La Casa Bianca ha appena presentato la nuova strategia anti-terrore. Una campagna più «leggera» , fatta di incursioni dei droni e operazioni dei commandos. Un modo per ridurre le perdite, un tentativo di sembrare meno invasivi. Ma anche una scelta per tagliare un budget impossibile. Uno studio della Brown University ha calcolato che i conflitti in Afghanistan e in Iraq costeranno all’America 4 mila miliardi di dollari, più della Seconda guerra mondiale. Una «ricevuta» alla quale va aggiunto il conto libico. Almeno 2 milioni di dollari al giorno che, sommati, potrebbero diventare 750 alla fine dell’anno. I numeri del rapporto sembrano quelli di Paperone ma sono drammaticamente veri. Denaro che il Pentagono si è fatto prestare e prima o poi dovrà essere restituito. Senza compromettere le esigenze della difesa. La storia, purtroppo, non è ancora finita. In Iraq resteranno 50 mila uomini, in Afghanistan si sta studiando solo adesso come sganciarsi. Passeranno degli anni. Alle missioni all’estero si aggiungono poi le attività sul «fronte interno» . Parliamo del bilancio per difendere il territorio americano dal terrorismo. Una minaccia che, a giudizio dell’intelligence, continua a mutare. Prima aveva origini in centrali straniere, oggi cresce tra i confini con i qaedisti fa i da-te. In ogni caso ha alimentato un settore della sicurezza che produce dagli scanner agli sniffatori elettronici di bombe, dai cani addestrati a apparati di sorveglianza sofisticati. Voci che rappresentano una porzione dei 4 mila miliardi. Sempre nella ricerca— che conferma indicazioni già uscite durante gli ultimi mesi — si calcolano le vittime della guerra. Totale: 224.475. I numeri colpiscono quanto quelli del bilancio. Partiamo dai militari: gli americani hanno perso 6.051 soldati e 2.300 contractor. Tremendo il conflitto iracheno con 125 mila vittime civili, causate prima dall’invasione e poi dal binomio guerriglia/terrore. «Parlano» ancora di più i dati della guerra dei dieci anni, quella nello scacchiere asiatico. Oltre 11 mila i civili afghani rimasti uccisi e ben 35.600 i caduti sul versante pachistano. Ma quest’ultimo dato non è preciso in quanto include sia l’abitante del villaggio che il ribelle. Il bilancio pachistano conferma quello che tutti sanno: il vero scontro è oggi in Pakistan, è lì la chiave che può aprire le porte per la exit strategy. Passando alle perdite tra le forze che hanno collaborato con gli Stati Uniti, i ricercatori della Brown University precisano: 1.192 alleati, 10 mila militari iracheni, 9.922 membri della sicurezza irachena, 8.756 soldati afghani, 3.520 pachistani. Gli insorti talebani avrebbero avuto invece circa 10 mila morti, ai quali si devono aggiungere diverse dozzine di qaedisti non inseriti nelle tabelle dello studio. Tra loro c’è anche Osama Bin Laden. Ma su quanti siano i terroristi che sono stati eliminati le stime sono sempre complicate. È difficile, spesso, determinare se il target è stato «terminato» per davvero, non mancano casi di personaggi dati per morti e poi riapparsi. Di certo, sotto la gestione di Barack Obama è emerso un sentiero: la guerra segreta ad Al Qaeda è cresciuta di intensità e gli americani hanno fatto meno prigionieri.
Vi ricordate quando la motivazione ufficiale della guerra americana all'Afghanistan era la caccia a Bin Laden, responsabile dell'attentato dell'11 Settembre alle Torri Gemelle?
E vi ricordate quando si aggiunsero motivazioni tra il politico e il pittoresco come "Dobbiamo rovesciare il regime antidemocratico dei talebani; dobbiamo liberare le donne afghane dal burqa!"?
E vi ricordate quando si dichiarò guerra all'Iraq con la doppia motivazione che Saddam Hussein era il principale complice di Al Qaeda e che la sua dittatura, una specie di impero del male, era una minaccia per l'universo a causa del possesso di terribili armi di distruzioni di massa da parte del dittatore iracheno?
Bene dopo quasi 10 anni di guerre, ben lungi dall'essere concluse, morto Bin Laden e i suoi numerosi presunti aiutanti, i generali americani non sono d'accordo con la fine della guerra in Afghanistan e truppe americane stazionano ancora in Iraq: le donne afghane portano ancora in gran parte il burqa, il terrorismo suicida non ha cessato di mietere vittime, l'Iraq è diventata una potenziale Jugoslavia pronta a ricominciare un'irrisolvibile guerra civile tra etnie e fedi religiose, collegabili all'acuirsi di odi secolari e dalle prepotenze dell'occidente coloniale.
Gli americani hanno quantificato i costi di queste nefandezze: naturalmente si sono limitati a farlo per i loro costi, ma non hanno calcolato quelli pagati dagli afghani e dagli iracheni. La crisi economica mondiale nata dalle scempiaggini statunitensi l'abbiamo pagata anche noi e seguitiamo a pagarla: nella lista di quelli che dovranno coprire una parte dei danni di guerra ci sono anche gli europei: per il momento tocca alla Grecia, poi si vedrà. I costi della criptoguerra di Libia è conosciuta solo per il livello giornaliero che ne sopportano gli americani. In seguito, visti i "chiari di luna" e la capacità fantasmatica di Gheddafi, si vedrà.
Invisibile ma onnipresente il fantasma di Gheddafi nella capitale assediata
TRIPOLI. Ce l'hai sempre in mente. È un chiodo fisso. Non sai in quale angolo, palazzo o bunker, della capitale vive, impartisce ordini, incontra figli e subordinati. Non sai come sfugge alle incombenti incursioni della Nato. È invisibile ed hai l´impressione che sia dappertutto.
Non c´è angolo della capitale in cui non ti imbatti nel suo volto, severo, sorridente, impassibile. Come ha accolto la notizia del mandato di cattura internazionale? Il suo portavoce, l´infaticabile Mussa Ibrahim, ce l´ha descritto «sereno, sicuro di sé, deciso a battersi». Lo è ancora dopo che il Tribunale penale internazionale l´ha indicato come "un criminale" da catturare? Il suo umore non è certo mutato, giurano i suoi. Insomma Muhammar Gheddafi se ne infischia. Se ne fa un baffo.
Verso mezzogiorno, all´Hotel Rixos, dove sono raccolti i giornalisti stranieri, ci annunciano un imminente incontro con esponenti del governo. Forse ce lo fanno vedere. Sono giorni che non si mostra ed è probabile che Gheddafi voglia commentare la decisione del Tribunale penale internazionale. Il ministro della giustizia, Mohammed al-Gamudi, ha già spiegato che la Libia non riconosce la giurisdizione da cui è stato lanciato il mandato di cattura. Tripoli non è uno dei 105 paesi che hanno accettato la formazione di quel tribunale. Ma è probabile che Gheddafi voglia esprimersi. Sia pur increduli, ci lasciamo condurre con un pullman di servizio all´Hotel Radisson, affacciato sul porto semideserto. E lì non troviamo il colonnello più preso di mira del mondo, ma un sessantenne dall´aspetto tutt´altro che militaresco, in giacca e cravatta a pallini, di modesta statura, sorridente, gioviale, che ci spiega come sia in corso una profonda riforma di decentramento del potere amministrativo, in favore delle quarantacinque muncipalità che compongono la Libia ancora sotto il controllo del governo di Tripoli.
È il primo ministro Al-Baghdadi Ali al-Mahmudi, all´origine ostetrico - ginecologo e da anni uno degli uomini più vicini e fedeli a Muhammar Gheddafi. Poiché quest´ultimo, pur avendo il potere, non ha alcuna carica ufficiale, al-Mahmudi, l´ostetrico da tempo convertito alla politica, è formalmente al vertice della gerarchia. E in questa veste ci vuole dimostrare che, nonostante la guerra civile, e il paese in brandelli, le riforme continuano. A confermarlo ci sono i quarantacinque capi delle municipalità riuniti in assemblea. È un modo per dimostrarci che, appunto, Gheddafi se ne infischia del mandato di cattura e che la sua Jamahiriyya continua a vivere normalmente.
Deluso, ed anche un po´ beffato, mi immergo di nuovo nella metropoli. Di primo mattino, nella Medina, ho incontrato due anziani commercianti che parlavano un italiano corretto, condito di parole desuete, direi antiche. Ho sempre frequentato ex colonie di paesi stranieri, francesi o inglesi, e scopro che il sentire parlare la mia lingua in questa inquietante situazione crea attorno a me un´atmosfera di famiglia. Anche se i miei interlocutori mi raccontano di loro parenti lontani uccisi dagli italiani. Ma lo fanno senza asprezza, senza apparente rancore, quasi si trattasse di avvenimenti che ci accomunano. Se non proprio ci uniscono. La storia fa questi scherzi, non solo intreccia ma allaccia destini che sembravano condannati a restare, almeno nella memoria, in aperta tenzone. In questa chiave anche Gheddafi appartiene alla " famiglia". È proprio cosi. Le vecchie parentele sono responsabilità da aggiudicare agli antenati. Lui è nato nella provincia di Misurata quando la Libia era per l´Italia fascista la "quarta sponda". Lo sarebbe stato ancora per poco, perché quando Gheddafi venne al mondo, nel 1942, a una ventina di chilometri a Sud di Sirte, le colonne corazzate dell´Afrikakorps di Rommel e le truppe motorizzate italiane si rincorrevano nel deserto con l´VIII Armata britannica. E a guerra finita, con l´Italia sconfitta, quando aveva sei anni, Gheddafi ha visto i due cugini con i quali giocava uccisi da una mina lasciata dagli italiani. Una scheggia gli ha lasciato una cicatrice sull´avambraccio destro.
Non è il caso di manifestare ai due "parenti" libici della Medina le mie divagazioni storico-sentimentali. Nomino appena Gheddafi. Al suo nome alzano gli occhi al cielo e dicono che "va bene", anzi " benissimo". Continuo il viaggio della città inseguito dall´idea che sono in tanti a dipendere dalla sua sorte. Molto di più di quanto egli valga e meriti. Dipende anzitutto da lui il destino del Paese e della sua gente. Ed anche l´avvenire più o meno immediato di Tripoli. Senza contare la credibilità della Nato che ha sconfitto l´Urss senza sparare un solo colpo di cannone ma che non riesce a piegare quel che resta di un regime tra gli ultimi nella gerarchia dei potenti della Terra. È in corso una guerra civile ma anche una caccia all´uomo. La presenza del quale al potere blocca le trattative e quindi una possibile pace. Se sei in questa capitale bianca, che nasconde le forti emozioni con dignitosa apprensione, ce l´hai sempre in mente. Sei qui per lui.
A due passi della Piazza verde c´è un suo ritratto sofisticato disegnato su un muro bianco. Il pittore di servizio ha tracciato un volto affilato, da primo attor giovane, ma con il piglio di un vero rais. Mi ricorda l´ufficiale di quarant´anni fa che vidi dietro una scrivania sgombra di carte, intento a impartire ordini e a rispondere con frasi asciutte ai visitatori stranieri. E a fissare con gli occhi socchiusi, lo sguardo fermo, il cronista italiano, cittadino di un paese con il quale aveva molti conti da regolare e tante curiosità da soddisfare. I decenni di storia trascorsi sono visibili sugli altri numerosi ritratti che tappezzano la città. Gli occhiali scuri e l´abbondante turbante nascondono il volto segnato dal tempo. E dal potere. Quando ti imbatti in quelle immagini pensi di vivere qualcosa di surreale.
È surreale la città bianca che si muove disciplinata pur essendo in preda all´angoscia di sapersi isolata nel mondo. E con un leader, amato o subito, comunque temuto, che lega la propria sopravvivenza politica a quella della sua gente. Le insurrezioni nel resto del mondo arabo hanno spezzato il dogma del rais intoccabile, e invulnerabile anche se sconfitto in guerra; ma qui quel dogma sopravvive, forse puntellato dalle alleanze tribali. Ed anche perché, nonostante le incursioni mirate della Nato su Tripoli, il conflitto è ancora lontano. I ribelli, armati con lanci aerei dalla Francia, starebbero tuttavia per compiere progressi sulle montagne, nella Libia occidentale. Il loro obbiettivo è Zawiyah, centro petrolifero chiave, la cui occupazione metterebbe in serie difficoltà Tripoli. Ma i tempi, per Gheddafi e i suoi, appaiono ancora lunghi. E imprevedibili.
Non c´è angolo della capitale in cui non ti imbatti nel suo volto, severo, sorridente, impassibile. Come ha accolto la notizia del mandato di cattura internazionale? Il suo portavoce, l´infaticabile Mussa Ibrahim, ce l´ha descritto «sereno, sicuro di sé, deciso a battersi». Lo è ancora dopo che il Tribunale penale internazionale l´ha indicato come "un criminale" da catturare? Il suo umore non è certo mutato, giurano i suoi. Insomma Muhammar Gheddafi se ne infischia. Se ne fa un baffo.
Verso mezzogiorno, all´Hotel Rixos, dove sono raccolti i giornalisti stranieri, ci annunciano un imminente incontro con esponenti del governo. Forse ce lo fanno vedere. Sono giorni che non si mostra ed è probabile che Gheddafi voglia commentare la decisione del Tribunale penale internazionale. Il ministro della giustizia, Mohammed al-Gamudi, ha già spiegato che la Libia non riconosce la giurisdizione da cui è stato lanciato il mandato di cattura. Tripoli non è uno dei 105 paesi che hanno accettato la formazione di quel tribunale. Ma è probabile che Gheddafi voglia esprimersi. Sia pur increduli, ci lasciamo condurre con un pullman di servizio all´Hotel Radisson, affacciato sul porto semideserto. E lì non troviamo il colonnello più preso di mira del mondo, ma un sessantenne dall´aspetto tutt´altro che militaresco, in giacca e cravatta a pallini, di modesta statura, sorridente, gioviale, che ci spiega come sia in corso una profonda riforma di decentramento del potere amministrativo, in favore delle quarantacinque muncipalità che compongono la Libia ancora sotto il controllo del governo di Tripoli.
È il primo ministro Al-Baghdadi Ali al-Mahmudi, all´origine ostetrico - ginecologo e da anni uno degli uomini più vicini e fedeli a Muhammar Gheddafi. Poiché quest´ultimo, pur avendo il potere, non ha alcuna carica ufficiale, al-Mahmudi, l´ostetrico da tempo convertito alla politica, è formalmente al vertice della gerarchia. E in questa veste ci vuole dimostrare che, nonostante la guerra civile, e il paese in brandelli, le riforme continuano. A confermarlo ci sono i quarantacinque capi delle municipalità riuniti in assemblea. È un modo per dimostrarci che, appunto, Gheddafi se ne infischia del mandato di cattura e che la sua Jamahiriyya continua a vivere normalmente.
Deluso, ed anche un po´ beffato, mi immergo di nuovo nella metropoli. Di primo mattino, nella Medina, ho incontrato due anziani commercianti che parlavano un italiano corretto, condito di parole desuete, direi antiche. Ho sempre frequentato ex colonie di paesi stranieri, francesi o inglesi, e scopro che il sentire parlare la mia lingua in questa inquietante situazione crea attorno a me un´atmosfera di famiglia. Anche se i miei interlocutori mi raccontano di loro parenti lontani uccisi dagli italiani. Ma lo fanno senza asprezza, senza apparente rancore, quasi si trattasse di avvenimenti che ci accomunano. Se non proprio ci uniscono. La storia fa questi scherzi, non solo intreccia ma allaccia destini che sembravano condannati a restare, almeno nella memoria, in aperta tenzone. In questa chiave anche Gheddafi appartiene alla " famiglia". È proprio cosi. Le vecchie parentele sono responsabilità da aggiudicare agli antenati. Lui è nato nella provincia di Misurata quando la Libia era per l´Italia fascista la "quarta sponda". Lo sarebbe stato ancora per poco, perché quando Gheddafi venne al mondo, nel 1942, a una ventina di chilometri a Sud di Sirte, le colonne corazzate dell´Afrikakorps di Rommel e le truppe motorizzate italiane si rincorrevano nel deserto con l´VIII Armata britannica. E a guerra finita, con l´Italia sconfitta, quando aveva sei anni, Gheddafi ha visto i due cugini con i quali giocava uccisi da una mina lasciata dagli italiani. Una scheggia gli ha lasciato una cicatrice sull´avambraccio destro.
Non è il caso di manifestare ai due "parenti" libici della Medina le mie divagazioni storico-sentimentali. Nomino appena Gheddafi. Al suo nome alzano gli occhi al cielo e dicono che "va bene", anzi " benissimo". Continuo il viaggio della città inseguito dall´idea che sono in tanti a dipendere dalla sua sorte. Molto di più di quanto egli valga e meriti. Dipende anzitutto da lui il destino del Paese e della sua gente. Ed anche l´avvenire più o meno immediato di Tripoli. Senza contare la credibilità della Nato che ha sconfitto l´Urss senza sparare un solo colpo di cannone ma che non riesce a piegare quel che resta di un regime tra gli ultimi nella gerarchia dei potenti della Terra. È in corso una guerra civile ma anche una caccia all´uomo. La presenza del quale al potere blocca le trattative e quindi una possibile pace. Se sei in questa capitale bianca, che nasconde le forti emozioni con dignitosa apprensione, ce l´hai sempre in mente. Sei qui per lui.
A due passi della Piazza verde c´è un suo ritratto sofisticato disegnato su un muro bianco. Il pittore di servizio ha tracciato un volto affilato, da primo attor giovane, ma con il piglio di un vero rais. Mi ricorda l´ufficiale di quarant´anni fa che vidi dietro una scrivania sgombra di carte, intento a impartire ordini e a rispondere con frasi asciutte ai visitatori stranieri. E a fissare con gli occhi socchiusi, lo sguardo fermo, il cronista italiano, cittadino di un paese con il quale aveva molti conti da regolare e tante curiosità da soddisfare. I decenni di storia trascorsi sono visibili sugli altri numerosi ritratti che tappezzano la città. Gli occhiali scuri e l´abbondante turbante nascondono il volto segnato dal tempo. E dal potere. Quando ti imbatti in quelle immagini pensi di vivere qualcosa di surreale.
È surreale la città bianca che si muove disciplinata pur essendo in preda all´angoscia di sapersi isolata nel mondo. E con un leader, amato o subito, comunque temuto, che lega la propria sopravvivenza politica a quella della sua gente. Le insurrezioni nel resto del mondo arabo hanno spezzato il dogma del rais intoccabile, e invulnerabile anche se sconfitto in guerra; ma qui quel dogma sopravvive, forse puntellato dalle alleanze tribali. Ed anche perché, nonostante le incursioni mirate della Nato su Tripoli, il conflitto è ancora lontano. I ribelli, armati con lanci aerei dalla Francia, starebbero tuttavia per compiere progressi sulle montagne, nella Libia occidentale. Il loro obbiettivo è Zawiyah, centro petrolifero chiave, la cui occupazione metterebbe in serie difficoltà Tripoli. Ma i tempi, per Gheddafi e i suoi, appaiono ancora lunghi. E imprevedibili.
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