sabato 20 novembre 2010

ISLAMOFOBIA

Il cosiddetto "occidente" (o parti di esso) ha la pluri-secolare abitudine di assegnare il ruolo di nemici a quei popoli o entità che, di volta in volta, per i loro modi di vita, per la loro potenza economica, per le risorse di cui dispongono, per la loro capacità espansiva religiosa o politica, sono percepiti come "il nemico di turno".
Caduto il comunismo di marca sovietica e partendo dal sanguinoso attentato delle torri gemelle a New York (opera di sauditi che da anni risiedevano negli Stati Uniti in quanto cittadini di un paese che con l'America ha solidi rapporti politico-economici) è diventato l'Islam. Naturalmente non conta che il termine designa una religione diffusa in più di 100 stati e praticamente esclusiva di 49 di essi; mentre i popoli che la praticano comprendono arabi, persiani, pakistani, indonesiani, malesi, kazhaki, turchi e persino popoli europei come i bosniaci e gli albanesi. L'Islam è il nuovo pericolo per la civiltà occidentale: e sfruttando la pressochè totale ignoranza che l'occidente ha sull'Islam reale, si costruisce un sentimento "di pancia", cui si può tranquillamente dare il nome di "Islamofobia", in gran parte costruita sui pregiudizi.
Uno dei compiti che abbiamo assegnato a questo blog è di demolire nella misura del possibile tali pregiudizi. Lo facciamo citando quasi esclusivamente fonti occidentali e, ovviamente il Corano, testo molto citato da "esperti" che non lo hanno mai letto. Il pregiudizio antislamico più diffuso riguarda: la donna, cominciando "dall'obbligo del velo per la donna musulmana".
Oggi nessun capo d'abbigliamento simboleggia il modello di vita islamico meglio del velo o del foulard della donna musulmana. Ciò si può forse spiegare risalendo all'antichissima origine di tale usanza, praticamente diffusa nell'intero bacino mediterraneo e che nel grosso dell'opinione pubblica europea nascerebbe da una prescrizione religiosa del Corano.
Tre sono i passaggi coranici nei quali si esprime l'esigenza di un abbigliamento adeguato e casto delle donne (Cor. XXXIII, 53; 59; XXIV, 31). Il termine arabo utilizzato "Higiab" (da "Hagiaba" = coprire), il cui significato però non è quello attuale di fazzoletto per il capo e per le spalle.
Questa parola ricorre sette volte nel Corano ma solo nel significato di tendaggio, cortina, schermatura divisoria e solo in Cor. XXXIII, 53 viene usato il riferimento alla donna musulmana "e quando domandate un oggetto alle spose del Profeta, domandatelo restando dietro una tenda: questo servirà meglio alla purezza dei vostri e dei loro cuori". Il contesto storico di questo versetto è la protezione della vita privata delle donne di Mohammed; la tenda allestita nella sua casa serviva a separare i rami privati dell'abitazione dal vestibolo d'ingresso, perennamente affollato dai visitatori. In origine quindi lo Higiab era un accorgimento per proteggere l'intimità delle mogli del profeta nella loro casa e solo successivamente finì con l'indicare il copricapo femminile diventando una norma generale per le donne sposate.
Un'altra parola chiave "Jilbab" è presente in Cor. XXXIII, 59 "O Profeta di alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti che si coprano con i loro mantelli; questo sarà più adatto a distinguerle dalle altre affinchè non vengano offese. Ma Dio è clemente e misericordioso".
Contesto storico di questo versetto è che le donne musulmane devono copririsi il capo con un lembo del mantello quando escono di casa in modo da rendersi riconoscibili dalle schiave ed essere così trattate con il dovuto rispetto. Infatti, all'epoca di Mohammed, il velo era un segno di distinzione sociale: una donna libera e onorata si velava in pubblico in pubblico a differenza delle schiave. Il versetto, tuttavia non indica in alcun modo come la donna dovesse velarsi; solo nella tradizione e nei commentari sul Corano di età successiva, vengono esposte dettagliate descrizioni in merito.
Il fine, in Cor. XXIV, 31 viene utilizzato in riferimento all'abbigliamento femminile il termine "Himar". Il versetto rientra in una generale esposizione delle regole sociali che sovraintendono al rapporto tra l'uomo e la donna musulmani: "Dì alle credenti che si coprano i seni con un velo". Questo velo, che copre anche la nuca e le spalle, serve a distinguere le donne musulmane dalle donne delle altre tribù che si limitavano ad allacciare un foulard intorno alla nuca lasciandolo cadere lungo la schiena.
Il Corano, dunque, non prescrive norme religiose universali per l'abbigliamento femminile, ma da solo delle indicazioni specifiche inerenti il decoro sociale, consigliando un abbigliamento urbano adeguato, diverso da quello delle donne beduine e delle schiave. Successivamente, tuttavia, i versetti citati del Corano, vennero interpretati in senso più rigido sulla base di alcuni Hadit. Furono soprattutto le autorità più influenti sulla questione del copricapo femminile: il secondo califfo Omar, uomo ascetico che aveva sotto tutela le vedove di Mohammed e la moglie del Profeta Aisha, donna molto devota, politicamente attiva, che diventò presto l'ideale della donna musulmana.
Oggi molte scuole di diritto sciite e sunnite ritengono che i versetti del Corano appena citati esprimano l'obbligo religioso per le donne di indossare un foulard sul capo. Ma molti uomini e donne musulmani dei nostri giorni interpretano le indicazioni del Corano e gli Hadit in senso storico-culturale, ritenendolo prive di un valore assoluto e generale. Jaqueline Chabbi, docente di storia dell'Islam medievale all'università di Parigi afferma che "nel Corano le indicazioni sulle modalità di abbigliamento hanno, dal punto di vista storico, una valenza sociale e non religiosa. Non abbiamo inoltre nessun documento islamico dell'epoca che menzioni l'adozione di un particolare abbigliamento religioso". Chabbi conclude così che "il presunto velo islamico non può essere assolutamente giustificato con riferimento al Corano".
Quello che i fondamentalisti affermano essere "l'abito islamico femminile" non può essere invocato quale tradizionale abbigliamento musulmano perchè si tratta dell'adattamento di un tipo di abbigliamento già europeizzato, consono "alla castità voluta da Dio": abito lungo fino alla caviglia, accollato, a maniche lunghe che non aderisce alle forme del corpo e foulard ben stretto che non lascia intravedere nè i capelli nè il collo. Gli uomini, invece, sono perlopiù vestiti all'europea, indossano la camicia con il colletto aperto ma evitano la cravatta definita neo-colonialista.
Questo abbigliamento, soprattutto quello delle donne, è per molti qualcosa di più di un semplice modo di vestire o di un abito alla moda privo di implicazioni religiose: è invece diventato il simbolo di una identità e di una scelta politica religiosa. Quell'abito serve a mostrare al mondo la consapevole decisione di appertenere all'Islam e il disconoscimento di una società secolarizzata. Sono in ogni caso completamente estranee alla maggioritaria cultura musulmana il niqab e cioè l'abito che lascia scoperti soltanto gli occhi della donna, mentre il chador delle donne iraniane di colore nero è un velo tradizionale che lascia scoperto il viso e serve a ricordare al mondo che un milione di uomini iraniani sono morti nella guerra di aggressione scatenata da Saddam con armi americane.
Quanto al burqa, l'abito di colore azzurro che copre interamente il corpo e prevede la copertura degli occhi con una retina, esso è limitato alle donneafghane appartenenti all'etnia Pashtum, ed è un retaggio di una dominazione induista: a tale proposito va sottolineato che tra gli indù ortodossi il burqa è il vestito prescritto alle mogli dell'alta casta dei Bramini.
Il segno dell'islamofobia sottesa alle polimiche sul velo delle donne musulmane, che personaggi spregevoli come l'onorevole Santanchè hanno scatenato in Italia dove di burqa circolanti ce ne saranno a malapena una decina, mette in evidenza, comunque che la natura vera dell'islamofobia ha preso il posto dell'antisemitismo anti-ebraico (diventato un tabù dopo che in Europa sono stati sterminati da europei 6 milioni di Ebrei) ed è nella sostanza pretestuosa.
Si è pronti a denunciare la barbarie del velo, quella inaccettabile dei matrimoni combinati spesso tra giovinette e uomini anziani, e perfino le barbariche mutilazioni genitali femminili (clitoridoctomia, infibulazione) ma si omette di ricordare:

I - Che nell'Islam, e in particolare nel Corano, il matrimonio è valido solo se contratto in presenza del consenso libero di entrambi i coniugi, i quali debbono avere 14 e 16 anni come età minima a seconda che siano femmine o maschi. I matrimoni combinati dai genitori e quelli imposti a donne poco più che bambine sono tipici di ristrette aree al confine con l'India dove invece sono pratica diffusa e corrente al pari della vedovanza imposta per tutta la vita alle donne che rimangono vedove anche in giovane età (si calcola che in India le vedove forzate sono più di 30 milioni: ma fino a non molto tempo fa venivano bruciate sul rogo del marito); però nessuno scatena campagne contro tali barbarie di massa esistenti nella democratica India che, evidentemente, non è percepita come un pericolo dall'occidente;

II - Attribuire all'Islam la pratica delle mutilazioni genitali femminili è una vera e propria infamia. L'Islam considera il piacere naturale un diritto della donna e dell'Islam tutto si può affermare fuori che sia una religione sessuofobica. In realtà le mutilazioni genitali sono un retaggio, difficile da estirpare di antichissime tradizioni tribali africane che praticavano diversificate forme di "marcatura tribale"; ma non è improbabile che la diffusione di tali pratiche nelle regioni del golfo di Guinea, obiettivo privilegiato delle razzie schiavistiche nei 300 anni di tratta degli schiavi praticata dagli europei era una sorta di difesa delle donne che, sessualmente mutilate erano meno appetibili per i negrieri.

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