I - "CHIEDEVAMO PIETA' E LUI SPARAVA" TRA I RAGAZZI DELL'ISOLA DELLA MORTE
SUNDVOLLEN. «È stata una scena terrificante. Quel poliziotto che urlava "venite più vicini", poi gli spari, il sangue, le grida "non ucciderci". Siamo scappati in preda al panico, qualcuno si buttava in acqua, io mi sono nascosta nei cespugli. Mi sembrava un incubo ma era tutto vero». Hana ha 18 anni, i capelli biondi e fatica a parlare. La voce è flebile, un mormorio, gli occhi terrorizzati di chi ha visto la morte in faccia.
Davanti al Sudvollen Hotel lei ed altri ragazzi scampati alla strage raccontano quel maledetto venerdì pomeriggio, quando una festa di adolescenti in un´isoletta in mezzo ai fiordi si trasformata nel male assoluto sotto le sembianze di un finto poliziotto.
L´isola maledetta è lì davanti, poche centinaia di metri da questo agglomerato di case, due hotel e un supermercato che è diventato il rifugio degli scampati, il quartier generale della polizia, il parcheggio delle ambulanze. Sembra un paradiso terrestere Utoya, con i suoi pini che scendono fino all´acqua, le macchie di roccia e qualche striscia di sabbia, è bella anche sotto la pioggia battente e il cielo sempre più nero, un´oasi baciata dalla natura che solo la lucida follia di un pluriomicida ha potuto trasformare nel giro di un´ora nell´isola della morte.
«Mi spiace, non ci potete proprio andare». Il poliziotto è gentile ma fermo, anche un paio di barche locali partite per avvicinarsi vengono fatte tornare indietro. «Stiamo cercando altri superstiti, non sappiamo esattamente quanti fossero i giovani presenti, di quelli cercati dai genitori ne mancano ancora cinque o sei. No, non posso dirle niente. Sì, era vestito da poliziotto, questa cosa mi fa stare ancora più male, ci ha usato per uccidere, non è umano, è un mostro». Tra gli agenti qualcuno cede alla commozione, i più solo alla rabbia. Da ore stanno cercando nuovi superstiti - al momento i morti accertati sono 85 - ogni ora che passa la speranza diminuisce. Usano anche un piccolo sottomarino, girano senza sosta attorno all´isola, consolano i ragazzi che hanno perso un amico, telefonano ai genitori che ancora non sono arrivati.
Thor i genitori lo hanno trovato. Ha i pantaloni di tuta grigia e una maglietta azzurra, racconta anche lui quell´ora d´inferno che non dimenticherà mai. «Ci siamo fidati, era la polizia, era lì per difenderci, che altro potevamo pensare? Quando ha iniziato a sparare ho sentito le urla, mi sono messo a correre come un pazzo, eravamo in tre, ci siamo buttati in mare, io mi sono nascosto in una specie di caverna tra le rocce, l´acqua fino alla gola, poi quando sono arrivate le barche ho nuotato, nuotato fino a quando mi hanno raccolto. Devo la vita alla gente di questo posto, non saprò mai come ringraziarli». Il padre lo stringe sulle spalle, la madre lo accarezza e non riesce a nascondere la commozione, vanno via scortati da un paio di poliziotti, tornano a casa, «proveremo a dimenticare».
Come Hana, come Thor, anche i racconti degli altri superstiti - i pochi che ancora sono a Sundvollen in attesa dei papà e delle mamme - narrano il terrore, il panico, la morte. «Ha cominciato a sparare sull´isola, contro quelli che aveva raggruppati, poi ha sparato contro chi era fuggito in acqua, contro chi nuotava, sparava per uccidere», dice Elise che si è nascosta «proprio sotto la roccia» dove l´omicida sparava all´impazzata con la sua arma automatica. Racconta di come sia riuscita a telefonare ai genitori che hanno cercato di tranquillizzarla, che le hanno consigliato di «levarsi la giacchetta dai colori sgargianti» per non attirare l´attenzione.
«Come ha potuto, come ha potuto», ripete singhiozzando un ragazzo dalla carnagione mediterranea, figlio di uno dei tanti emigranti che la Norvegia ha accolto a braccia aperte, a cui ha dato una casa, un lavoro e una vita pacifica. «Come ha potuto sparare a chi era a terra, finire con un colpo di grazia chi non era ancora morto, come ha fatto ad uccidere così tante persone. Dove stava la polizia, perché non lo hanno ammazzato?». Una ragazza gli tende la mano, si abbracciano, anche lei ha visto in faccia l´orrore: «C´erano giovani a terra, c´era sangue, qualcuno faceva finta di essere morto, forse sperava di salvarsi. Io ero nascosta dietro un albero, c´erano tanti cespugli, ero paralizzata dalla paura. Poi ho alzato lo sguardo e ho visto che sparava ancora, proprio su quelli a terra. A quel punto ho chiuso gli occhi».
Erik ha solo quindici anni e si è salvato nuotando il più velocemente possibile. «Eravamo in tanti, non so, una decina forse, qualcuno non ce l´ha fatta. Sentivo gli spari, avevo capito che stava mirando verso di noi, ho continuato a nuotare fino a quando ho sentito delle braccia che mi tiravano su. Non so se ce l´avrei fatta ad arrivare fino a riva, qualcuno credo che ci sia riuscito, altri sono scomparsi in mezzo al fiordo». Si appoggia alla tenda gialla e verde che qualcuno ha lasciato in piedi proprio sulla riva che fronteggia l´isolotto, cerca di calcolare le distanze, «non sembra troppo lunga, ma non eravamo lì per fare un bagno».
Lì accanto uno dei locali, uno dei tanti che appena ha capito cosa stesse succedendo si lanciato in mare con la sua barchetta contribuendo a salvare molte vite, scuote la testa. «Se uno guarda da qui, magari pensa, sì, a nuoto si può anche fare. Ma quelli erano ragazzi in campeggio, avevano mangiato, magari anche bevuto qualche birra, e l´acqua qui è ghiacciata, non siamo mica su una spiaggia del Mediterraneo. E poi erano terrorizzati, c´era uno che gli sparava addosso. Quanti ne ho raccolti? Non ricordo bene, tutti quelli che ho potuto mettere in questa barchetta, sette, otto, non so, non ho avuto tempo per ragionare».
E´ durata un´ora e mezza la strage degli innocenti, decine di minuti lunghissimi che nel ricordo di chi li ha vissuti non sembravano finire mai. Un´ora e mezza di caccia all´uomo, sparando per uccidere, senza che nessuno sia riuscito ad intervenire per fermare quell´assassinio di massa. Quasi tutte le testimonianze concordano, un poliziotto (finto) che invitava i giovani a raggrupparsi, che all´improvviso tirava fuori da un borsone l´automatica e iniziava a sparare. C´è anche però chi parla di complici, chi ha sentito altri spari, da altre parti. Forse è solo suggestione e la polizia insiste sull´azione isolata.
Il giorno dopo è quello del cordoglio, dei pianti, della commozione e degli abbracci. Di polemiche non è ancora tempo, ma prima o poi, a mente fredda, qualcuno dovrà provare a spiegare come tutto ciò sia stato possibile, come un uomo travestito da poliziotto abbia potuto andare avanti per novanta minuti a compiere la peggiore carneficina che la Norvegia di oggi ricordi.
La Repubblica, 24/07/2011, Alberto Flores D'Arcais
II - IL NORVEGESE CHE AMAVA KAFKA E ODIAVA L'ISLAM
ASTA (Est NORVEGIA)
Sulla riva del fiume Glomma, fra gli abeti dell´Hedmark, facce nere o gialle se ne vedono poche. Forse era per questo che Anders Behring Breivik si era rifugiato da queste parti.
QUI, nel cuore agricolo della Norvegia, ben lontano da Oslo e dalla sua odiata promiscuità culturale. O forse il motivo del trasloco era la pace: la possibilità di miscelare tranquillamente le sei tonnellate di fertilizzante a base di nitrato d´ammonio con gli altri ingredienti necessari per la bomba. La polizia norvegese ne è convinta: l´autobomba che ha straziato il centro di Oslo era carica di esplosivo fatto in casa, con tutta probabilità fra il granaio e la residenza in legno bianco della fattoria Breivik Geofarm.
Gli ultimi cinque sacchi da 600 chili sono ancora lì, a lato del vialetto, bianchi con il simbolo della fabbrica chimica Yara, una piccola nave vichinga su fondo blu. Breivik aveva ordinato per telefono il fertilizzante, forse per non apparire nei negozi. «Non possiamo venderli a tutti, ma solo agli agricoltori. Se però uno è registrato come tale, nessuno gli chiede niente. E sei tonnellate è una quantità normalissima», spiegano i commessi del vicino emporio Felleskjopet, a Rena.
Nella pace della casetta di legno, Breivik si tormentava sul futuro della sua Norvegia, minacciata dalla modernità. Difficile credere che la sua preoccupazione fosse la ricchezza del raccolto: basta guardare i campi trascurati. «Forse allevava api, ci sono delle arnie, sotto», dice il comandante dei poliziotti che controllano la fattoria. O più probabilmente, stava pianificando il massacro dei ragazzi nel campeggio di Utoya, dettaglio per dettaglio, dalla barca necessaria per arrivare all´isola, fino all´uniforme della polizia, utile per non allarmare i ragazzi, radunarli in pace e ucciderli uno per uno.
Ha confessato, Anders Behring Breivik: quanto meno ha confessato di essere l´assassino dei piccoli laburisti, non di essere l´organizzatore dell´attentato di Oslo. E la sua confessione, assieme al racconto dei sopravvissuti, serve a delineare il personaggio. «Le mie azioni sono state atroci - ha riconosciuto al suo avvocato - ma necessarie». Persino l´abbottonatissimo poliziotto di guardia alla fattoria si stupisce dell´epilogo: «In genere chi commette massacri del genere, poi si toglie la vita».
Breivik invece no. Si è arreso alle forze speciali della polizia dopo un´ora e mezzo di sparatoria tranquilla e metodica sui ragazzi. Le testimonianze dei sopravvissuti parlano di un assassino «calmissimo», che si assicurava di aver fatto un buon lavoro con un secondo colpo in testa per ogni caso dubbio. Freddo, professionale. D´altronde non era uomo da riferimenti modesti. Nei mesi scorsi aveva postato su Twitter una citazione di John Stuart Mills: «Una persona con una fede ha la forza di 100.000 che hanno solo interessi».
Attorno alla casa bianca di legno, oltre i nastri stesi dagli agenti e marchiati "Politi", il terreno è incolto. Nello spiazzo fra la casa e il granaio il furgoncino degli investigatori è aperto, due tecnici forensi con la mascherina sul viso fanno la spola fra gli edifici e la vettura. Per ora gli investigatori non parlano: non si sa se era nella pace della campagna che Breivik ha concepito e pubblicato il suo profilo Facebook, sparito da internet ma reso pubblico dalla stampa norvegese.
Celibe, cristiano e conservatore, si definiva lui sulla pagina del social network. La scelta delle informazioni pubblicate e le sue foto in posa, levigatissime, fanno quasi pensare a un progetto narcisista, lucido pur nella follia. Era orgoglioso di far conoscere la sua passione per videogiochi come World of Warcraft o Modern Warfare, per libri come "1984" di George Orwell, "Il processo" di Franz Kafka e "Il principe" di Niccolò Machiavelli. Fra i suoi interessi, la caccia, il body building e la massoneria. Il ritratto di una persona tradizionalista, con interessi culturali. Ma oltre alle foto, la nota stonata è nella voce "amici", completamente vuota. E no, non era solo la necessità di privacy, la legittima voglia di star da solo, nella pace della terra delle alci. Se la versione recuperata dalla stampa norvegese è corretta, più che uno strumento per le relazioni sociali, quel profilo sembra quasi una specie di "testamento", lasciato forse in previsione di gesti clamorosi.
Sul social network, Breivik non parlava delle armi: la stampa norvegese ha scoperto la sua affiliazione in un gruppo di tiro, che gli permetteva di tenere armi legalmente registrate. Per la polizia il 32 enne non era conosciuto come estremista, ma gli amici ricordano il passato nel Partito del Progresso, fortemente conservatore. Le idee «anti-islamiche» e «fortemente nazionaliste» vengono fuori dai messaggi nei forum su internet, in cui Breivik si opponeva all´idea della convivenza fra diverse culture. Fra le ombre degli abeti, anche Gro Harlem Brundtlandt, storica premier laburista negli anni 1981-1996, era vista come «l´assassina del paese», perché aveva applicato le sue politiche libertarie e antirazziste.
La Repubblica, 24/07/2011, Giampaolo Cadalanu
Alcune citazioni dal pensiero dell'eroe ariano assassino Anders Behring Breivik: "I bambini norvegesi hanno difficoltà quando devono andare a scuola e stare tra i banchi con questi odiosi musulmani"..."E' inaccettabile che i laburisti finanzino i gruppi estremisti marxisti e islamici, che controllano anche i servizi segreti".
III - CROCI CELTICHE, ODINO E ROCK METAL IL PANTHEON NERO CHE AVVELENA IL PAESE
Per raccontare la tenebra da cui è uscito Anders Behring Breivik e che altri come lui incuba, per definire il bolo di odio che avvelena la Norvegia e un pezzo di Europa, bisogna dimenticare la storia del Novecento e le sue categorie politiche.
E convincersi che persino parole come "Destra", "Fascismo", "Nazismo" possono risultare vuote, quantomeno inadatte. Bisogna immaginare una subcultura nazionalista contagiosa, cresciuta all´ombra di un Pantheon impazzito che tiene insieme la Bibbia e il rock Black Metal, il Compasso e le Crociate, il "paganesimo Odinista" con le sue reminiscenze di miti nibelungici. Tolkien con John Stuart Mill. Che ha in odio i religiosamente diversi - musulmani ed ebrei - i socialmente assistiti, i padroni della globalizzazione mercatista (le banche), la solidarietà marxista e laburista. Ugo Maria Tassinari, tra i più attenti studiosi dell´evoluzione delle destre in Italia e in Europa, spiega: «Lo sterminio di Oslo è l´espressione di un integralismo nero da terzo Millennio. Che esalta l´identità, nell´odio della modernità. E che ha rimesso al centro la Croce. Si badi bene, non il cattolicesimo. Ma un cristianesimo declinato in chiave ideologicamente violenta, intollerante».
Non è storia di ieri. Ma di almeno un decennio, ormai. Almeno in Norvegia. Dove a metà degli anni ‘90 si fa strada un uomo che organizza "conferenze antisioniste", parla con l´enfasi del messia e la violenza verbale dell´angelo vendicatore: Alfred Olsen. Il tipo, descritto come "mentalmente instabile" e che ha per altro legami di nascita con l´Italia, battezza il "Movimento di Resistenza Popolare. L´alternativa Cristiana". Ne definisce il manifesto. Dove, tra l´altro, si legge: «È necessario lottare contro il capitalismo di stato marxista, iI capitalismo liberale, la massoneria e altre idee anti-cristiane. Combattere l´infiltrazione di agenti stranieri nel nostro governo. Opporre la disseminazione di propaganda razzista-sionista in occidente, propaganda tesa a influenzare i cittadini contro la tradizione cristiana. Svelare e combattere la propaganda sovversiva nella scuola, nella stampa, nella radio, nella televisione, nel cinema e nella educazione in genere». Sono parole che trovano terreno fertile, soprattutto che suonano familiari, perché incrociano una subcultura giovanile nera che, in Norvegia, proprio in quegli anni, la metà dei ‘90, e di lì in avanti, si divide tra forme di neointegralismo cristiano e un neopaganesimo satanista che pesca a piene mani nel mito della fratellanza di sangue tra i popoli di origine germanica.
Di questa seconda "famiglia nera" è massimo interprete Varg Vikernes, cantante di "black metal". Nel 1991 ha fondato il progetto musicale "Burzum" (termine che significa "tenebra" e che Vikernes mutua dal "Signore degli anelli" di Tolkien) e ha assunto il nome d´arte di "Conte Grishnackh" (anche questo ispirato alla letteratura di Tolkien). Il "Neo-Volkish Heaten Front", formazione neonazi, lo adotta e ne succhia la popolarità. Anche da galeotto, perché Vikernes finisce in carcere per aver ucciso Oystein Aarseth, suo compagno di band. Dietro le sbarre, "il Conte" si fa filosofo e comincia a mettere mano a un manifesto che battezza "Vargsmal", "il discorso del lupo", dove il mito di Odino incrocia le fondamenta ideologiche del Nazismo, l´abbraccio ai temi dell´eugenetica diventa appassionato e il Paganesimo viene declinato in pochi e riconoscibili valori: «lealtà, coraggio, saggezza, disciplina, amore, onestà, intelligenza, bellezza, responsabilità, salute, forza». Vikernes finisce di scontare la pena nel maggio di due anni fa, ma appena sei anni prima, durante un breve permesso di uscita dal carcere, si fa sorprendere in fuga su un´auto rubata dove la polizia trova un fucile semiautomatico da guerra, una pistola, numerosi coltelli, maschere antigas, un sistema di rilevamento di posizione gps e tute mimetiche.
Tutto ciò che si muove fuori da questo perimetro "iniziatico" e "suprematista" bianco (da questo punto di vista c´è più di un´assonanza tra l´orrore di Oslo e la strage di Oklaoma City di Timothy Mc Veigh, 19 aprile 1995, 168 i morti), sia nella sua declinazione "cristiana", che in quella "pagana", non ha diritto di cittadinanza politica. Neppure se si tratta di partiti di destra come il "Fremskritt Partiet", il Partito del Progresso. Colpevoli di una "correttezza politica" che ne snatura l´afflato ideologico e mistico. «Evidentemente c´è uno specifico nord-europeo in quel che è accaduto e accade in Norvegia - spiega ancora Tassinari - ma non c´è dubbio che una parte almeno di questa eco nera che in generale definirei scandinava, ha in questi anni contagiato buona parte dell´Europa, dove assistiamo a dinamiche molto simili con il progressivo distacco e polverizzazione di culture di destra xenofobe che assumono quasi il tratto di sette, esercitando una forte attrazione su chi, i più giovani, vive lo smarrimento di un tempo difficile, socialmente ed economicamente». Qualche sigla. In Italia, con "Militia Christi" e "Forza Nuova". In Inghilterra, con l´English Defence League (EDL). In Olanda, con il movimento xenofobo "Partito della Libertà" guidato da Geert Wilders e la "Dutch defence league". In Francia, con la "Ligue Francaise de Defence". Per non dire dei Paesi dell´ex Blocco sovietico e della ex Yugoslavia, dove la pressione nazionalistica resta fortissima e diventa un significativo moltiplicatore di ricerca identitaria.
Quella cui il "Conte" Vikernes, dal carcere, invitava i suoi adepti. Con queste parole: «È giunto il momento di bandire il fantasma nazista che per 60 anni ha spaventato l´Europa, per cominciare a occuparci delle cose che ci sono care».
La Repubblica, 24/07/2011, Carlo Bonini
IV - "LA VERA EMERGENZA E' IL TERRORISMO NEO-NAZISTA"
L´esperto Marcus Buck: "I simpatizzanti di questi movimenti non sono tanti ma hanno un impatto devastante
«La carneficina ci ha fatto scoprire quel che sapevamo da sempre, e cioè che ogni atto di violenza in Norvegia
dalla Seconda guerra mondiale a oggi, reca la firma dell´estrema destra». Marcus Buck, studioso norvegese
di terrorismo, docente all´Università di Tromsø, è l´esperto forse più ascoltato in queste ore. «E i servizi di
sicurezza ne sono perfettamente consapevoli».
Allora cosa non ha funzionato, professore Buck, nella prevenzione dell´attentato?
«Il fatto è che i gruppuscoli neonazisti sono disorganizzati, fluidi: è difficile monitorarli. Questo, malgrado essi
siano radicati nella storia dei Paesi nordici, dove il fascismo e il nazismo contavano su un buon numero di
simpatizzanti».Quanto seguito hanno i neonazisti in Norvegia?
«Non più dell´1 per cento. Si tratta di una cinquantina di individui, ma dall´impatto devastante, come s'è
visto».Che cosa li muove?
«I fattori di malcontento sono due: il primo riguarda l´immigrazione, la società multiculturale, l´avversione
all´islamismo: è un sentimento comune al 20 per cento dei norvegesi. Il secondo fattore è di natura
economica».Cioè a dire?
«Che la Norvegia è un Paese estremamente ricco, privo di disoccupazione, con un enorme surplus investito
all´estero, anziché in patria. Fino al 50 per cento degli elettori è contrario alla politica del governo: pretende
che il fondo petrolifero, il più danaroso al mondo, venga reinvestito in casa per migliorare i servizi pubblici e
diminuire le tasse».Perciò lei è certo che l´obiettivo fosse il governo?
«Dall´attimo in cui s´è saputo della sparatoria all´isola di Utoya, era chiaro che si trattava di una questione
interna: quel luogo è carico di simboli solo per i norvegesi. I 100 morti hanno fatto naufragare l´adagio del
"tutti i terroristi sono musulmani". È riaffiorata la verità: che l´Europa ha un problema di terrorismo proprio.
Nei Paesi nordici quello viene dalla destra».
La Repubblica, 24/07/2011, Alix Van Buren
V - SCHEGGE NELLA GALASSIA NEONAZI
Si poteva prevedere l’imprevedibile? Si poteva comprendere l’incomprensibile? Si potevano anticipare le intenzioni stragiste di Anders Behring Breivik, che hanno squarciato il quartiere dell’Aker Brygge e seminato la morte tra i fiordi? In molti ora citano Stieg Larsson.
Lo scrittore di gialli svedese negli anni Novanta aveva messo in guardia dalla deriva violenta dei gruppi di estrema destra in Scandinavia. L’autore della trilogia Millennium aveva visto lontano nella sua rivista Expo e aveva pagato subendo attentati e minacce. Eppure anche lui si era illuso. Perché tutti ci facevamo abbagliare dall’innocenza norvegese, dall’apertura di una società che sembrava immune al virus dell’intolleranza. Fu Larsson a rivelare che la Svezia è la più grande produttrice di White Power Music e di altra spazzatura razzista, teatro di un movimento neonazi sempre più tracotante. Ma quanto alla Norvegia, anche un agitatore di coscienze come Larsson descriveva i suoi estremisti di destra come disorganizzati e caotici, gruppuscoli di gentaglia confusa e incoerente, che arrivava quasi sempre ubriaca ai raduni al confine. C’è quindi poco da stupirsi, se l’illusione si è perpetuata. Vero, sono passati tre lustri.
L’ultradestra norvegese, ci dicono adesso, ha costruito legami criminali più forti con altri sodali esteri, in Europa, in Russia, perfino negli Stati Uniti. Eppure, ancora nel marzo scorso, il rapporto annuale del Pst, il servizio di sicurezza della polizia norvegese, segnalava sì «un più alto livello di attivismo dei gruppi antislamici» e un «incremento dell’attività dei circoli di estrema destra» nel 2010. Ma la valutazione conclusiva dello studio era stata che gruppi o individui dell’ultra-destra «non avrebbero costituito un pericolo grave per la società» .
«Nessuno ha visto l’incubo arrivare» , ammette Kari Helene Partapouli, del Centro norvegese contro il razzismo. E spiega che c’erano molte ragioni ad alimentare l’illusione dell’immunità. La galassia xenofoba, nazionalista e antislamica non ha trovato infatti in Norvegia forti espressioni politiche organizzate e soprattutto leader carismatici. Qui il massimo dell’opzione populista è il Partito del progresso di Siv Jensen, che chiede di rendere più severa la legge sull’immigrazione. Breivik ne ha fatto parte dal 2004 al 2006. Poi se n’è chiamato fuori, evidentemente insoddisfatto della sua moderazione. Ma nulla a che vedere con la marea montante dei nuovi populisti europei, come i cosiddetti democratici svedesi di Jimmie Akesson. Men che meno con il Partito del popolo danese di Pia Kjærsgaard o il Puv olandese dell’ossigenato e abilissimo Geert Wilders, furiosamente antislamici e tutti ormai divenuti «salonfaehig» , cioè degni di stare nel salotto della politica nazionale.
Anche spingendosi ancora più a destra e varcando la soglia indecente del neonazismo antisemita o antirom, la Norvegia non offre nulla di simile allo Jobbik ungherese di Gabor Voda. «Da noi — dice Partapouli— non ci sono stati i grandi dibattiti sul fallimento del multiculturalismo che si sono svolti in Danimarca o in Olanda» .
Certo, ora Jonas Gahr Støre, il ministro degli Esteri norvegese, dice che l’estremismo di destra è un «fenomeno che va preso molto seriamente» . E questo fa intuire la militarizzazione di una città, dove finora di regola i politici hanno camminato senza scorte e i reali andavano a passeggio in bicicletta. Il mistero resta chiuso in lui, in Anders Behring Breivik. Il suo solo collegamento internazionale finora reso noto è quello con un blog neonazista svedese di cui è membro: fondato nel 2007, Nordisk conta 22 mila membri e pone in risalto «l’identità, la cultura e le tradizioni storiche nordiche».
Ne fanno parte sia membri del Parlamento svedese, che esponenti neonazisti o xenofobi. Molti sono i commenti sul sito che istigano alla violenza. Sulla rete, Breivik definiva «marxista» chiunque non fosse d’accordo con lui. Nel suo mirino erano soprattutto i socialdemocratici: «Penso che li veda come un partito che favorisce il multiculturalismo e in quanto tale minaccia la Norvegia» , spiega la signora Partepouli. Ma anche nell’apparente chiarezza del disegno, dalle invettive xenofobe a piazzare una bomba assassina o a imbracciare una mitraglietta per falciare decine di adolescenti ridendo, c’è il salto nel buio della follia, ci sono le tenebre di una mente disturbata. E c’è poi il dubbio, che ancora agita autorità, inquirenti e opinioni pubblica: ha veramente agito da solo? Anche dalla risposta a questa domanda, dipendono le ripercussioni che la strage avrà sul Paese e sul resto d’Europa. In gruppo non ci sarebbe più follia.
Di sicuro, in questo freddo sabato d’estate c’è la fine di un’illusione: di estremismo si muore. Anche nel Paese che dà il Nobel per la Pace.
Corriere della Sera, 24/07/2011, Paolo Valentino
VI - I VOLENTEROSI VICHINGHI DEL FUHRER
Prima sono stati i libri di Stieg Larsson a raccontare una Svezia in cui fioriscono movimenti nazisti e razzisti. Ora da Oslo arriva la prova che un’altra grande nazione scandinava, anch’essa con un’immagine pacifica e progressista, può ospitare correnti «nere» capaci di esplodere con violenza. Ma forse sbagliamo a stupirci. Andando a curiosare nella storia europea, si scopre con facilità che in tutta l’area che si affaccia sul Baltico e sul Mare del Nord le ideologie totalitarie di estrema destra, basate sul concetto di «supremazia bianca» , hanno potuto contare su un robusto numero di seguaci. Tanto che la guardia pretoriana di Adolf Hitler, le SS, ne arruolò diversi tra i propri ranghi fino a costituire «Legioni» di volontari che combatterono come demoni sul fronte orientale nella Seconda guerra mondiale (1939-1945). Non solo. A difendere la cancelleria di Berlino nell’ultima disperata resistenza contro l’Armata rossa, nell’aprile 1945, furono soprattutto loro: i norvegesi, gli svedesi e i danesi delle divisioni Nordland e Wiking, i fiamminghi della Langemarck e gli olandesi della Nederland, oltre ai francesi della divisione Charlemagne. Era gente che non aveva niente da perdere e lo sapeva: cadere nelle mani dei russi voleva dire morte immediata (nella migliore delle ipotesi). Ma non era solo per quello che combattevano: in realtà lo facevano (e si erano offerti volontari) soprattutto per dare il loro contributo alla crociata contro bolscevismo e sionismo (per loro praticamente sinonimi) e contro quelle che chiamavano le «orde slave» da cui, temevano, tutta l’Europa sarebbe stata sommersa. Come se l’ideologia nazista altro non fosse che l’abito moderno di una paura atavica, che forse risale ai mongoli dell’Orda d’oro. Anche alla fine della Prima guerra mondiale era successa la stessa cosa.
Dopo la resa tedesca, nel 1918, le frontiere orientali della Germania erano spalancate di fronte a un calderone ribollente di bolscevichi rossi, armate bianche controrivoluzionarie, polacchi. E si formarono i Freikorps, i corpi di volontari antibolscevichi germano-baltici che il generale britannico Ironside definì «gli uomini più marziali che io abbia mai incontrato».
Corriere della Sera, 24/07/2011
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