mercoledì 9 febbraio 2011

IL CONFLITTO ISRAELO PALESTINESE - 2a parte

Nonostante il piano di spartizione votato dall'ONU fosse stato più che generoso nel delimitare i confini dello stato di Israele, successivamente allargati in seguito alla vittoriosa guerra contro la coalizione araba, il governo israeliano, guidato dal laburista Ben Gurion, appoggiato dall'intero gruppo dirigente sionista, si oppose immediatamente alla eventuale nascita di un parallelo stato arabo-palestinese che, pure era stato votato dalla stessa assemblea delle nazioni unite. Ad onta dei ripetuti propositi pacifici israeliani laburisti, nazionalisti, partiti religiosi ortodossi ed ultra ortodossi, nonostante i durissimi contrasti che gli opponevano in politica interna, erano compatti nel respingere l'idea stessa di un possibile stato arabo-palestinese. Il ministro degli esteri Golda Meir enunciò la linea della politica estera israeliana con una frase destinata a rimanere famosa: "Palestinesi? Non esiste un popolo palestinese. Esistono solo arabi di Giordania e ebrei di Israele".
Per motivare una si fatta linea di espansionismo esasperato ed aggressivo i governi e i politici israeliani di ogni tendenza, dai laburisti Ben Gurion e Golda Meir fino agli ultra conservatori Menachem Begin e Isaak Shanir, già comandanti dell'Irgun agitarono fin dall'inizio l'alibi della volontà di sterminio anti ebraico degli arabi. I leader sionisti ripetettero come una litania un retorico ritornello: "Dobbiamo difenderci dai loro propositi di annientamento dimostrati dal loro rifiuto di riconoscere l'esistenza di Israele. Noi vogliamo la pace, e se i nostri vicini ci propongono relazioni diplomatiche, siglano con essi un trattato di pace e non compiano atti ostili, noi saremo ben lieti di imboccare la strada della coesistenza pacifica".
Come prova degli intendimenti genocidi degli arabi gli israeliani diedero ampia diffusione alle carte geografiche preparate dal "nemico": in esse lo stato di Israele non esisteva; l'opinione pubblica europea, evidentemente ignorava o fingeva di ignorare che nelle carte geografiche israeliane della Palestina, la Cisgiordania, nella quale sarebbe dovuto nascere lo stato palestinese era indicata con i nomi ebraici di Giudea e di Samaria. Del resto i propositi pacifici israeliani furono per anni dimostrati dal modo arrogante con cui replicavano a chi poneva il problema del milione di profughi palestinesi scacciati dalle loro terre per far posto al "focolare ebraico". Del resto nell'intero territorio del neonato stato di Israele rimanevano ormai poco più di 150.000 arabi: la maggioranza di essi insediata nei comuni della Galilea e il resto costituito dalle tribù beduine disperse nel deserto del Neged.
Vi era comunque il problema di coprirsi le spalle tacitando le eventuali obiezioni del governo egiziano e le ambizioni di re Abdullah di Transgiordania, che poteva a giusto titolo rivendicare il fatto di essere l'unico governante arabo che non era stato sconfitto nella guerra appena conclusa. I due problemi vennero rapidamente risolti. All'Egitto, grazie alla mediazione inglese, venne di fatto ceduta la sovranità sulla striscia di Gaza dove viveva la maggioranza dei palestinesi non scacciati dall'ex Palestina. Con il re Abdullah, Golda Meir raggiunse un rocambolesco accordo che si raccontò fosse stato stipulato in una tenda beduina tra il re in persona e Golda Meir vestita da uomo: gli israeliani non ponevano obiezioni sul fatto che il re trans giordano si annettesse i fertili terreni di Cisgiordania, una cospicua parte del fiume Giordano e la parte araba di Gerusalemme, diventando in tal modo re di Giordania. In cambio egli garantiva che dai territori sotto il suo controllo non sarebbero mai partiti attacchi guerriglieri di disperati gruppi di profughi palestinesi, non rassegnati alla perdita definitiva delle loro case, dei loro villaggi e delle loro coltivazioni di ulivo e di agrumi.
Il re giordano pagò molto presto il suo tradimento. Un profugo palestinese lo freddo con tre colpi di pistola sulla spianata delle moschee di Gerusalemme e al suo posto salì sul trono di Giordania il fratello Talal, il quale aveva idee assai meno concilianti circa i rapporti con lo stato israeliano.
Il problema fu presto risolto. Prendendo a pretesto la sua decisione di licenziare l'inglese Grubb Pascià da comandante della legione araba, gli inglesi riuscirono a far interdire Talal come pazzo, lo fecero deporre dal trono e al suo posto insediarono il figlio 18enne Hussein, destinato a diventare famoso come Hussein di Giordania.
In quegli anni, in Egitto la confraternita dei Fratelli Musulmani fornì una forte base di massa al colpo di stato con il quale i quadri migliori dell'esercito egiziano spazzarono via il corrotto re Faruk e il suo governo filo inglese. Al loro posto il potere passo nelle mani delle forze nazionaliste a tendenza socialista guidate dal colonnello Abd El-Nasser, il quale dichiarò immediatamente che uno dei suoi propositi era quello di lavare l'onta della sconfitta riportata nel 1949 e di spazzare via il sopruso dello stato israeliano. L'ascesa al potere di Nasser provocò una reazione a catena che un paradosso della storia finì col rafforzare lo stato di Israele. In tutti i paesi arabi, dal Marocco all'Iraq, partì un'unanime campagna anti ebraica che si concluse con la espulsione delle numerose colonie ebraiche del nord Africa e del Medio Oriente, che fornirono nuova linfa alla ancora scarsa popolazione ebraica dello stato di Israele: si calcola che più di mezzo milione di persone si rifugiarono nei confini del neonato "focolare" ebraico. Intanto i governi israeliani maturavano disegni ancora più ambiziosi: i loro fondatori erano partiti dall'Europa perseguendo il proposito di aiutare le popolazioni arabe del Medio Oriente ad affrancarsi dal potere degli imperi coloniali; ora il governo Ben Gurion, dopo gli eventi egiziani decise che il più conveniente ruolo dello stato ebraico doveva diventare quello di sentinella armata degli interessi occidentali in Medio Oriente e così quando nel 1956 Nasser decise di nazionalizzare il Canale di Suez togliendone il controllo al consorzio anglo francese che lo gestiva, l'esercito israeliano decise di intervenire ed invase la penisola del Sinai, portando a pretesto il fatto che il governo egiziano e il dittatore Nasser avrebbero impedito alle navi israeliane di avvalersi della vitale via di transito tra il Mediterraneo e il Mar Rosso. Con tale iniziativa gli israeliani fornirono il pretesto all'intervento militare anglo-francese: il primo ministro inglese Anthony Eden e quello francese Vuimollet raccontarono la frottola che lo sbarco delle loro truppe a porto Said sul Canale di Suez aveva il compito di "separare l'esercito israeliano che avanzava nel Sinai dalle forze armate egiziane". Fortunatamente nessuno credette alla favola: l'assemblea dell'ONU votò quasi all'unanimità la condanna per aggressione della Gran Bretagna, della Francia e di Israele e ordinò l'immediato ritiro delle loro truppe dal Sinai e dal Canale di Suez. L'Unione Sovietica minacciò di bombardamento atomico Londra e Parigi se i loro governi non avessero obbedito. Il governo americano che vedeva nello scivolone dei due soci europei l'occasione per subentrare agli inglesi come potenza dominante nel Medio Oriente si associarono alla condanna; e gli israeliani dovettero con la coda tra le gambe rientrare nei loro confini. Il loro proposito di eliminare l'Egitto nasseriano da ogni possibilità di guerra futura contro Israele era per questa volta fallito.

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