domenica 30 ottobre 2011

SIAMO ALLE SOLITE

Nonostante la chiara, indiscutibile vittoria del partito Ennahda nelle elezioni tunisine, riconosciuto da quasi tutti i partiti concorrenti e dagli osservatori stranieri, la stampa italiana senza eccezioni prende a pretesto le proteste di un partitello che si è presentato all'elettorato con il nome francese "Petition populaire", il cui leader è un miliardario cittadino britannico di origine tunisina, che ha fatto la sua campagna elettorale facendo promesse mirabolanti (come un ponte da Tunisi alla Sicilia) e acquisto di voti, per adombrare la tesi che in Tunisia le elezioni avrebbero riaperto una nuova stagione di violenze. I seguaci del miliardario hanno imperversato nella cittadina di Sidi Bouzid, dove hanno incendiato il tribunale e si sono abbandonati alla violenza gratuita saccheggiando negozi e uffici; non è da escludere che fra di loro vi fossero dei provocatori già seguaci del dittatore Ben Alì.
Probabilmente chi spera di ripetere in Tunisia il giochino che riuscì in Algeria dove alla vittoria schiacciante del fronte islamico di salvezza nazionale che nelle libere elezioni aveva riportato il 60% dei voti, l'esercito algerino rispose con un colpo di stato che aprì la strada a una sanguinosa guerra civile con centinaia di migliaia di morti. Gli articoli che seguono e, in particolare i loro sciagurati titoli, forniscono una fotografia dei livelli di falsificazione raggiunti dai cosiddetti laici occidentali e in particolare italiani.






Studi recenti hanno appurato che più della metà dei lettori dei giornali si limitano a leggere i titoli degli articoli che, il più delle volte, sono completamente sfalsati rispetto agli avvenimenti che nel testo pubblicato vengono diffusamente raccontati. Tutto ciò permette di ricorrere a una sofisticata tecnica di falsificazione delle notizie: e i 3 articoli del post, che riguardano gli incidenti avvenuti in Tunisia per lo più nella cittadina di Sidi Bouzid, sono un esempio lampante di come giornalisti che scrivono per partito preso o i loro direttori su cui spesso grava l'onere e l'onore di predisporre i titoli da pubblicare ne sono un calzante esempio.
"Coprifuoco e Tank. Il voto in Tunisia riaccende la violenza". "Tra le strade in fiamme di Sidi Bouzid. Diteci dove sono finiti i nostri voti". "Ingiustizie, ritardi e corruzione ecco perché il popolo si ribella". 
Dai citati titoli si potrebbe arguire che in Tunisia l'esito elettorale delle votazioni di domenica scorsa avrebbe riacceso una estesa violenza rivoluzionaria con intervento repressivo da parte dell'esercito, strade in fiamme, coprifuoco esteso all'intero paese; e ciò a causa di ingiustizie, ritardi e corruzione che giustamente provocano una nuova ribellione del popolo. In realtà quel che effettivamente si racconta è che sparuti gruppi di seguaci del miliardario anglo-tunisino, amico di Berlusconi, è severamente punito dagli elettori per le pacchianerie su cui si è basata la sua campagna elettorale per le sue mirabolanti quanto incredibili promesse; che tra questi seguaci si sono quasi sicuramente infiltrati i fedelissimi seguaci di Ben Alì che hanno fatto di tutto per enfatizzare la portata degli incidenti attaccando e incendiando un tribunale, colpevole con altri 3 uffici di giustizia di aver escluso le liste del miliardario per irregolarità varie e per il sospetto di aver comperato le firme dei sottoscrittori. Il massimo della divaricazione tra titolo e contenuto dell'articolo viene raggiunto con l'intervista rilasciata dal leader del partito secondo classificato nella competizione elettorale Moncef Marzouki, attualmente leader del partito del "Congresso per la Repubblica" il quale, ad onta dei corrispondenti che seguitano a definire islamisti gli elettori del partito "Ennahda", ha testualmente affermato: "Agli occidentali vorrei precisare che il partito Ennahda è l'equivalente in un paese musulmano dei partiti europei che fanno riferimento al Cristianesimo come ad esempio la Democrazia Cristiana. Ennahda è un partito conservatore che si ispira ad un islamismo moderato, non è un partito di terroristi. Inoltre vorrei ricordare, quando sento parlare in occidente di diritti umani, il sostegno dei vostri governi ai dittatori della peggiore specie. Tante critiche e paure nei confronti di partiti che si ispirano all'Islam sanno di ipocrisia. Forse in occidente ci vorrebbe un pò di pudore. In Tunisia non ci sono i talebani: questi esistono solo nella vostra immaginazione e sono figli della vostra malafede". 
Vorrei ricordare, per chi l'avesse dimenticato o trascurato che grazie alla mobilitazione di Ennahda la Tunisia è stata in grado senza tante tragedie e senza tanti lamenti di assistere, mentre era ancora sconvolta da un processo rivoluzionario non ancora concluso, un milione di profughi provenienti dalla Libia, gli ha ospitati nelle tende e gli ha dissetati e nutriti per mesi, senza chiedere aiuto a nessuno. I tunisini, a differenza di pochi prezzolati del dittatore cacciato via con infamia, sanno a grande maggioranza che "Dio è il più Grande!".

venerdì 28 ottobre 2011

Libia - 28 Ottobre 2011

"Libia, una nuova missione guidata dal Qatar"

TRIPOLI - La Libia chiede ancora aiuto alla Nato, per rendere più sicuri i suoi confini e assicurare alla giustizia internazionale i fedeli di Gheddafi in fuga. La richiesta di prolungare la missione degli alleati fino alla fine dell´anno - richiesta che l´Italia sarebbe pronta a soddisfare - è del presidente del Consiglio nazionale transitorio, Mustaf Abdel Jalil, proprio nel giorno in cui torna alla ribalta Saif Al Islam, il figlio del colonnello sfuggito all´assedio di Sirte. Saif, dice l´alto ufficiale del Cnt Abdel Majid Mlegta, sarebbe al confine con il Niger e avrebbe avviato trattative per consegnarsi alla Corte penale dell´Aja insieme all´ex capo dei servizi segreti di Gheddafi, Abdullah Al Senussi. La Corte penale internazionale, che a giugno aveva spiccato un mandato di cattura per entrambi, accusandoli insieme al Colonnello di crimini contro l´umanità, non conferma la notizia: «Stiamo tentando di contattare il Cnt per ottenere maggiori informazioni», fa sapere l´Aja.
Ieri mattina si è anche diffusa la notizia di un messaggio, affidato da Saif ad alcuni siti Internet di lealisti, con il quale promette di continuare la lotta. Isham Buhagiar, capo della sezione di intelligence del Cnt, deputata alla ricerca dei lealisti in fuga, sottolinea però: «Sono accertati i casi di depistaggio, sia da parte di prigionieri, sia di espatriati. Abbiamo invece avuto conferma che Abdullah Al Senussi aspettava i Gheddafi al confine con il Niger il giorno in cui il Colonnello è stato catturato». Sulla possibilità che Saif si arrenda, l´ufficiale sostiene: «La gente non ha motivi per appoggiarlo, Saif non ha nulla da proporre al Paese, nessuno lo seguirebbe».
Man mano che le forze di liberazione acquistano autorità in Libia, Saif potrebbe avere più problemi a comprare la protezione di Paesi come il Niger, dove la presenza del fratello Saadi già mette in difficoltà le autorità di Niamey. La necessità di far sentire la pressione internazionale su Stati come il Niger, e di difendere meglio i confini, potrebbe essere tra i motivi per cui il presidente ad interim del Cnt, Jalil, ha chiesto il prolungamento della missione Nato con l´obiettivo di «sostenere noi e gli Stati vicini». Ma si lavora a una nuova coalizione multinazionale guidata dal Qatar, che ieri ha ammesso che centinaia di soldati hanno combattuto con gli insorti contro i gheddafiani. Il «Comitato degli Amici a sostegno della Libia» comprenderà 13 Paesi - tra cui Francia, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti - e si occuperà «dell´addestramento militare, della raccolta delle armi e dell´integrazione degli ex insorti» nelle nuove forze armate libiche. Secondo una fonte diplomatica italiana, citata 
dall´Ansa, «l´Italia sta esplorando e valutando le modalità della partecipazione».

Cristina Nadotti

Libia, la promessa del Cnt "Processo ai killer di Gheddafi"

TRIPOLI - Nel gioco del dare e avere tra la Libia e gli alleati occidentali, ieri il Consiglio nazionale transitorio si è impegnato a processare i responsabili dell´uccisione di Muammar Gheddafi e ha diffuso un "codice etico sui prigionieri di guerra". In cambio, la nuova Libia ha ottenuto, grazie alla risoluzione Onu votata ieri, una attenuazione dell´embargo internazionale sulle armi, la fine del congelamento dei beni della compagnia petrolifera libica di stato, la Zuetina Oil Company, e delle restrizioni che bloccavano le operazioni delle principali banche libiche.
Il punto di partenza della riunione del Consiglio di sicurezza dell´Onu è stato l´approvazione della fine del mandato per l´intervento militare, che ha come conseguenza l´abolizione della no fly zone sui cieli libici dal 31 ottobre e la cessazione di ogni intervento aereo della coalizione. Ciò non esclude tuttavia che l´impegno della Nato, alla quale mercoledì il presidente ad interim del Cnt, Jalil, ha chiesto di restare almeno fino a fine anno, non possa essere ridiscusso con obiettivi diversi da quello iniziali di «protezione dei civili». Ieri sono stati soprattutto gli Stati Uniti a mostrarsi possibilisti su un aiuto alla Libia per l´organizzazione delle forze armate e di polizia essenziali alla normalizzazione del Paese. La Nato, e gli Stati Uniti su tutti, sono infatti preoccupati che l´arsenale militare di Gheddafi, di cui si è persa in gran parte traccia, possa finire nelle mani di Al Qaeda nel Maghreb. La Libia cerca di rassicurare gli alleati, ma ha dovuto al tempo stesso ammettere che non è in grado di pattugliare i suoi ampi confini e ci sono già state numerose segnalazioni di movimenti di truppe lealiste soprattutto verso il Niger, il Chad e il Mali. La zona è instabile anche a causa delle rivendicazioni indipendentiste dei Tuareg e c´è chi ha ipotizzato uno scambio tra questi ultimi e i gheddafisti: i fedeli del colonnello (forse lo stesso figlio Saif al Islam) avrebbero promesso l´indipendenza ai Tuareg in cambio di aiuto militare e protezione. 
In questo momento la nuova Libia fatica già a tenere sotto controllo le zone pacificate senza ricorrere, come ha già fatto, a violazioni dei diritti umani, non può impegnarsi in un conflitto al confine. Si spiegano con la paura, il desiderio di fornire punizioni esemplari, ma anche con la difficoltà a tenere unite le diverse anime della ribellione (le divisioni tra combattenti di Misurata, Bengasi e Tripoli sono sempre più marcate) le ormai conclamate esecuzioni sommarie dei prigionieri avvenute soprattutto a Sirte e Bani Walid. Quando ieri il vice presidente del Cnt, Abdel Hafiz Ghoga, ha annunciato che i responsabili dell´uccisione di Muammar Gheddafi saranno «giudicati» e avranno un «processo equo» e ha ammesso che ci sono state violazioni, ha tenuto a sottolineare: «Non aspettiamo che nessuno ci venga a dire cosa fare». In questa frase c´è l´impasse della Libia, che non può sminuire i suoi combattenti, ma non può ancora farcela da sola.

Cristina Nadotti


giovedì 27 ottobre 2011

I FONDAMENTALISTI DELLA DEMOCRAZIA

COMMENTO AI GIUDIZI SULLE ELEZIONI TUNISINE



Gli islamici tunisini: «A noi la guida del governo»

TUNISI — Gli islamici hanno stravinto e ora vogliono, com'è naturale, guidare il governo. Per tutta la giornata di ieri i tre computer (proprio così, solo tre) a disposizione dell'Isie (l'Istanza superiore di garanzia per le elezioni) hanno sgocciolato, uno a uno, i dati sulla ripartizione dei 217 posti dell'Assemblea costituente. Un conto lunghissimo, tormentato da possibili brogli. I risultati finali, è l'annuncio ufficiale, dovrebbero essere comunicati soltanto domani. Ma pur nella coda (prevedibile) di ricorsi e micro presidi di protesta, nessuno può contestare la sostanza del voto. Ennahda ha già conquistato 82 seggi. E' il partito cardine della nuova Tunisia, e il suo leader storico, Rachid Gannouchi ne dà piena dimostrazione fin dalla mattina, rivendicando la carica di primo ministro per il segretario Hamadi Djebali. Certo, Gannouchi apre all'ipotesi di un governo «di vasta coalizione», e propone come presidente della Repubblica «di garanzia», l'attuale premier pro tempore Beji Caid Essebsi. Ennahda, dunque, non si nasconde. Al contrario, dichiara lo stesso Djebali alla tv satellitare Al-Arabiya, «il partito è pronto a guidare il Paese».
Ora, il problema non è tanto con chi. Il secondo partito classificato, il Cpr (Congresso per la Repubblica) è lontanissimo: 27 voti, ma, soprattutto, non ha alcuna intenzione di rimettere insieme i frammenti modernisti in un blocco da contrapporre agli islamici. Ieri mattina il leader Moncef Marzouki ha ripetuto all'infinito un concetto: «Abbiamo già avviato il confronto con Ennahda. È un partito moderato con cui si può governare». E, quando arriva il turno del Corriere, Marzouki si lancia su scivolose similitudini: «Ennahda è paragonabile alla Democrazia cristiana ai tempi di Aldo Moro. E non esiste un solo Islam, come non esisteva un solo comunismo. Non possiamo mettere sul medesimo piano gli estremisti radicali e gli islamici moderati. Sarebbe come considerare nello stesso modo Pol Pot e Berlinguer».
Comunque sia, riferimenti storici a parte, una cosa si è capita: i dirigenti degli altri 3-4 partiti ammessi alla Costituente sono già in coda davanti agli uffici di Gannouchi e di Djebali. Il numero uno di Ettakatol (altra formazione di centro sinistra, 17 seggi secondo gli ultimi parziali) Mustafa Ben Jafaar, si è addirittura candidato alla presidenza della Repubblica.
Nel futuro emiciclo non ci sarà molto altro di politicamente significativo. C'è la sorpresa della lista Petition Populaire guidata dall'imprenditore Hachmi El Hamdi, che ha condotto una spregiudicata campagna elettorale utilizzando la sua televisione satellitare (Tv libre) con base a Londra. El Hamdi, vecchio sodale del dittatore Ben Ali, rischia di perdere tutti o buona parte dei 18 seggi conquistati per aver infranto le regole elettorali. In realtà, la dinamica politica è già oltre la questione delle alleanze. Ennahda, dunque, dà le carte, d'accordo. Ma per fare cosa? Leggere «il programma dei 365 punti» presentato a settembre dagli islamici è un esercizio poco produttivo. «Democrazia parlamentare», «rilancio dell'economia», sono contenitori tanto condivisi, quanto generici. Il governo dovrà fronteggiare, innanzitutto, la crescente disoccupazione giovanile che sta corrodendo la tenuta sociale del Paese (leggi, in particolare, immigrazione clandestina verso Italia e Europa). Nello stesso tempo Ennahda, ogni giorno, sarà chiamata a superare il test di affidabilità democratica. Donne, velo, ma anche scuola, divorzio. L'opinione pubblica laica è delusa, ma ancora iper vigile. Basta una parola ambigua di Gannouchi (ieri ha detto: «Noi siamo arabi e la nostra lingua è quella araba») per rilanciare la complicata discussione sull'identità della nuova Tunisia.



Giuseppe Sarcina




Come ormai tutti i mezzi di informazione europei sono stati costretti a riconoscere, nelle elezioni tunisine, le prime svoltesi in piena libertà e nell'ordine più tranquillo nell'intera storia tunisina, il partito Ennahda, il cui leader Rashid Gannouchi si è goduto un decennio di anni di galera sotto la dittatura di Ben Alì (accreditato per decenni come un sincero democratico amico dell'occidente), ha stravinto con una percentuale vicina al 50% dei votanti: che sono stati il 92% del corpo elettorale. Le operazioni di voto e il successivo spoglio delle schede elettorali si è svolto in un clima gioioso, con lunghe file di persone che attendevano il loro turno nel massimo ordine e con una sincera gioia dipinta sui volti: giovani, anziani, donne col velo e senza, ragazze in blue jeans, imam con la tradizionale veste bianca, distinti signori in perfetto abito da professionisti, contadini, in sostanza un intero campionario della società tunisina. A conferma del clima di entusiasmo democratico delle elezioni tunisine c'è il dato riguardante il comportamento dei 130 mila tunisini residenti in Italia, che si sono recati a votare nei seggi allestiti preso i vari consolati e hanno attribuito al partito Ennahda il 62% dei voti: segno evidente che il fatto di vivere in una società occidentale non ha affatto attutito i sentimenti islamici dei tunisini all'estero ma, semmai gli hanno accentuati.
Naturalmente il risultato non è piaciuto ai puristi della democrazia nostrana, che hanno assistito con grave preoccupazione e moltissime riserve alla vittoria di un partito islamico, che qualcuno nel tentativo di battere il primate della spudoratezza ha definito un partito islamico conservatore ed estremista, oppure una versione fondamentalista dell'Islamismo; non è mancato chi ha previsto un futuro dominato dall'estremismo per la Tunisia come si può arguire dal fatto che il partito Ennahda ha già lanciato la sua pericolosa pretesa:
"A noi la guida del governo!". La definizione più grottesca dell'Ennahda è stata quella del giornalista che lo ha definito un "partito confessionale": circostanza, questa, quanto meno misteriosa se si considera che l'Islam della Tunisia, essendo nella sua totalità di ispirazione sunnita, non ha preti, organizzazione ecclesiastica e, quindi, "confessione". 

I tunisini sono più semplicemente musulmani così come gli inglesi, gli scandinavi, i tedeschi, gli americani e persino gli italiani sono in maggioranza cristiani. Che abbiano votato per un partito che riconosce l'Islam come sua religione è quindi una circostanza normale: così come è normale per gli americani far giurare al neo eletto presidente dell'unione sulla Bibbia, o considerare il re d'Inghilterra capo della chiesa anglicana, cui è dedicato l'inno "God Save the King". Considereremo fondamentalisti cristiani gli statunitensi che scrissero sul dollaro "In  God we Trust!"? E che dire di quei partiti di ispirazione cattolica i quali trovano perfettamente normale affermare che nell'esercizio della loro attività politica intendono far riferimento a quelli che la Chiesa cattolica considera "Valori non Negoziabili"?
La verità è che i partiti che stanno portando avanti la rivoluzione democratica nei paesi islamici, dal partito di Erdogan in Turchia al partito dei Fratelli Musulmani in Egitto, dal partito Ennahda in Tunisia fino alle moltitudini che cercano di rovesciare il regime dittatoriale di Assad in Siria sono tutti partiti islamici con una profonda, radicata e antica vocazione democratica e sociale. Volendo fare dei paralleli potremmo dire che si tratta di partiti che seguono una via di mezzo tra i partiti europei democristiani e le socialdemocrazie. E' essenziale, a questo punto, individuare la più profonda ragione del loro radicamento di massa che ha resistito a decenni di tirannie asservite all'occidente e sostanzialmente "laiche". Uno dei fondamenti dell'Islam è l'obbligo della Zakad (l'ovolo per i poveri): chiunque ne abbia la possibilità deve versare una somma di denaro periodica da destinare all'aiuto per le fasce più diseredate delle popolazioni. Negli anni in cui i dittatori filo occidentali si divoravano con voracità le ricchezze prodotte dalla loro nazione, azzerando di fatto ogni forma di previdenza sociale, di istruzione gratuita, di servizi per i meno abbienti, i partiti di ispirazione islamica hanno creato una fitta rete di ambulatori gratuiti, di ospedali, di scuole, di servizi per i quartieri più diseredati: in breve un Welfare State sostitutivo di quello che i governanti non mettevano in piedi. Questo, e non l'innato fanatismo nemico della democrazia ha dato forza a questi partiti e ha fatto si che essi siano stati l'asse portante delle rivoluzioni e della Primavera Araba. Per questo Ennahda ha raccolto quasi la metà dei consensi e per questo essa ha il diritto e il dovere di assumere la guida del governo tunisino. La vittoria di Ennahda così come i trionfi di Erdogan hanno questo significato: e sono un messaggio che vale anche per l'Europa e l'Occidente in crisi.

martedì 25 ottobre 2011

25 Ottobre 2011


L´ultima lettera di Gheddafi: "Silvio aiutami"

TRIPOLI - Muhammar Gheddafi chiese «all´amico Berlusconi» di intercedere perché la Nato cessasse l´intervento in Libia. Secondo una lettera ottenuta dal giornale francese Paris Match, il 5 agosto scorso il dittatore libico cercò di mandare un appello scritto al nostro presidente del Consiglio tramite Alessandro Londero, il capo dell´agenzia che organizzò l´incontro con le giovani ragazze e il Colonnello durante l´ultima visita del raìs a Roma, nell´estate del 2010. Londero e tre «gheddafine» lo scorso agosto erano a Tripoli per manifestare il loro sostegno a Gheddafi e «testimoniare» l´errore dell´intervento Nato. Si disse che la delegazione italiana non incontrò Gheddafi, ma in qualche modo Londero fu incaricato di portare la lettera a Berlusconi. Nel messaggio, Gheddafi indicava Londero come «amico comune» e, rivolgendosi al capo del governo con un «caro amico», si diceva sorpreso per l´adesione dell´Italia alla missione Nato. «Non ti biasimo per ciò di cui non sei responsabile - scriveva il raìs - perché so bene che non eri favorevole a quest´azione nefasta». Poi la perorazione: «Credo che tu abbia ancora la possibilità di fare marcia indietro», quindi il colonnello invitava Berlusconi a intercedere presso «i suoi alleati occidentali» per fermare i bombardamenti che «uccidono i nostri fratelli libici e i nostri bambini».
La lettera del dittatore è destinata a rinfocolare le polemiche italiane sul ritardo con cui il governo denunciò la feroce repressione di Gheddafi, mentre è evidente nelle dichiarazioni ufficiali e nelle reazioni della gente che la «nuova Libia», nata ufficialmente ieri con la proclamazione della liberazione, ha interesse a mantenere saldi i rapporti con tutti i partner europei. Lo dimostra la rapidità con cui il presidente del Consiglio nazionale transitorio, Abdel Jalil, ha ieri rassicurato i partner occidentali dopo il riferimento fatto domenica al ritorno alla sharia, la legge islamica. Jalil ha detto che la «Libia del dopo Gheddafi sarà un Paese musulmano moderato».
La prospettiva di uno Stato che nasce sotto l´egida della sharia ha allarmato l´Europa, complice il giubilo manifestato da siti web vicini ad Al Qaeda. Su molti forum jihadisti sono stati pubblicati infatti messaggi di elogio e ringraziamento a Jalil e auspicata l´adesione del popolo libico alla causa della Jihad. Non aiutano a creare un clima di fiducia le reticenze del Cnt sulla cattura e l´uccisione di Gheddafi, né le denunce delle organizzazioni per i diritti umani sulle esecuzioni sommarie di lealisti. «Ci aspettiamo che la nuova Libia si fondi sul rispetto dei diritti dell´uomo e dei principi democratici», ha detto infatti il capo della diplomazia europea Catherine Ashton, alla quale il presidente del Cnt ieri ha risposto con una nota, che, oltre a rassicurare gli alleati sul pericolo fondamentalista, annuncia la creazione di una commissione d´inchiesta sulla morte di Gheddafi.
E di fronte all´indignazione internazionale per l´esposizione dei cadaveri del colonnello e del figlio Mutassim a Misurata, dalle 15.30 di ieri il Cnt ha chiuso al pubblico le porte del mercato dove la gente ancora faceva la fila per vedere i corpi ormai in evidente stato di decomposizione. Le salme di Gheddafi e di suo figlio non saranno restituite alla loro tribù di appartenenza ma verranno sepolte oggi in un luogo segreto nel deserto.



Cristina Nadotti 



La Tunisia sceglie l´Islam moderato

TRIPOLI - La primavera araba avviata dalla Tunisia avrà i colori dell´Islam: il partito musulmano moderato Ennahda si avvia a vincere le prime elezioni libere dopo la caduta di Zine el Abidine Ben Alì, conquistando secondo le stime un buon 40 per cento dei voti. Era un successo previsto, che i filo-islamici hanno ottenuto con un profilo di moderazione assoluta, in un paese di tradizione laica. Secondo gli exit poll autogestiti dalla radio locale, con il voto di domenica il partito guidato da Rachid Gannouchi dovrebbe contare su una sessantina di seggi, sufficienti per poter decidere su alleanze adeguate fra i 217 eletti della nuova assemblea costituente, che dovrà anche eleggere un presidente e un governo ad interim, fino a un nuovo voto previsto per fine 2012-inizio 2013. Una alleanza che sin d´ora sembra possibile, come confermato dallo stesso partito, è quella con il Congresso per la Repubblica, la formazione di centro sinistra che dovrebbe aver registrato buoni consensi. Male sarebbe invece andata la Coalizione democratico modernista, di sinistra, e inferiori al previsto sarebbero i risultati del Partito progressista democratico, che aveva proclamato la indisponibilità a coalizioni con gli islamici.
I risultati definitivi dovrebbero essere disponibili oggi, ma sin d´ora sembra significativo il dato sull´affluenza: è andato alle urne oltre il 90 per cento degli iscritti a votare, cioè 4,1 milioni di elettori su poco meno di otto milioni aventi diritto. Una quota che testimonia il coinvolgimento avviato con la "rivoluzione dei gelsomini". Il voto è stato giudicato sostanzialmente corretto anche dagli osservatori internazionali: unico episodio negativo, gli insulti al seggio contro il leader di Ennahda, a cui però lo stesso Gannouchi ha preferito non dare peso.
A confermare il profilo "aperto" del partito, sono i dati dei seggi all´estero: secondo indiscrezioni l´affermazione di Ennahda fra i tunisini della diaspora - emigrati in massima parte verso paesi di tradizioni secolari - avrebbe superato il 50 per cento. La moderazione, che ha dato il tono alla campagna elettorale, e le posizioni di apertura su temi delicati, anche a costo di suscitare la rabbia dei fondamentalisti salafiti, hanno evitato il rischio di tensioni post elettorali pericolose. Nei mesi scorsi, l´ipotesi di una vittoria degli islamici aveva spinto l´ex ministro degli Interni Farhat Rajhi a lanciare l´allarme - poi in parte ritrattato - su un possibile colpo di Stato delle Forze armate, guidate dal generale Rachid Ammar, che non sarebbero state disposte a una svolta di tipo integralista. La scelta laica in un paese musulmano era stata voluta dallo stesso padre fondatore del paese, Habib Bourghiba, che aveva curato di sottolinearne i punti fondamentali nella Costituzione. Uno scenario quasi di tipo algerino, che avrebbe creato un focolaio di repressione inaccettabile per un paese che conta moltissimo sul turismo, a pochi chilometri dall´Europa.



Giampaolo Cadalanu
CONTROCANTO
Anch’io aspettavo con dolorosa impazienza che l’eliminazione dell’irriducibile Gheddafi ponesse fine all’unica cosa sicura in questa strana, equivocabile, fumosa fiammata che ha lacerato l’unità libica: morte e distruzione. Ma nell’attimo in cui ho visto quel viso ingrassato e gonfiato della sua ultima fase “berlusconica”riportato dal dissanguamento e dalla tensione contro la morte a qualcosa dell’ asciuttezza giovanile, negli attimi a cavallo del linciaggio, anche mentre veniva trascinato nella polvere, il respiro di sollievo che stavo per emettere mi è morto dentro, insieme a qualsiasi altro impulso gioioso.
Ho ricordato quell’amico calabrese che, nel ’69, quasi si trattasse d’un fatto italiano, provava ammirazione per la presa del potere da parte di chi era il più giovane capo di stato del mondo. Ho ricordato il mio entusiasmo per l’efficienza con la quale egli si muoveva alla testa dei paesi non allineati, posizione nella quale mi riconoscevo pienamente. Ho ricordato lo sgomento profondo provato nel 1986, quando Reagan tentò d’assassinarlo con il bombardamento della sua abitazione.
Ho ricordato le testimonianze di amici che lavoravano in Libia, che mi fecero leggere il frutto del suo geniale tentativo di fusione tra Islam e socialismo, che è il “libro verde”.Ho ricordato una singolare affinità d’un interesse tra me e lui che dagli anni ottanta in poi portammo avanti, senza conoscerci e senza il minimo contatto, con mezzi economici infinitamente differenti, ma, oso dire, con eguale impegno: la salvezza del popolo più martoriato dalla natura, e più trascurato sia dai governi africani dei paesi in cui vivono, sia dalle istituzioni internazionali, i Tuarèg. E’ dalla bocca di miei amici di questo popolo che ho saputo delle grandi opere volute da Gheddafi, pozzi profondissimi, impianti d’irrigazione giganteschi, contro la desertificazione. Del suo accogliere migliaia di loro, prima reietti, negletti, abietti nelle grandi città saheliane, in Libia, assegnandogli un pezzo di terreno ed un lavoro, anche se generalmente la condizione era di militare nella sua armata: questo spiega come la sua guardia del corpo, fedele fino agli ultimi tragici giorni, fosse composta da questi figli del deserto che gli dovevano assolutamente tutto. Da loro ho anche conosciuto alcuni tratti del socialismo islamico realizzato: calmiere dei prezzi, contro la brutale dittatura del mercato che affama milioni d’innocenti, divieto di possedere più d’una casa ( non è la “funzione sociale della proprietà” di cui hanno cianciato e solo cianciato tante anime belle democristiane ?) , viaggi nel deserto per visitare le tribù più remote portandosi appresso carichi consistenti di aiuti alimentari. Se Gheddafi fosse stato processato regolarmente ed ognuna della persone che gli devono la vita e il lavoro avesse potuto testimoniare a favore, sia pure per un minuto, il processo sarebbe durato fino alla sua morte naturale.
Inoltre mi irritano o indignano addirittura certi atteggiamenti dei vincitori. Prima di tutto, se sono dei pezzi di ragazzoni ben nutriti, atletici e vivaci, anziché le masse cenciose, sottoalimentate, abbandonate che fluiscono nelle strade di tante metropoli africane, questi ribelli lo devono al regime del rais. Poi quello spreco continuo, consumistico, di benzina per caracollare coi loro fuoristrada armati, e di proiettili non disinteressatamente offerti sparando in segno di gioia e di vittoria, spreco che rischia di divenire blasfemo se contestuale al grido di “Allah akbar!” Poi gli oltraggi al monumento al “libro verde”, in parallelo con la fioritura incontenibile di bandiere del povero vecchio regime senussita, un vero e proprio salto indietro nella storia, un rinnegamento del meglio della Libia decolonizzata, una demonizzazione non solo ingenerosa e faziosa, ma stupida.
A questo punto chiarisco bene che con queste parole non ho voluto dare un giudizio generale su Gheddafi, lasciandolo, manzonianamente, ai posteri. Ho voluto solo affiancare, al coro enormemente maggioritario di chi, giustamente, condanna tante cose di Gheddafi che anch’io condanno- ultima, in concorso col pagliaccio di Arcore, il compromesso della riduzione di quello che avrebbe dovuto essere il punto ineludibile e fondante d’un nuovo rapporto italo-libico, la condanna esplicita e puntuale da parte nostra dei crimini di guerra di Badoglio e Graziani in Tripolitania, Cirenaica e Gebel, al semplice appuntarsi sul petto, tra decorazioni di dubbio gusto, della foto di Omar Al Mukhtar, il Garibaldi del deserto- una voce rievocante altre sue azioni, lasciate sepolte oggi. Azioni, per me, degne di vera gloria.
PIER LUIGI STARACE  



Pier Luigi Starace è un mio vecchio compagno di liceo, onesto in misura commovente, entusiasta e sempre giovane. Egli ha la mia età e come me ha abbracciato l'Islam. Sua moglie è una donna Tuareg; perciò nell'articolo parla di cose che ha imparato dalla vita e non dai giornali più o meno prezzolati, per i quali Gheddafi era diventato una specie di duplicato di Bin Laden. Neppure io mi unisco al coro esultante che richiama l'esclamazione giuliva pronunciata da Hilary Clinton nel momento in cui gli è capitata tra le mani la foto del cadavere sfregiato del leader libico: "Uau!". L'unica osservazione che mi sento di fare è che l'assemblea generale dell'ONU aveva deliberato un mandato di cattura internazionale a carico di Gheddafi che, come Milosevic, doveva essere trascinato VIVO davanti al tribunale internazionale dell'Aia contro i crimini di guerra. Uccidendolo senza processo è stata commessa una violazione di un deliberato internazionale e, in buona sostanza, un omicidio. Come musulmano mi limito a ricordare che Gheddafi, con quanto di positivo è riuscito a fare e con i suoi innumerevoli delitti è in questo momento di fronte al giudizio di Allah, il Clemente e Misericordioso. 

domenica 23 ottobre 2011

TUNISIA - 23 Ottobre 2011


Tunisia, la prova del voto per la primavera araba

LA "Primavera araba" affronta in queste ore il suo primo esame d´ammissione alla democrazia, mentre la violenza, repressiva o insurrezionale, non si è ancora spenta.
È dunque in un clima di intensa emozione che i tunisini, ai quali spetta di inaugurare la nuova stagione politica, eleggono oggi l´Assemblea costituente. La "Primavera araba" affronta in queste ore il suo primo esame d´ammissione alla democrazia, mentre la violenza, repressiva o insurrezionale, non si è ancora spenta. È dunque in un clima di intensa emozione che i tunisini, ai quali spetta di inaugurare la nuova stagione politica, eleggono oggi l´Assemblea costituente. Essi vanno alle urne accompagnati da notizie che annunciano sangue. Nella limitrofa Libia la lotta di liberazione si è conclusa con la sbrigativa esecuzione del raìs, il cui cadavere campeggia ovunque, su video e giornali: e invece nella lontana Siria il raìs ancora al potere cerca di schiacciare la rivolta facendo migliaia di vittime. E c´è l´ombra del grande Egitto, che nell´attesa delle elezioni di novembre è come un cratere bollente.
La Tunisia figura da prima della classe poiché è stata teatro della rivolta (17 dicembre-14 gennaio) servita da esempio a quelle poi esplose in Egitto, nel Bahrein, in Libia, in Siria, dove si muore ancora. I due principali criteri per giudicare il voto dei suoi cittadini sono il modo in cui si svolgerà la consultazione e le dimensioni dello scontato successo degli islamisti. Ancora una volta la piccola Tunisia avrà dunque un ruolo d´avanguardia, poiché servirà da termometro per misurare le condizioni della primavera araba. Sopravvive? Continua a fiorire democraticamente? Sta per appassire o è già sfiorita sotto l´incombente minaccia dell´integralismo islamico, non più arginato dalla miserabile intransigenza dei rais, fino a pochi mesi fa repressori apprezzati dall´Occidente? Meglio comunque non dare ascolto ai censori, profeti di sventura che, dimenticando quanto sia costato al Novecento europeo, in decenni e in milioni di morti, la conquista della democrazia, salgono in cattedra ed esigono dal mondo arabo tempi ultrarapidi per raggiungere quel difficile traguardo. Non è del tutto infondato prevedere controrivoluzioni e restaurazioni. Più che possibili sono probabili. Vale tuttavia una vecchia sentenza del filosofo sulla rivoluzione francese. Sentenza secondo la quale il 1793 non cancellò il 1789. Il terrore non annullò il valore della libertà proclamata dalla Convenzione.
Il primo voto libero, annunciante un contrastato avvento della democrazia, è espresso in un paese per molti aspetti privilegiato, può essere quindi azzardato trarre una lezione valida anche per paesi con ben altri connotati sociali. La Tunisia ha classi medie con un alto grado di educazione. L´emancipazione della donna è avanzata, e senza situazioni equivalenti nel mondo arabo, grazie a quel despota illuminato che fu Habib Burghiba, fondatore della Repubblica alla fine del protettorato francese. Ma quella tunisina è al tempo stesso una società in cui i governanti hanno giustificato la repressione, i soprusi e tutti gli espedienti delle dittature, dagli imprigionamenti senza limite e senza processo, alla tortura e spesso gli assassinii, con la necessità di contenere l´islamismo. E per questo, Zine al Abidine Ben Ali, il rais fuggito nell´Arabia Saudita, cosi come tanti suoi colleghi in altre capitali arabe, sono stati prediletti e beneficiati dai governi occidentali. A spezzare quel cinico, non certo nobile opportunismo sono stati i giovani ribelli di avenue Burghiba a Tunisi (o di piazza Tahrir al Cairo), richiamandosi ai semplici, elementari ideali di libertà, e infischiandosene del fatto che gli islamisti, assenti dall´insurrezione, ne avrebbero approfittato. I dirigenti democratici occidentali sono allora diventati i paladini della "primavera araba". È inevitabile definire un´operazione di recupero, o un atto di contrizione, l´intervento occidentale in favore dei ribelli libici.
Gli islamisti sono stati colti di sorpresa dalla rivoluzione, animata da antichi principi e favorita dalle nuove tecniche di comunicazione, da Facebook a Twitter, ma si sono molto presto associati. Si sono subito infiltrati. E grazie al prestigio dovuto agli anni di prigione scontati dai loro militanti, ed anche alla loro organizzazione, di gran lunga superiore a quella delle altre forze politiche emergenti, essi hanno guadagnato ampi consensi nella popolazione digiuna di politica, in particolare in quella rurale. Il risultato è che il partito Nahda (Rinascita), del leader islamista Rashid Gannouchi, matematico di professione, è dato come il favorito. Non avendo precedenti cui riferirsi ed essendoci circa ottanta partiti in gara e il 44 per cento di indecisi, i pronostici sono oscillanti: alcuni attribuiscono a Nahda il 20 per cento delle intenzioni di voto, altri il 25-30. O poco di più. Gannouchi ha detto di sperare in una maggioranza assoluta. Ma sono in pochi a credere che sarà esaudito.
Rashid Gannouchi ha 70 anni e ne ha trascorsi un certo numero nelle prigioni tunisine, prima di andare in esilio a Londra. La lunga esperienza vissuta nella capitale britannica l´ha convertito alla democrazia. Egli sostiene infatti che il pluralismo politico e le libertà individuali, compresa quella religiosa, sia in armonia con l´Islam. Sostiene che i diritti delle donne saranno riconosciuti. Né sarà proibita la vendita di bevande alcoliche in un paese che vive in gran parte di un turismo alimentato dagli occidentali. Piuttosto malandato di salute, Gannouchi esita a lungo prima di rispondere, dando l´impressione di essere ancora incerto, dilaniato tra i tradizionali principi dell´Islam politico e una forma di autoritarismo laico. Pesa sulla situazione tunisina la vicina esperienza dell´Algeria, che nel 1992 conobbe una disastrosa vittoria elettorale degli islamisti, nella loro versione intransigente. Un successo subito represso dai militari, che non consentirono il decisivo previsto secondo turno. La conseguenza fu una guerra civile che durò anni e fece più di centomila morti.
Benché non manchino perplessità e diffidenze sui profondi convincimenti del capo di Nahda, il partito islamista si presenta con un programma moderato, che dovrebbe garantire una costituzione non dominata dalla Sharia, la legge coranica. Nahda si ispira spesso al partito turco (religioso laico) di Erdogan, la cui influenza è molto forte in tutto il Magreb, al punto da essere definita una «resurrezione ottomana».
Contro la moderazione degli islamisti di Nahda sono insorti i gruppi salafiti (difensori intrasingenti dei principi originari dell´Islam), i quali non esitano a promuovere azioni violente. Rientravano in questa strategia le manifestazioni contro la proiezione televisiva del film iraniano "Persepolis", in cui appare una figura umana di Dio, considerata una grave infrazione al principio iconoclasta che ne vieta la rappresentazione. Nahda ha condannato quella intolleranza. I salafiti sono minoritari, sono alcune migliaia, sono super integralisti e provocatori. Tra loro si sarebbero infiltrati i partigiani del vecchio regime, con l´intenzione di compromettere la svolta democratica. I salafiti rapresentano comunque l´incognita delle elezioni. Mettono a dura prova i partiti liberali. Con la fine della dittatura sono nate numerose formazioni politiche, le quali hanno presentato le loro liste di candidati. Ma quelle credibili sono rare. Tra queste il vecchio partito di centro - sinistra Ettakatol (Movimento per il lavoro e le libertà), rimasto a lungo emarginato; il liberale Partito del progresso; e il partito in cui Afek Tounes raccoglie i tecnocrati delle classi medie colte.



Bernardo Valli




Abbiamo pubblicato gran parte degli articoli dei maggiori quotidiani italiani sulla morte di Gheddafi e, per ultimo, l'articolo dedicato alle elezioni politiche che si terranno in Tunisia in data odierna, per mettere in evidenza le reazioni consapevoli o inconsapevoli che il processo avviato dalle primavere arabe ha fatto emergere negli "opinion makers" dell'Europa occidentale che sono stati espressi all'opinione pubblica.
I - Quasi tutti gli articoli e i commenti in essi contenuti lasciano emergere in forma più o meno velata un vistoso  razzismo anti-arabo "sottopelle". Molti si sono soffermati sulla ferocia con cui il dittatore libico è stato ucciso, sfigurato dagli energumeni che lo hanno catturato, ed esposto come una bestia in una cella frigorifera del supermercato di Misurata. Si è giudicato una sostanziale barbarie primitiva il fatto che una folla incontenibile è voluta sfilare di fronte al cadavere disteso, anche se non si è fatto alcun cenno alla compostezza delle persone che sfilavano, molte delle quali avevano come minimo un morto ammazzato tra i famigliari o a causa dei combattimenti o negli innumerevoli massacri consumati dal raìs o nelle celle di tortura che hanno imperversato per vari decenni. I più raffinati hanno tenuto a sottolineare che le democrazie arabe nascono nel sangue: e questo secondo i puristi democratici, non sarebbe di buon auspicio. Chissà se qualcuno di costoro ha avuto modo di vedere i cadaveri di Mussolini e della sua amante appesi a Piazzale Loreto, o i corpi dei coniugi Ceaucescu giustiziati da un improvvisato tribunale in base a una sommaria sentenza di morte. Ampliando il discorso: chissà se c'è qualcuno in grado di indicare una effettiva democrazia nata pacificamente senza una preventiva e sanguinosissima guerra civile. La tanto esaltata "democrazia ateniese", nata in una città che su 250 mila abitanti aveva almeno 150 mila schiavi e meteci, nacque dal tirannicidio compiuto da Ermodio e Aristogitone, rappresentati e onorati con un numero incalcolabile di statue celebrative. Un famoso canto dei Giacobini dell'800 recitava: "Noi siamo gli assertori del libero pensiero; adesso il cielo è nero ma poi si schiarirà. Siamo i tirannicidi armati di coltello e giù dal piedistallo gli facciamo ruzzolar...".
II - L'altro dato ricorrente negli articoli che abbiamo citato è la parossistica preoccupazione riguardante il "dopo": Magdi Cristiano Allam, l'ex musulmano battezzato in mondo visione dal Papa, ha superato i limiti dell'involontaria comicità: egli ha messo in prima fila il pericolo di una vittoria dei Fratelli Musulmani, i quali, guarda un pò, si proporrebbero di "islamizzare" i musulmani"; che sarebbe come dire che i partiti cattolici vogliono cristianizzare i cristiani. Un aggressivo cialtrone come Edward Lutvak, frequente commentatore delle trasmissioni televisive dedicate alla politica internazionale, ha definito il leader del più importante partito tunisino Rachid Ghannouchi "un prete fanatico" che porterà al potere l'islamismo più estremista". In realtà Ghannouchi, che durante la dittatura di Ben Alì si è fatto 7 anni di galera, ha proclamato per tutta la campagna elettorale che il suo punto di riferimento è la piattaforma politica del Primo ministro turco Erdogan, perfettamente coerente con la convinta adesione del suo popolo all'Islam ma anche con i principi di libertà e di tolleranza nati nell'età moderna. Del resto l'artefice principale dell'indipendenza tunisina dai francesi è stato un uomo come Habib Bourghiba, che, diventato primo presidente della Tunisia indipendente, fece aderire il suo partito all'internazionale socialista di cui venne eletto negli anni di Wily Brant e di Olaf Palme. 
E' appena il caso di ricordare agli esaltatori del cosiddetto laicismo come fattore e garanzia di una seria democrazia che nei paesi arabi erano e sono laici presidenti come il citato Ben Alì, l'egiziano Mubarak e il suo predecessore Sadath, Saddam Hussein e il presidente siriano in carica Assad, che non è uscito da qualche madrasa afghana, ma si è laureato in medicina in una università londinese. 

LA MORTE DI GHEDDAFI - III (23/10/2011)


Tra i ribelli della città fantasma "Abbiamo vendicato i martiri ora Sirte è la tomba del tiranno"

SIRTE - I campi di battaglia, anche quelli dove si chiude un´epoca storica, non hanno nulla di eroico. Lo spazio sabbioso a lato di una delle strade di uscita da Sirte, dove è finita l´epoca di Gheddafi, sarebbe quasi banale se non fosse per i cadaveri anneriti tra le carcasse di auto incendiate. Quando arriviamo ai resti del convoglio su cui Gheddafi, all´alba di giovedì scorso, ha cercato di fuggire dalla città che aveva creato per magnificare la sua potenza, gli uomini della Mezzaluna Rossa di Misurata stanno allineando le salme raccolte qui intorno. Sul terreno ci sono già 36 sacchi bianchi in file ordinate, un pick up arriva con un nuovo carico, mentre un ragazzo, senza neanche una mascherina per proteggersi dall´odore nauseabondo, si aggira tra gli scheletri delle auto e ispeziona i cadaveri bruciacchiati rimasti a terra, ai quali coperte a fiori hanno solo parzialmente offerto un po´ di pietà. «Non hanno neanche un nome - dice scuotendo la testa - sulla piastrina di riconoscimento c´è soltanto il numero». Erano i fedeli del colonnello, la sua guardia scelta, che lo ha protetto fino al tunnel di scolo dal quale è stato trascinato fuori vivo, come sono pronti a confermare tutti, qui intorno.
L´ultimo rifugio di Gheddafi è a meno di trenta metri di distanza dal punto in cui il convoglio è stato annientato ed è già un monumento. Lo hanno eretto tale le tante scritte - le frasi "Qui è stato trovato il ratto", "La vittoria dei ribelli di Misurata", "I martiri sono vendicati" che si sovrappongono l´una all´altra - ma soprattutto i gruppetti di ribelli che vengono a farsi fotografare chini di fronte al canale mentre fanno il segno di vittoria, o mentre raccolgono i bossoli che formano un tappeto sul terreno.
Fermo sulla strada, proprio sopra il canale, c´è un pick up con tre uomini in uniforme. Osservano la scena e i loro visi non nascondono il disappunto. «Si vede che questa gente non sa cosa è successo davvero a Sirte - dice uno di loro in buon inglese - altrimenti non riuscirebbero a sorridere». In città si diffonde la notizia dell´autopsia al raìs: i resti saranno restituiti alla famiglia. «Un atto di pietà», commentano i più ragionevoli.
Ali Elojla è arrivato nell´ultimo baluardo del gheddafismo un mese fa da Bengasi. «Sono un ingegnere diventato soldato mio malgrado - racconta senza mai togliere il dito dal grilletto del kalashnikov - a 31 anni ho dovuto imbracciare il fucile e andare a cercare mio fratello, ostaggio di Gheddafi». Gli si riempiono gli occhi di lacrime mentre racconta: «È un medico, era venuto a Sirte per aiutare, curava tutti, voleva soltanto salvare delle vite - dice quasi urlando - poi è scomparso, non so più nulla di lui. I medici sono sacri, ma per quel porco non c´era niente di sacro». Ha cercato il fratello casa per casa e continua a farlo: «La guerra non è finita, ci sono ancora dei cecchini, anche ieri abbiamo trovato degli uomini di Gheddafi nascosti in uno scantinato». La domanda «Che cosa ne avete fatto?» ha come risposta: «Noi libici abbiamo una mentalità aperta, vogliamo la pace, vogliamo costruire la democrazia. Sono pronto a restituire le armi, ma non è ancora il momento».
Troppo presto per lasciarsi alle spalle il peggio, sembra confermare l´atmosfera da città fantasma di Sirte. Passata Misurata, sulla strada dritta che corre in mezzo al deserto, non si incontrano auto che vanno verso l´ultima roccaforte del colonnello. In direzione contraria incrociamo convogli di mezzi blindati, pick up con le armi leggere, tir degli aiuti umanitari.
Su ogni portabagagli, insieme all´artiglieria, c´è un pezzo del fasto della città che Gheddafi voleva di rappresentanza. Si portano via le macchinine elettriche in uso sui campi da golf, i lettini di plastica da bordo piscina, intorno alla canna di un lanciarazzi è avvolto, e assicurato con grande cura, un tappeto nuovo e pulito, blu e azzurro. A circa 50 chilometri da Sirte, la strada si anima d´improvviso, ci sono ruspe e camion che rimuovono uno sbarramento, si è creata una fila di poche auto. In una c´è una famiglia, i due bambini non hanno più di cinque anni, dicono che abitavano a Sirte ma non torneranno in città, si fermeranno fuori dove hanno lasciato dei dromedari al pascolo. In effetti le bestie, insieme ai mezzi dei soldati in senso contrario, sono l´unico segno di vita in una landa desolata, finché si cominciano a vedere le colonne di fumo nero.
All´ingresso della città ci fermano e si convincono a lasciarci entrare soltanto quando gli diciamo che vogliamo andare «dove hanno stanato il topo». Dicono di non volere auto a intralciare i convogli in uscita, la trattativa si fa con un uomo emaciato e dall´aria stanca. Ha 41 anni, ma ne dimostra 60, e dopo l´offerta di un pacchetto di sigarette si lascia andare, senza che gli si facciano domande. La prima cosa che dice è «Ho perso tanti amici a Sirte, nella battaglia più dura a Wadi Jaref, vicino all´aeroporto, sono morte almeno 250 persone». Si chiama Ramadan Ali Muhammed Garghor e viene da Misurata, dove, racconta, ha cominciato a combattere «con sette coltelli in mano e due asce».
Vicino a lui un ragazzo giocherella con un paio di manette e alle loro spalle, 50 metri più in là, c´è un piccolo drappello intorno a quelli che sembrano prigionieri, non più di una trentina, tutti di pelle molto scura. «Ne abbiamo presi oltre 175 - conferma Garghor - quelli rimasti li porteremo a Misurata e li giudicheremo». Non ci lasciano avvicinare, non rispondono alla domanda se, dicendo «quelli rimasti», si riferisce a quelli ancora vivi o quelli ancora da portare via.
Un pick up bianco, in condizioni molto migliori di quelli visti finora, ci viene incontro. Sono volontari civili di Misurata, curano alcuni feriti che non è stato ancora possibile portare via e ci dicono che non si può arrivare all´ospedale. Non vogliono dare i nomi, coprono dei tesserini che hanno al collo e dicono soltanto: «Peccato non lo abbiano preso vivo, avremmo dato un´immagine migliore della nuova Libia». Nell´uscire dalla città di macerie, la scritta in inglese su uno dei tanti cartelli celebratori che Gheddafi aveva sparso per tutto il Paese sembra amara ironia: «Lunga vita all´Africa forte e unita», come se si potesse parlare di vita, a Sirte.



Cristina Nadotti



Le fazioni ribelli litigano sul corpo di Gheddafi

MISURATA — E' all'insegna di lacerazioni profonde e gigantesche difficoltà che la rivoluzione libica inaugura la sua prossima fase: dalla guerra contro la dittatura alla ricostruzione democratica. Gli scogli maggiori si condensano in due parole: legittimazione del potere e monopolio della forza. «La ricostruzione del Paese è una missione impossibile alla Tom Cruise», ha dichiarato ieri al World Economic Forum, sulla costa giordana del Mar Morto, il premier ad interim Mahmoud Jibril citando il problema delle armi fuori controllo e la necessità del dialogo interno. Ma basta osservare gli sviluppi sul terreno per cogliere i sintomi delle tempeste a venire.
Indicativa la vicenda del corpo di Gheddafi. Le brigate di Misurata si comportano come se fosse loro proprietà privata (anche ieri è continuato il corteo dei curiosi con la mascherina e la macchina fotografica all'interno della cella frigorifera dove sono esibiti i cadaveri del Colonnello e del figlio Mutassim). «Siamo la città martire per eccellenza. Tocca a noi decidere che fare. E oltretutto perché si è scelta Bengasi come sede della dichiarazione di liberazione ufficiale?», dichiarano i responsabili misuratini. Sino a ieri mattina promettevano che l'autopsia non ci sarebbe mai stata. Il motivo è semplice: appare molto probabile che il dittatore sia stato linciato. Un breve video diffuso su YouTube sembra indicare che sia stato sodomizzato con un bastone prima di venire ucciso. Ma in serata è giunta la notizia che la parte tripolina del Consiglio Nazionale Transitorio avrebbe ceduto alle pressioni della comunità internazionale e ordinato l'autopsia (risultati resi noti nei prossimi giorni) e che il corpo sarà consegnato alla famiglia, mentre il settimanale Der Spiegel scrive che i servizi segreti tedeschi sapevano da mesi il luogo esatto del nascondiglio di Gheddafi.
Sulla carta i prossimi passi sarebbero già definiti. Oggi da Bengasi, città dove iniziarono le rivolte il 17 febbraio, si darà l'avvio al processo politico. Entro 60 giorni dovrebbe crearsi una commissione costituente destinata a preparare le leggi fondamentali dello Stato poi sottoposte a referendum. Nel frattempo dovrebbero dimettersi i responsabili del Consiglio Nazionale Transitorio creato a Bengasi, tra cui Jibril e il presidente Abdel Jalil, sostituiti da un governo provvisorio che porti alle elezioni: «Primo voto democratico entro il prossimo giugno», ha detto Jibril.
Questo in teoria. In pratica pesano i 42 anni di dittatura che hanno devastato i centri del potere e cancellato le prime espressioni di democrazia nate nell'ultimo periodo della monarchia. Si spiega anche così il frazionamento del Paese: Cirenaica contro Tripolitania, radici arabe contro identità africana, tradizioni tribali contro élite urbane, laici e religiosi, zona costiera e deserto. In mancanza di collanti nazionali sono in crescita i sentimenti localistici, che si esprimono nelle frizioni tra brigate rivoluzionarie di Misurata, Tripoli, Bengasi e quelle berbere sui monti di Nafusa. Non aiutano le notizie riguardanti Saif al Islam, il figlio più politico di Gheddafi, che sembra essere sfuggito ai combattimenti degli ultimi giorni. Ieri le tribù più fedeli ai Gheddafi nella zona di Sirte, oltre ai Warfallah e Magarbah della regione di Bani Walid, l'hanno nominato successore del Colonnello dichiarando che sarà suo compito continuare la «guerra di liberazione contro la Nato e i suoi alleati libici».



Lorenzo Cremonesi

sabato 22 ottobre 2011

LA MORTE DI GHEDDAFI - II (22/10/2011)


ISLAMISMO E PETROLIO

L´esecuzione di Gheddafi sarà forse l´inizio della fine della rivoluzione libica. Forse. Di certo è una tappa importante della controrivoluzione geopolitica pilotata dalle petromonarchie del Golfo e dagli islamisti. Ossia dagli esclusi della prima ondata insurrezionale che dal 17 dicembre 2010 ha scosso il Nordafrica, a partire dalla Tunisia e dall´Egitto. Sisma percepito con terrore dall´Arabia Saudita e dai suoi satelliti nel Golfo.
Regimi assolutisti che sposano il pubblico purismo islamico (di rado praticato in privato) al vincolo strategico con l´America, fondato sullo scambio fra energia araba e asset militari a stelle e strisce rivolti contro l´arcinemico comune: l´Iran.
Dopo il panico, la prima profilassi sotto specie di pioggia di dollari: quasi duecento miliardi elargiti pronta cassa dal re saudita ai suoi grati sudditi, varie decine dagli emiri del Golfo. Ma due eventi chiave marcano quasi contemporaneamente l´avvio della controrivoluzione: l´invasione saudita del Bahrein e la guerra per rovesciare Gheddafi, erratico nemico di Riyad e di quasi tutti i regimi arabi, oltre che degli islamisti.
Il 12 febbraio le truppe saudite entrano a bandiere spiegate nel Bahrein in rivolta, nel timore che cada in mani iraniane. Buon esempio di "aiuto fraterno" che in tempi e contesti diversi avrebbe suscitato almeno la riprovazione delle nostre democrazie. Nulla di ciò. Anzi, sospiri di sollievo a Washington come a Londra, a Pechino come a Berlino, a Tokyo come a Parigi. Insomma ovunque si teme che la primavera araba possa estendersi ai custodi del più strategico tesoro energetico - le monarchie arabe del Golfo - tralignando in inverno globale.
Proprio in quei giorni maturava in Cirenaica la rivolta contro Gheddafi. Dove l´insofferenza popolare per l´oppressione del duce libico affrettava il tentativo di colpo di Stato di alcuni ex fedelissimi del colonnello, supportati dall´intelligence e da forze speciali francesi e britanniche. Scarsa attenzione si dedicava alla contingenza che le prime armi fossero state distribuite ai ribelli da un commando islamista che aveva assaltato la caserma di Derna. Meno ancora al fatto che l´organo principe della disinformazione rivoluzionaria si confermava Al Jazeera, canale satellitare qatarino controllato dal più autocratico fra i petromonarchi, l´emiro al-Thani. Un dittatore che vuole esportare la democrazia, sia pure molto lontano da casa sua - meglio, per tenercela lontana: un paradigma da segnalare nei futuri manuali di politologia.
Quasi inosservata passerà poi la recente notizia delle dimissioni del direttore di Al Jazeera, smascherato da WikiLeaks come agente della Cia e prontamente sostituito da un cugino dell´emiro.
Inoltre, solo nella liberazione di Tripoli verrà pienamente in luce il ruolo decisivo delle brigate islamiste nella liquidazione del regime, ben più robuste delle raccogliticce milizie del Consiglio nazionale di transizione, referente dei franco-inglesi e della Nato nella guerra contro Gheddafi. Le brigate islamiste erano e restano guidate da un jihadista doc come Abdel Hakim Belhaj. A ispirarle è lo sceicco Ali al-Salabi, esponente dei Fratelli musulmani, il quale ha chiesto e probabilmente otterrà le dimissioni del "primo ministro" del Cnt, Mahmud Jibril, e degli altri "secolaristi". Di qui le persistenti rivalità fra i rivoluzionari libici, che si contendono armi in pugno quote di potere e di territorio.
In attesa di stabilire chi sortirà vincitore dalla partita fra gli eversori del gheddafismo - temiamo ci vorrà del tempo e del sangue - questi e molti altri elementi inducono a stabilire che la rivoluzione libica segni insieme la fine di un´odiosa tirannia e un passaggio rilevante nella controrivoluzione guidata dalle petromonarchie del Golfo. Una reazione ambiguamente assecondata dagli Stati Uniti, da altre potenze occidentali e non solo, accomunate ai sauditi nell´interesse a scongiurare la destabilizzazione della Penisola arabica. Evento in sé catastrofico, che nella crisi economica attuale assumerebbe riflessi apocalittici.
La sincronia fra invasione saudita del Bahrein e rivolta in Libia non è dunque meramente temporale, ma geopolitica. Si consideri solo che da questo doppio evento sono scaturite, fra le altre, queste conseguenze: a) il rapido declino delle istanze laiche e progressiste nelle piazze arabe e nordafricane, in parallelo all´emergere di vari gruppi islamisti, dagli scaltri Fratelli Musulmani agli estremisti salafiti, spesso d´intesa con gli autocrati sunniti del Golfo, Qatar in testa; b) il parallelo riaffermarsi delle Forze armate come centro del potere egiziano, non scalfibile dalle formazioni politiche emergenti; c) la rinuncia, almeno finora, a qualsiasi intervento occidentale o arabo in Siria - dove al-Assad massacra a man salva gli oppositori - per timore che il prossimo regime si riveli più pericoloso dell´attuale; d) il riesplodere degli istinti antisraeliani e antisemiti al Cairo e altrove; e) la parossistica tensione fra Arabia Saudita e Iran, dopo il presunto tentativo iraniano di assassinare l´ambasciatore saudita a Washington. Il rischio di una guerra preventiva di Gerusalemme contro Teheran ne risulta accentuato.
È presto per trarre un bilancio delle manovre in corso lungo la nostra periferia meridionale. Non è tardi per provare a interpretarle a partire non dai nostri desideri o dalle nostre edificanti semplificazioni, ma dalle ragioni e dagli interessi dei protagonisti, per quanto esoterici o esecrandi possano apparirci. Anche per evitare di caderne vittime.



Lucio Caracciolo



I carnefici con il telefonino

La guerra non è che la caccia all´uomo. E anche il più abominevole tiranno esce da sé quando è ridotto a un animale braccato e denudato, e costringe chi guarda da lontano alla vergogna e alla pietà.
Le scene finali di Sirte sono immagini di caccia antica, la preda sbigottita e insanguinata, il branco sfrenato e invasato. Non l´hanno divorato, Muammar Gheddafi: è la sola differenza. Gli umani non cacciano per nutrirsi.
Quando finalmente Ettore si vergogna di fuggire e affronta Achille, deciso a uccidere o morire, lo invita al rispetto reciproco del vinto. Gheddafi non è certo Ettore, al contrario, un torturatore della propria gente, né la brigata di Misurata somiglia ad Achille (se non, forse, per quella olimpica protezione della Nato). Se ne fa beffa il furioso Achille, "ti divorerei brano a brano", dice, e lo finisce, e gli altri Achei accorrono e non ce n´è uno che non affondi il proprio colpo nel cadavere, e il vincitore gli fora i piedi e lo lega al carro e lo trascina di corsa facendone scempio.
Gli dei e gli eroi se ne sono andati da tempo, coprendosi il viso, ma la scena è ancora quella. Gli umani sono ancora feroci e fanatici come nell´Iliade, come nella Bibbia. Sono antichi quanto e più di allora, ma hanno i telefonini. A distanza di minuti, avreste visto sul vostro schermo Ettore atterrato, e i vigliacchi trafiggerne e insultarne il cadavere, e Achille bucarne i calcagni e attaccarlo al suo pick-up. L´uomo è rimasto antiquato, o è pronto a ridiventarlo: e meraviglioso e tremendo è il corto circuito fra la sua antichità e i droni che gli volano sulla testa e colpiscono con esattezza e buttano in un tubo da topi il cacciatore mutato in preda e glielo mandano in mano, mani di prestidigitatori di kalashnikov e telefonini. Ci sono le foto di Misurata, il cadavere disteso, a torso nudo, lavato, e circondato da maschi in posa ciascuno dei quali brandisce il telefonino: e qualche ispirato artista contemporaneo, come lo Jan Fabre che ha messo alla Vergine della prima Pietà di Michelangelo la faccia di un teschio, avrà già pensato di rifare una Deposizione in cui Maria e le pie donne e Giovanni e Nicodemo tengano in mano un telefonino.
Nel linciaggio della Sirte la combinazione fra l´antiquato animale umano e l´ipermodernità ha preso la forma degli aerei del cielo e degli indigeni sulla terra, arcangeli disabitati gli uni e creature imbelvite gli altri, la Nato e i fanti, ignari i primi del linciaggio, che devono fingere di non volere, responsabili e anzi fieri ed ebbri i secondi: e contenti tutti, perché il processo di un tiranno così longevo e intimo è sempre una minaccia micidiale per i piani alti. Nessuna cospirazione: non ce n´è bisogno. Solo una divisione del lavoro. Chi mette in fuga dall´alto, chi stana dal basso, come in una buona battuta di caccia. Alla muta non occorre suggerire niente, è fatta di uomini giovani ed eccitati, hanno avuto padri torturati, sorelle violate, compagni ammazzati, sentono l´odore della vendetta e della gloria.
L´odore della foto di gruppo è più forte dell´odore del sangue per il branco dei lupi. Non fanno il conto, in quel momento esaltante, esultante, dell´effetto che la scena farà più lontano, nel tempo o nello spazio. Il nemico giurato che ha ancora la forza di tirare su il braccio sinistro e pulirsi il sangue dal viso e guardarsi attonito la mano insanguinata e mostrarla anche a loro, sbigottito, come a dire "Guardate che cosa avete fatto" - pare che abbia detto cose simili, "Chi siete?", e "Perché lo fate?", istupidito dal corpo che cede e dalla vecchia abitudine a non capacitarsi.
Non esistono cadaveri vilipesi e martoriati che possano essere esposti a lungo a vantaggio dei giustizieri. C´è sempre un Cristo, un Hussein, nella memoria. Gli americani l´avevano capito, con Osama, e quel precedente modera oggi le loro deplorazioni. La differenza, più sottile di una carta velina, fra la barbarie e la civiltà sta nel processo; più esattamente fra il processo popolare, la gogna, i prigionieri neri legati alle canne delle mitragliatrici e trasportati in giro come trofei, e il processo regolare. Il quale, con tutte le ipocrisie che volete, ha intanto bandito la pena di morte, eppure si occupa dei crimini più feroci contro l´umanità, mentre certi Stati la tengono ancora per crimini di particolari. Per i ribelli terra terra, e per i grandi delle democrazie, il processo è ancora un lusso da donnette, o il peggiore degli imbarazzi.
Riguardate questi video, e chiudete gli occhi, perché l´audio è forse più terribile. Poi riguardate, e immaginate di leggere l´avvertenza: "Le immagini che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità", prima di un canto dell´Iliade o di un passo della Bibbia. Deve tremare un mondo che tenga accanto così spaventosamente una tragedia arcaica - il tiranno e i suoi figli e la sua tribù e le fosse - con la sofisticazione di armi e comunicazioni e con la voglia di liberazione. Gheddafi era lui stesso al colmo di questa aberrazione, e l´ha passata di mano ai suoi sacrificatori, come l´orpello della pistola dorata. Naturalmente, bisogna andare avanti, provare ogni volta a ricucire gli strappi, capire. Ieri a Damasco si gridava già: "Ora tocca a te, Bashar".



Adriano Sofri


CON I RIBELLI DAVANTI AL CORPO "PICCHIATO E GIUSTIZIATO COSÌ ABBIAMO PRESO IL RAÌS"
Misurata. Miliziani twar appena rientrati da Sirte si affacciano a turno, frenetici, gridando: Dio è grande. I quattro incaricati di sorvegliare il corpo spingono, tirano, concedono pochi secondi a ribelli e giornalisti e poi li mandano via: «Tutti devono vedere, Allahu Akbar, Allahu Akbar».
È l´ultimo scherno per Muammar Gheddafi, firmato dai nemici più accaniti, i guerrieri di Misurata: l´esibizione in quello che viene chiamato "mercato dei Tunisini", come un animale macellato, come una bestia selvaggia e pericolosa, braccata e uccisa in una battuta di caccia senza regole. E i racconti della cattura e dell´esecuzione - perché questa sembra la parola più adatta - si intrecciano, smentendosi e confondendosi e lasciando zone d´ombra che forse nessuno vorrà mai chiarire.
Non basterà il racconto del corpo, l´autopsia che parla di decesso provocato da ferite alla testa e allo stomaco. Mahmoud Jibril, primo ministro ad interim, ha insistito per parlare con i medici. Ma già giovedì aveva diffuso la sua verità: il colpo che ha ucciso il dittatore è stato sparato dai suoi stessi fedelissimi, in uno scontro dopo la cattura. Che fosse vivo, spaesato e persino incredulo quando è finito in mano ai twar, lo dimostrano diversi video, a partire da quello in cui grottescamente si rivolge ai ribelli gridando: «Che fate? Chi siete? Che volete?». O la sequenza che mostra schiaffi e pugni, con la Guida della Rivoluzione totalmente in balia della rabbia twar, coperto di sangue, che urla: «Peccato su di voi». C´è il primo video diffuso, che lo vede insanguinato ma in piedi, spinto sul cofano di un fuoristrada, mentre una voce grida: «Tenetelo vivo, tenetelo vivo». Poi un urlo di rabbia, l´inquadratura si perde, si sente una scarica. «Lo hanno catturato vivo, pestato e poi giustiziato», dice una anonima fonte del Consiglio nazionale di transizione all´agenzia Reuters.
Sul corpo esposto al "mercato dei Tunisini", nella chioma scarmigliata che attirava il disprezzo dei libici si indovina un segno rosso: «Uno dei nostri, un ragazzo di sedici anni, gli ha strappato un ciuffo di capelli. Voleva controllare se erano veri. Ma no, erano finti, e anche colorati, ci hanno lasciato la traccia del nero nelle mani», racconta Adel Belghassim Rhouma, mostrando le dita ancora sporche di un colore bluastro. Poi mostra un video in cui si sente la chiamata per l´ambulanza, e giura: «L´ho visto mentre il medico lo curava, era vivo, non ho dubbi». E aggiunge un particolare inquietante: «Non so quando sia stato ucciso. Forse quando sono venuti a prenderlo, con l´elicottero. Era piccolo, blu, non so se sia dei rivoluzionari, o di chi altri».
Le ferite al tronco sembrano poco profonde, non è facile capire se il segno sanguinolento sotto l´ombelico sia davvero il buco di un proiettile, come dice il medico a cui il Cnt ha affidato l´autopsia. Le gambe sono coperte, non c´è traccia delle lesioni di cui si era parlato in un primo momento. Accanto al comando dei twar, fra manichini vestiti con la camicia di seta del dittatore e trofei militari, il giovane Mohamed Behlil racconta: «Ero accanto alla squadra che l´ha preso, ho visto i corpi delle sue guardie e del ministro della Difesa Abdelkader Yunis, proprio all´uscita di quel tubo. Gheddafi era ferito alle spalle e alle braccia, non aveva nulla alle gambe, camminava».
Fuori dagli Ospedali riuniti di specializzazione, Ali Mohamed, camionista prestato all´officina che prepara chiodi a quattro punte e arnesi di distruzione per i rivoluzionari, racconta di suo cugino, che ha un proiettile nel collo dopo lo scontro con il gruppo di gheddafiani nascosti nel canale. «Ora è in sala operatoria, è messo molto male. Anche un altro del gruppo è stato ferito gravemente. Ma prima del ricovero è riuscito a raccontarmi com´è andata: gli uomini del raìs hanno sparato su di loro, erano una quindicina, rifugiati in quei tubi».
Sullo scontro ha qualcosa da dire anche Muftà Tahardi: «Siamo arrivati sul convoglio subito dopo gli aerei Nato. I topi scappavano, ma noi li abbiamo rincorsi». E quelli che si sono arresi, che sorte hanno avuto? «Nessuno si è arreso, continuavano a sparare e noi abbiamo risposto». Quanto ai gheddafiani trovati cadaveri con colpi alla nuca: «Sparavano e scappavano, qualcuno sarà stato colpito mentre fuggiva. Questa è una guerra».
La ricostruzione è contraddittoria e frammentata: non è chiaro chi, quando e dove abbia sparato a Gheddafi, non è chiaro nemmeno se ci fosse l´ordine di ucciderlo, che il Cnt nega risolutamente. E l´idea che esista davvero un misterioso elicottero, comparso proprio durante gli ultimi minuti di vita del raìs, apre la porta su mille scenari, fatti di complotti e servizi segreti, a metà strada fra i romanzi di Ken Follett e la paranoia. I nuovi potenti sembrano deciso a tagliar corto: i dettagli verranno dopo, a uccidere il dittatore è stato un proiettile vagante.
Dall´altra parte della città, nel quartiere Mar Bath, la gente di Misurata si mette in fila cantando «Allahu Akbar» per affacciarsi sulla porta di un container grigio e verde, in un deposito di materiali edili diventato magazzino dei rivoluzionari. Dentro il frigorifero c´è il corpo di Mutassim Gheddafi, esposto alla vista popolare, in attesa della sepoltura. Neanche sulla sua morte si sa qualcosa di definitivo. La tradizione islamica prevede che i morti siano interrati il prima possibile, ma per la famiglia del dittatore il vertice del Cnt ha deciso: si farà un´eccezione. E uno dei motivi si capisce guardando il corpo del figlio di Gheddafi: sulla gamba sinistra manca come un cubetto di carne, la pelle giallastra rivela il prelievo di tessuti fatto subito dopo la morte di Mutassim, necessario all´esame del Dna. È l´unica certezza che gli uomini del Cnt pretendono: vogliono essere sicuri che sia davvero finita.



Giampaolo Cadalanu



La Nato annuncia: «Missione conclusa alla fine di ottobre»

BRUXELLES — Da vivo, qualcuno lo condannava alla forca e qualcun altro gli baciava la mano. Ma anche da morto, Muammar Gheddafi riesce a dividere i suoi avversari. Ci sono volute 5 e più ore di riunione, ieri, per consentire ai Paesi della Nato una decisione su quando, e come, proclamare la conclusione della missione militare in Libia. Alla fine, è giunto l'annuncio del segretario generale dell'Alleanza Anders Fogh Rasmussen: tutte le operazioni cesseranno il 31 ottobre, «sarà una svolta netta e completa, nessun mezzo della Nato resterà nell'area», e fino a quel momento «si manterranno le capacità militari per proteggere la popolazione civile e assicurare il controllo» della regione. Rasmussen ha spiegato anche che nei prossimi giorni si concorderanno i tempi e le misure di quanto deciso (sono «passi preliminari», ha detto, dunque ancora da formalizzare) sia con l'Onu che con il governo libico; e ha aggiunto che spetterà a quest'ultimo stabilire se aprire o no un'inchiesta sulla morte di Gheddafi. «Sono molto fiero» di come è andata l'operazione Unified Protector, ha detto il segretario generale dell'Alleanza, smentendo le voci di forti disaccordi al suo interno.
E tuttavia i disaccordi ci sono stati davvero, e ci sono ancora: per esempio, anche sull'opportunità o meno per la Nato di contribuire alla ricostituzione e all'addestramento delle forze armate libiche.
Due, almeno fino a poche ore fa, i fronti contrapposti: da una parte Francia, Italia, e altri, per i quali si poteva senz'altro tornare a casa; dall'altra la Gran Bretagna, e altri, per i quali vi erano esigenze di sicurezza che avrebbero consigliato invece un ritiro in qualche settimana. Nicolas Sarkozy, il presidente francese, dichiarava ieri che «la missione sta chiaramente arrivando alla fine». Controcanto: per William Hague, ministro degli esteri britannico, la morte di Gheddafi «avvicina molto» la fine delle operazioni, e però «noi vorremmo essere sicuri che non ci siano ancora sacche di forze filo-gheddafiane ancora in grado di minacciare la popolazione civile». Eco concorde dal collega alla difesa, Philip Hammond: «Una volta che avremo accertato questo, e che la popolazione sarà pronta, l'Alleanza si organizzerà per ritirare la missione».
La principale delle esigenze di sicurezza accampate da Londra sarebbero i circa 22 mila «missili portatili» con annesso mini-sistema di puntamento, che Gheddafi ha accumulato per anni nei suoi deserti, e che domani potrebbero far gola a molti terroristi. Che la missione non potesse prolungarsi per molto, era comunque parere comune di tutti i suoi capi militari. Il comandante supremo per l'Europa dell'Alleanza, ammiraglio James Stavridis, ieri lo aveva scritto senza giri di parole sul suo blog personale, su Internet, poco prima che iniziasse la riunione del Consiglio nord-atlantico: «Sono state 24 ore straordinarie per la Libia. Come comandante in capo, fra poche ore io chiederò al Consiglio la conclusione di questa missione. Un buon giorno per la Nato…».
Ma lo stesso ammiraglio aveva potuto misurare subito quanto fosse spinoso il tema, da alcuni messaggi giunti al suo blog: «Hai le mani piene di sangue, sei un Hitler della nuova era» (firma: Radim Kadkecik), o «un gran giorno per l'Occidente, che succhierà tutte le risorse della Libia e la distruggerà» (firma: Marsel Kalemi).



Luigi Offeddu



Sul raìs ha vinto la dottrina Obama e già si aspetta il prossimo a cadere

NEW york - «Dopo quasi nove anni la guerra in Iraq è finita». A 24 ore dalla morte di Gheddafi, Barack Obama annuncia il «ritiro totale entro la fine dell´anno» dall´altra guerra, quella di George Bush. Mentre tutti s´interrogano su "chi sarà il prossimo" - e già iniziano le pressioni perché sia la Siria, o l´Iran, il nuovo bersaglio nell´effetto domino - è già tempo di bilanci per la "dottrina Obama sul Medio Oriente". Controversa, criticatissima, perfino sbeffeggiata, soprattutto dalla destra americana. Proprio sulla Libia i suoi avversari avevano fatto una caricatura di questa strategia della "guerra minima", dipingendo un presidente "che guida dalle retrovie" lasciando a Francia e Inghilterra un ruolo di punta nelle operazioni militari. È vero che sembrava esserci un tono rinunciatario, in quella presa d´atto che l´America non può più essere il gendarme del mondo, che gli interventi militari vanno commisurati a un´economia in declino, che le sue responsabilità all´estero devono esercitarsi in modo condiviso. Ora però il bilancio della dottrina Obama appare di tutto rispetto, e il ritiro dall´Iraq ne arricchisce l´ultimo dividendo. Non gliene darà atto la destra - siamo ormai in campagna elettorale, il fair-play è escluso - ma sui mass media indipendenti il verdetto è unanime e positivo. Anche se è già cominciato l´esercizio successivo: prevedere quale sarà il prossimo test, il teatro di crisi del mondo arabo che presenterà le sfide più urgenti.
La dottrina Obama di cui oggi si trae un bilancio non è solo quella della "guerra minima" applicata alla Libia, anche se questa si presta a confronti esemplari: quanto tempo ci volle a Bush per far fuori Saddam Hussein, con quale dispendio di risorse umane ed economiche, in confronto alla liquidazione del raìs di Tripoli? L´annuncio del ritiro dall´Iraq serve a sottolineare questa sproporzione: eliminare il carnefice di innocenti passeggeri americani sul volo Pan Am sopra Lockerbie è costato circa l´uno per mille rispetto al budget del conflitto iracheno. Ma la dottrina Obama è molto di più. Viene inaugurata dal discorso all´università del Cairo (4 giugno 2009) che segna l´apertura di un dialogo a tutto campo, anche sui valori, e una svolta rispetto ai toni da crociata di Bush. Non a caso per la destra il discorso del 2009 è un simbolo di "cedimento, arrendevolezza". A posteriori, invece, proprio in quelle parole alcuni hanno visto i germi degli eventi di Tunisi e del Cairo: perché le opinioni pubbliche del Nordafrica hanno intuito che l´America non avrebbe puntellato per sempre le dittature alleate.
Quello è il tassello successivo della dottrina Obama: la rapidità con cui la Casa Bianca abbandona al loro destino i despoti contestati dai popoli. Una scelta ben diversa rispetto all´ostinazione con cui un altro presidente democratico pur sensibile ai diritti umani, Jimmy Carter, aveva puntellato il regime dello Scià di Persia (poi pagando un prezzo altissimo per quell´errore). Ma anche questo aspetto della dottrina Obama è tutt´altro che pacifico: da Netanyahu ai falchi repubblicani, molti continuano a rimproverargli di avere mollato Mubarak consegnando l´Egitto a un destino incerto e forse anti-israeliano. Perciò ora il presidente viene strattonato in più direzioni. La sinistra considera che il prossimo obiettivo deve essere Damasco perché in Siria vede una tragedia umanitaria simile a quella libica. Per la destra repubblicana e il governo Netanyahu invece il nemico più serio da affrontare è l´Iran. Obama però sa che non verrà giudicato solo sugli eventi futuri in Siria, Iran, Yemen, ma anche sugli sviluppi in quei paesi dove ha raccolto successi molto provvisori. Per Tunisia ed Egitto il presidente aveva proposto un piano Marhsall, al G8 di Deauville: per incanalare la transizione democratica, offrendo concrete prospettive di sviluppo economico. Quel cantiere è rimasto fermo, i rischi di instabilità e l´avvento di forze islamiche ostili all´Occidente sono ancora degli esiti possibili in ognuno di quei paesi.



Federico Rampini



La barbarie e il silenzio d'Occidente

È probabile che se gli smartphone fossero stati inventati al tempo della Rivoluzione francese, del nazismo e del fascismo, del Cile di Pinochet o del conflitto in Bosnia, le esecuzioni cui assistiamo in diretta ci sembrerebbero quasi banali o quantomeno ripetitive di una logica di guerra e cambio di regime. Non è giusto ed è orribile, ma è forse inevitabile che i sudditi facciano cadere le teste e che i ribelli si vendichino dei propri aguzzini, facendo piazza pulita a tutti i livelli: dal vicino di pianerottolo che faceva la spia ai pretoriani del regime, dai gerarchi ai figli e parenti del capo.
In queste ore, i ribelli ritraggono le proprie esecuzioni e l'odio diventa un souvenir. La differenza è forse solo tecnica, poiché il boia o il miliziano impugnano con una mano la pistola e con l'altra il telefonino, offrendo al mondo un lugubre verbale high tech, che ha almeno il vantaggio di rendere superflue lunghe indagini internazionali sulle responsabilità di chi ha ucciso e di chi ha dato l'ordine. In questo quadro, i nuovi padroni della Libia sembrano aver deciso di evitare processi interni o internazionali, che rispettano le forme della legge, anche quando la sentenza (come nel caso di Saddam Hussein) è scontata. Preferiscono la giustizia sommaria e l'azione risoluta sul campo di battaglia, un po' come il commando dei marines che ha eliminato Bin Laden: un colpo alla testa e sepoltura in alto mare o in luogo sconosciuto, nella presunzione che la partita sia chiusa per sempre. Difficile immaginare un cittadino americano che abbia avuto un sussulto di pietà dopo le immagini dell'assalto.
È emblematica la quasi totale assenza di reazioni sdegnate in Europa e in Occidente per la sorte di Gheddafi e dei suoi figli, come se si volesse evitare che la loro fine venga associata all'ultimo attacco dal cielo che ha agevolato la cattura e di fatto messo fine alla guerra. Missione compiuta dunque, nella convinzione che un giorno di barbarie valga la fine di un regime odioso e il futuro di libertà e democrazia per cui si è combattuto. Ma questo è appunto il drammatico dilemma dei vincitori — di tutti i vincitori — quando non ci sono né pietà per gli sconfitti, né giusta punizione, ma soltanto vendette che chiamano altro sangue e alimentano il rancore. Nessun popolo costruisce un futuro di pace e prosperità senza riconciliarsi con se stesso e con la propria storia.



Massimo Nava



In coda per il corpo di Gheddafi nella cella frigorifera del mercato

MISURATA — Il corpo del nemico ucciso mostra chiaramente segni di violenza: prima picchiato, trascinato, linciato, quindi mostrato alla folla a riprova definitiva che davvero non può più nuocere. Un antico rito barbarico si è consumato contro i resti mortali di Muammar Gheddafi. Non è strano che ora le Nazioni Unite intendano avviare un'inchiesta. «Ci sono due video — ha detto il portavoce dell'Alto Commissario ai diritti umani —. Uno che lo mostra vivo e uno che lo mostra morto. E ci sono quattro o cinque versioni diverse su cosa è accaduto fra quei due video».
Ma c'è un problema aggiuntivo per i dirigenti della rivoluzione in Libia: non riescono a mettersi d'accordo tra loro sulle modalità della sepoltura. Difficoltà che mettono l'accento sulle potenziali lacerazioni politiche del futuro. Se non sono in grado di trovare l'unanimità in questo momento di gioia per la vittoria e la fine del dittatore, cosa faranno quando dovranno decidere le sorti del Paese?
Il risultato immediato è che il cadavere di Gheddafi resta insepolto, sporco di sangue, impolverato, adagiato su di un materasso da quattro soldi in una cella frigorifera del «Mercato africano», un complesso di palazzine e baracche dove prima si vendeva la carne alla periferia di Misurata. Lo abbiamo visto senza difficoltà ieri nel primo pomeriggio. «Giornalisti? Benvenuti! Venite a vedere i resti del criminale. Dite al mondo che abbiamo vinto», esclamano felici i guerriglieri di guardia ai cancelli. Per una volta, anche i più religiosi dalla barba folta arrivati direttamente dalle brigate della Cirenaica legate al fronte del fondamentalismo non si scompongono se si ricorda loro che per la legge coranica un morto va seppellito entro le prime 24 ore dal decesso. «Per Gheddafi e i suoi figli siamo pronti a fare un'eccezione. Meglio che attendano. Occorre che prima la gente li veda morti. Ci hanno fatto troppo male per decenni. E' giusto che la Libia si goda questa vittoria», spiegano. Salvo poi aggiungere che loro non sono «come gli americani». «Gheddafi non sarà però trattato come Osama Bin Laden. E' un musulmano e come tale verrà rispettato. Non lo faremo sparire anonimo in mare. Alla fine sarà sepolto come vuole il Corano, magari in una località segreta vicino alla sua città natale a Sirte», dice tra i tanti Ramadan Zarmoha, 63 anni, uno dei notabili più in vista di Misurata.
Davanti ai cancelli stanno in coda centinaia di persone. Per lo più ragazzi giovani e giovanissimi. «Vengo a vedere Muammar», dice un bambino di 8 anni arrivato con i fratelli più grandi. Ci sono numerosi guerriglieri appena arrivati dagli scacchieri di battaglia a Bani Walid e Sirte. Tanti hanno perso amici e parenti negli scontri degli ultimi mesi. I più rabbiosi sono i feriti. Abbiamo visto alcuni con le stampelle, senza gambe, farsi accompagnare a pochi centimetri dal volto di Gheddafi. E restare a rimirarlo a lungo, silenziosi, quasi increduli che l'uomo alla guida della Libia per 42 anni (molti non hanno conosciuto altro che la dittatura di Gheddafi) sia davvero quel fagotto insanguinato. «Sembra improvvisamente rimpicciolito. Quasi un piccolo pupazzo. Mi sembrava molto più alto da vivo», dice un giovane in carrozzella. E' un commento molto diffuso. Il corpo del dittatore ucciso appare ridotto, rinsecchito. A guardalo nei dettagli ha le unghie curate, la barba rasata attorno al pizzo sul mento. Sino alle ultime ore prima della fine Gheddafi ha cercato di tenersi in ordine. Ce lo mostrano a torso nudo: coperto di tagli e ferite, sembra avere un paio di colpi d'arma da fuoco in entrata all'addome. Soprattutto ha diversi segni di tumefazione e gonfiori. Un paio di laceri pantaloni militari pendono dalla vita e si fermano alle caviglie.
Tutto diverso dal cadavere del figlio Mutassim. Lo abbiamo visto in mattinata nel container frigorifero di «campo Abad», una zona industriale posta circa a 5 chilometri di distanza dal «Mercato Africano». Nei due container vicini stanno accatastate carcasse di pecore e montoni. «Abbiamo separato Mutassim dal padre per evitare che ci fosse troppa confusione tra i visitatori», spiega il proprietario del complesso, Najmi Omar. Il corpo di Mutassim sembra comunque meno danneggiato. Alla gola mostra il foro di entrata di un proiettile sparato a bruciapelo. Un'esecuzione vera e propria. E il lobo destro del cervello è stato chiaramente sfondato, la mandibola dislocata, diversi denti rotti. Almeno altri due proiettili lo hanno colpito nella zona dello stomaco. Ma per entrambi, padre e figlio, non ci sono referti medici. «Probabilmente effettueremo le autopsie nelle prossime ore», ha detto ai giornalisti Othman al-Zintani, medico all'obitorio dell'ospedale locale.
Ma che fare di loro? Da Tripoli il premier ad interim Mahmoud Jibril va ripetendo che la «questione non era mai stata affrontata prima» e troveranno «una risposta nelle prossime ore». Il ministro del petrolio, il laicissimo ex docente di economia negli Stati Uniti Ali Tarhouni, dichiara invece alla stampa che «importa poco se Gheddafi se ne resterà ancora in frigorifero per qualche giorno, l'importante è che tutti lo possano vedere». A Misurata i responsabili militari spiegano invece che stanno trattando con alcuni influenti capi della tribù Qadafi a Sirte per consegnare i cadaveri. «La nostra paura è che troppa pubblicità al luogo di sepoltura possa spingere qualche vittima del regime a fare scempio dei corpi per vendetta», dicono. Non manca ovviamente il timore opposto, e cioè che qualche fedelissimo del Colonnello cerchi di trasformare la tomba in mausoleo della contro-rivoluzione. Oggi i massimi dirigenti del nuovo corso si riuniranno a Bengasi per annunciare ufficialmente la «liberazione nazionale» e l'avvio del processo democratico. Non è detto che in questa sede non vengano anche definite le modalità delle sepolture.



Lorenzo Cremonesi



Catturato o in fuga? È giallo sulla sorte dell'erede Saif al Islam

TUNISI — All'hotel Hana sulla centrale Avenue Bourguiba di Tunisi, da mesi residenza di decine di esuli libici tra cui molti feriti nella lunga battaglia contro Gheddafi, sono tutti incollati a Al Jazeera. «Morto il padre adesso vogliamo sapere che fine fa il figlio, l'erede, il tanto "moderato" Saif al Islam», dice Abdelaziz di Misurata, appoggiato a stampelle e una gamba fasciata ma con un grande sorriso. «Tante voci e nessuna certezza, speriamo che anche questa storia finisca presto». Finisca, ovvero che il secondogenito-delfino, studi a Londra ed ex volto buono del regime libico, raggiunga il Colonnello. O che sia catturato, su cosa sia meglio qui si discute. La sensazione è che se molti avrebbero voluto Gheddafi e figli su un banco degli imputati, l'importante è che siano stati presi, il loro «regno» finito per sempre. In serata le foto terribili diffuse da un sito inglese di un altro Gheddafi jr, Mutassim, faranno sensazione ma più in Occidente che tra i cittadini dell'ex Jamahiriya: la sua morte già documentata giovedì, insieme a quella del padre, non è stata in battaglia, come sembrava. Un video mostra il 36enne che spendeva milioni per festini con pop star mondiali, consigliere per la sicurezza nazionale con un ruolo chiave (pare) nella repressione. Già prigioniero, barba e capelli lunghi, è in canottiera e sporco di sangue. Ma è vivo: beve acqua e fuma una sigaretta. Poi, sullo stesso divano, le immagini del suo cadavere con una ferita mortale alla gola e una all'addome, che prima non c'erano. Ucciso a sangue freddo, quindi. Come il padre.
E un'analogia, seppur diversa, collega il defunto dittatore a Saif, il figlio più noto, più contradditorio: come per il Colonnello, fino all'ultimo, le sue sorti restano oggetto di continue voci, supposizioni, certezze annunciate da chi, è il sospetto, vuole mettersi in luce perfino nel governo di transizione, per poi essere smentite due ore dopo. «È scappato in Niger con i fidi Tuareg». «No, è catturato e ferito alla schiena». «Ha perso un braccio». «L'hanno preso a Zlitan, è stato colpito, è ricoverato per cure mediche». Nessuna conferma, né prova: ma la tv libica ha annunciato che «i rivoluzionari del 17 febbraio circondano l'ospedale per impedirne la fuga, se la notizia fosse vera».
L'ultima segnalazione risale a mercoledì sera: avvistato a Sirte con il padre e Mutassim, poche ore prima che questi ultimi fossero uccisi. La scorsa settimana era stato individuato a Bani Walid, già circondata su tre lati ma ancora libera nella via che portava al Sud. Testimoni locali hanno dichiarato di averlo visto in partenza per quella strada, che dalle montagne va in Niger. Ma che raggiunge presto anche la via Sebha-Sirte. Forse l'annuncio di ieri di Saif a Niamey, con altri membri della famiglia, nasceva da quell'indicazione. Ma se i testimoni di Sirte sono affidabili, Saif aveva invece raggiunto il padre, le voci di una sua cattura a Zlitan potrebbero essere vere.
Nel caos degli annunci, che mettono in crisi i media del mondo tra voglia di scoop e saggia cautela, tutti aspettano ora conferme: non parole ma video, foto magari riprese da telefonini. Terribili ma definitivi per segnare il compimento di un altro capitolo della tragedia, la fine della Jamahiriya e dei suoi padroni.



Cecilia Zecchinelli