di una disumanizzazione».
Ci spieghi meglio.
«Si guarda agli uomini come merci e le merci si impacchettano. Le persone invece andrebbero messe nella situazione di non ledere a se stesse e agli altri con modalità che rispettino sempre i diritti umani. Altrimenti, ripeto, si crea un conflitto di fondo con la nostra stessa tradizione costituzionale».
 
Vladimiro Polchi

LA COMPASSIONE E LE REGOLE
LA SICUREZZA innanzitutto. E poi le regole da rispettare e gli ordini da seguire. Ma fin dove? Dove comincia e dove finisce la "normalità"? Imbavagliare con nastro da pacchi due cittadini tunisini che vengono rimpatriati non dovrebbe essere qualcosa di "normale". Anche quando si ritiene "normale" metterli su un aereo per rispedirli nel loro paese. Perché, nonostante tutto, il viso di una persona ha sempre un valore simbolico. È attraverso il viso e la bocca che ognuno di noi esprime la propria soggettività. È attraverso il proprio sguardo che si entra in relazione con gli altri. E la soggettività di un essere umano, anche quando si è commesso un crimine o un delitto, non dovrebbe mai essere negata o cancellata come accade quando, per applicare le procedure ed evitare di creare scompiglio e confusione, si cede alla tentazione di far tacere a tutti i costi, anche con del nastro adesivo. Per garantire il buon funzionamento della società, ciascuno di noi è chiamato a fare il proprio dovere e ad assumersi le responsabilità che gli competono.
Non si tratta qui di negare l' importanza delle regole che, da sempre, rendono possibile il "vivere insieme". Dovere e responsabilità, però, non dovrebbero implicare né un' assenza di compassione, né l' indifferenza. Perché gli esseri umani non sono dei semplici automi, delle macchine che si limitano ad eseguire i programmi con cui sono state concepite. La compassione nei confronti di un' altra persona, però, è possibile solo quando si è capaci di immedesimarsi nell' altro. E, quindi, quando si riconosce l' altro come un essere umano simile a noi. Altrimenti si scivola, anche senza rendersene conto, in una forma di barbarie. Come ci insegna Hannah Arendt nel 1963, il problema del rapporto tra "dovere" e "umanità" è molto complesso. Perché talvolta accade che, proprio nel nome del dovere, ci si dimentica che chi ci sta accanto è anche lui una persona. È allora che si commette il "male". Paradossalmente nel nome del "bene". Anche banalmente. Non perché il male, in sé, sia banale. Ma perché può accadere a chiunque di "smettere di pensare" quando si tratta di applicare una regola, e di non sapere più fare la differenza tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Umiliare una persona non dovrebbe mai essere giusto, anche in nome della sicurezza e della giustizia. Eppure è proprio di umiliazione che si tratta quando si parla di nastro da pacchi sulla bocca. Questi due tunisini li si doveva, certo, rimpatriare. Si doveva probabilmente immobilizzarli. Ma c' era veramente bisogno di farli tacere imbavagliandoli? Non è solo una questione di "eccessi" o di "misura". È una questione simbolica. Gli esseri umani sono caratterizzati dal linguaggio e dalla parola, come spiega bene Lacan. Perché privarli allora di ciò che li rende umani?



Michela Marzano



lunedì 16 aprile 2012

Nucleare iraniano I mullah riaprono il tavolo dei negoziati

GERUSALEMME — Parlarsi, è già qualcosa. Vendere il tappeto, un'altra cosa. «Avete presente il suk?», racconta uno sherpa della diplomazia europea: «Il buon risultato è che il cliente sia finalmente entrato nella bottega. Si sia seduto. E abbia cominciato a guardarci in faccia...». Non per niente, ieri si sono trovati di nuovo al gran bazar d'Istanbul: quindici mesi dopo il disastroso vertice 2011, quando gl'iraniani rifiutarono quasi d'affrontare l'argomento, stavolta la delegazione di Teheran ha sfoderato i sorrisi. «Il loro negoziatore, Said Jalili, s'è presentato calmo e costruttivo ed è entrato subito in argomento — descriveva all'ora di pranzo il portavoce europeo, Michael Mann —. C'è stato qualche momento di confronto, anche teso. Ma è stato un buon mattino, con un'atmosfera positiva, completamente diversa. Nel pomeriggio, chissà, magari faranno un passo indietro...».
Non l'hanno fatto. Né indietro, né avanti. E così il primo round di colloqui sul nucleare ha portato all'unico risultato «utile e costruttivo» (aggettivi di Catherine Ashton, coordinatrice estera Ue) di fissarne un secondo: il 23 maggio, a Bagdad, perché Istanbul piace poco a Sarkozy — in maretta coi turchi dopo le polemiche sul genocidio armeno — e agl'israeliani, che non vogliono regalare la ribalta all'ex amico Erdogan. A un certo punto del pomeriggio, convinti gli ayatollah a entrare «nella bottega», le potenze del gruppo 5+1 hanno tentato il colpaccio storico: organizzare un faccia a faccia Usa-Iran, il primo dai tempi dello Scià. C'è stato fermento, quando un'agenzia persiana ha risposto con un mezzo sì e, subito dopo, altre due agenzie hanno troncato con un deciso no: parlarsi va bene, ma non sarà attraverso la delegata americana Wendy Sherman che s'aprirà una nuova pagina di relazioni col Grande Satana... «Un primo passo positivo» ha commentato in serata la Casa Bianca.
Eccitazioni diplomatiche a parte, i risultati veri stanno a zero. Nemmeno il secondo round iracheno ne darà, probabilmente. E un terzo potrebbe arrivare tardi, se è vero che gl'israeliani — scrive un analista militare di Tel Aviv — sono già pronti a un attacco militare in ottobre. La strategia iraniana, fra Khamenei che lancia fatwe contro la Bomba e Ahmadinejad che promette la «difesa dei nostri diritti nucleari», resta imperscrutabile. Nessuna disponibilità a fermare l'arricchimento d'uranio al 20%, accettando le ispezioni internazionali. Le «nuove iniziative» promesse alla vigilia s'esauriscono nei sorrisi e nella richiesta, ripetuta da Jalili, di «levare già dalla riunione di Bagdad le sanzioni internazionali»: sei risoluzioni Onu di condanna, l'embargo commerciale dal 2010 e quello finanziario d'un mese fa, il blocco petrolifero senza precedenti che partirà dal 1° luglio, tutto questo ha solo ammorbidito i toni di Teheran. Ma Israele è stato chiaro con Obama e i sei gendarmi nucleari mondiali: bisogna distruggere tutto l'uranio arricchito, sia al 20% che al 3,5 e ai livelli inferiori. Il premier Bibi Netanyahu è disposto a lasciarne a Teheran solo qualche kg, per uso civile. E in risposta a chi — lo scrittore Günter Grass — equipara l'atomica israeliana a quella iraniana, ha aperto a Gerusalemme un negoziato segreto per una possibile (clamorosa) adesione nel 2013 al Trattato di non proliferazione nucleare, dispiegando intanto nuove batterie di Patriot sul Carmelo. «Bibi ha capito che minacciare sempre l'attacco fa alzare il prezzo del petrolio, arricchire gli ayatollah e odiare Israele — analizza l'editorialista Nahum Barnea —. Ora si prepara in silenzio. E aspetta che questi colloqui portino al nulla che s'aspetta».

Francesco Battistini


Il Compromesso Difficile fra Khamenei e i Repubblicani

La strategia per l'Iran elaborata dall'amministrazione Obama finora ha dato buoni risultati. Se pressioni senza precedenti hanno costretto Teheran a sedersi al tavolo dei negoziati, tuttavia occorrerà dimostrare straordinarie doti diplomatiche per raggiungere un accordo nel corso dei colloqui, appena iniziati, tra l'Iran e il cosiddetto «club dei 5 + 1» — ovvero Stati Uniti, Gran Bretagna, Russia, Cina, Francia e Germania. Nell'aria aleggia un certo pessimismo: un accordo concreto sarà possibile solo se, come in ogni trattativa riuscita, entrambe le parti avranno qualcosa da portare a casa.
Come potrebbe configurarsi un accordo? Da molto tempo gli Stati Uniti chiedono all'Iran di sospendere l'arricchimento dell'uranio, il procedimento che consente di produrre il combustibile necessario alla bomba atomica. L'Iran sostiene di avere il diritto all'arricchimento, perché lo definisce a scopi pacifici. Oggi è lecito sperare che si stia per raggiungere un compromesso intelligente. Washington ha proposto all'Iran di fermare l'arricchimento dell'uranio al 20 percento, il livello a partire dal quale il combustibile può essere facilmente destinato ad applicazioni militari. L'Iran ha fatto capire che potrebbe accettare questo limite e arricchire solo al 3,5 o al 5 percento, e affermare al tempo stesso di aver salvaguardato il suo diritto all'arricchimento.
Ma l'Iran avrebbe comunque ancora a disposizione riserve di uranio arricchito al 20 percento, prodotto negli ultimi due anni, forse sufficiente per costruire un ordigno nucleare. Teheran ha respinto la richiesta di Washington di trasferire e far custodire all'estero queste scorte di uranio, sostenendo di averne bisogno per la produzione di isotopi a uso ospedaliero. Ricordiamo tuttavia che l'Iran fu vicino a siglare un accordo su questo punto nel 2009, e ne propose un altro nel 2010, accettando di spostare all'estero questo uranio a basso arricchimento. Oggi le dichiarazioni dei negoziatori, da una parte e dall'altra, lasciano intravedere che si potrebbero adottare elementi di quelle vecchie proposte: spedire all'estero una parte delle scorte dell'uranio iraniano in cambio di piastre di combustibile completate, che vengono utilizzate nella produzione di isotopi in ambito medico.
È corsa voce che Washington vuole chiedere all'Iran di chiudere l'impianto nucleare di Fordo, dove l'arricchimento di alto livello viene eseguito in una centrale segreta, ricavata nel ventre di una montagna nei pressi di Qom. (Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha avanzato espressamente una richiesta in tal senso la scorsa settimana). L'Iran si è rifiutato, affermando di avere il diritto di posizionare i suoi impianti nucleari dove meglio crede, dato che il suo programma nucleare è per uso civile. Washington farebbe meglio ad ammorbidire la sua posizione su questo punto, a condizione che l'Iran accetti le visite accurate di ispettori indipendenti.
Il punto cruciale sul quale l'Iran dovrebbe fare importanti concessioni riguarda appunto le ispezioni. Il rapporto dell'Agenzia internazionale dell'energia atomica, emanato nel 2011, elenca una serie di fattori che stanno a indicare la precisa volontà iraniana di puntare alla bomba atomica. I «5 + 1» dovrebbero far riferimento a questo documento per elencare quali sono le azioni che l'Iran si impegna a non intraprendere, e per insistere che l'Aiea ottenga pieno accesso a tutti i siti, in modo da poter controllare che il programma militare sia stato effettivamente accantonato. Se accettasse le ispezioni dell'Aiea, l'Iran sarebbe ricompensato con la revoca progressiva delle sanzioni, man mano che i controlli procedono senza ostruzionismi. 
Ma gli accordi funzionano se vengono accettati da entrambe le parti. Al momento attuale c'è motivo per credere che i vertici più intransigenti del paese, sotto la guida del leader supremo, l'ayatollah Ali Khamenei, potrebbero essere disposti a trattare. Khamenei ha rafforzato il suo potere, smantellando il Movimento verde; si è riconciliato con un temibile rivale, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani; e ne ha emarginato un altro, il presidente Mahmoud Ahmadinejad. Khamenei si è inoltre ritagliato ampi spazi di manovra per fare concessioni sul programma nucleare. Rileggiamo la dichiarazione categorica emanata a febbraio: «La nazione iraniana non insegue e non inseguirà mai l'arma nucleare … perché la repubblica islamica, dal punto di vista logico, religioso e teorico, considera il possesso delle armi nucleari un grave peccato e ritiene insensata, oltre che distruttiva e pericolosa, la proliferazione di questi armamenti». Khamenei avrà voluto preparare il terreno, per spiegare le eventuali concessioni in patria. La strategia di Obama è quella di dire all'Iran: «Vi chiediamo soltanto di convalidare le vostre affermazioni con azioni concrete», un modo assai scaltro per formulare le sue richieste. Ma se l'Iran farà concessioni, gli Stati Uniti dovranno accettarle e sollevare in parte le sanzioni. Ma è proprio qui che lo schieramento repubblicano di Washington potrebbe creare ostacoli. Se i repubblicani interferiscono con i negoziati, o si rifiutano di ricambiare, accettando l'abolizione delle sanzioni, non ci sarà nessun accordo.
Il governo Obama ha sin qui negoziato abilmente con i suoi alleati, Russia, Cina, le Nazioni Unite e persino con Teheran. Per portare a casa l'accordo, tuttavia, Obama dovrà vedersela con il suo peggior avversario, che rischia di far fallire le trattative: il partito repubblicano.

Faared Zakaria

AFGHANISTAN

AFGHANISTAN: I TALEBANI ATTACCANO KABUL, QUASI 50 MORTI E DECINE DI FERITI

Sono durati per 17 ore i combattimenti che da ieri hanno coinvolto le forze di sicurezza afgane nel contrastare il più massiccio attacco lanciato dai talebani negli ultimi 10 anni e che, secondo un bilancio ufficiale diffuso oggi, hanno provocato la morte di 47 persone e il ferimento di altre 60. Secondo l’ultimo bilancio diffuso oggi dal ministero dell’Interno nelle violenze iniziate ieri sono morti 36 talebani (uccisi dalle bombe che avevano addosso negli attentati suicidi o in scontri con le forze dell’ordine) otto militari afgani e tre civili. Tra i feriti si contano una quarantina di militari e 25 civili. Sulla base delle ricostruzioni ufficiali sono stati almeno sei gli attacchi coordinate lanciati ieri: un contro il Parlamento, uno contro il vice-presidente, uno contro la Forze internazionale della Nato (Isaf) e gli altri contro rappresentanze diplomatiche occidentali. “Attacchi ben coordinati” nel pieno centro di Kabul, come riferisce l’agenzia di stampa afghana Pajhwok, dall’alto valore simbolico, con i talebani che hanno voluto (mentre si parla ancora di negoziati) affermare la loro presenza e la loro capacità d’urto, a oltre dieci anni dall’invasione statunitense che mise fine al regime degli “studenti” ma non alla loro presenza. Kabul a parte, le violenze hanno interessato anche Logar, Nangarhar e Paktia. A Paktia sono entrati in azione almeno quattro kamikaze, a Nangarhar erano invece in sette. Kamikaze sono stati quelli che hanno dato il via all’operazione architettata dai talebani: quando era da poco pomeriggio, alcuni di loro hanno infatti tentato di introdursi nel parlamento facendosi esplodere mentre altrove cominciavano a udirsi colpi di arma da fuoco. I talebani hanno rivendicato gli attacchi sostenendo che gli obiettivi principali erano il quartier generale della Nato, e le ambasciate di Gran Bretagna e Germania.