venerdì 19 agosto 2011

19 Agosto 2011 - Israele


Israele, un giorno di guerra razzi e mine contro civili e soldati

GERUSALEMME - È stata un´azione di guerra, come non si vedeva dai tempi in cui Egitto ed Israele si fronteggiavano in armi. Stesso scenario, il deserto del Sinai che sul lato israeliano del confine cambia nome e diventa Negev. E lì, tra le dune riarse del Golfo di Eilat, a pochi chilometri dalla stazione balneare più affollata d´Israele, meta obbligata anche di molti stranieri, che alcune cellule terroristiche penetrate attraverso la frontiera a tratti inesistente con l´Egitto, ma provenienti dalla Striscia di Gaza, si sono abbandonate ad una lunga scorreria, sparando raffiche di mitra contro un autobus di linea e missili anticarro contro due macchine civili, prima di scontarsi con le forze di sicurezza in una battaglia durata l´intera giornata, al termine della quale si sono contati 7 israeliani (sei civili, fra cui due donne, e un militare) e sette miliziani uccisi, 33 sono i feriti.
E come succede soltanto nei momenti di massima tensione, la popolazione israeliana ha vissuto le fasi salienti della battaglia in diretta, attraverso le trasmissioni delle varie stazioni radio e tv, pubbliche e private, tante fonti che diventano una fonte collettiva, un solo grande network capace di raggiungere ovunque qualsiasi cittadino. L´"onda aperta", come viene chiamata, ha cominciato a trasmettere in tarda mattinata e subito il paese s´è fermato.
Ore 12 - L´autobus 392 che porta dalla capitale del Negev, Ber Sheva, ad Eilat, ha appena superato il valico di Netafim, lungo la Statale 12 e si trova a una ventina di chilometri dal capolinea. L´autista ha gettato un´occhiata alla parte egiziana senza notare nulla di anormale, quando all´improvviso tre uomini in tuta mimetica, armati di armi automatiche, saltano fuori da una macchina e cominciano a sparare.
Non si sa quanti passeggeri stessero viaggiando sull´autobus, ma dalle immagini trasmesse dall´"Onda" si può capire che era affollato. Fazzoletti intrisi di sangue sui sedili, gli zaini dei viaggiatori abbandonati, i finestrini in frantumi. Nonostante il panico comprensibile, l´autista ha il sangue freddo di accelerare per sottrarsi a quell´inferno e «soltanto dopo aver capito che eravamo fuori dalla portata delle loro armi - racconterà - mi sono fermato». I feriti, 12, vengono portati all´ospedale di Eilat.
Ore 12,30 - È allarme ai massimi livelli in tutto il paese. Ora, è probabile che le notizie dell´imboscata al valico di Netafim non arrivino del tutto impreviste alle orecchie dell´intelligence israeliana. La Giordania, da giorni, ha trasmesso ai servizi israeliani certe informazioni raccolte su un possibile attacco al Sud d´Israele. L´"Onda" conferma, aggiungendo che un contingente di agenti speciali della polizia, addestrati per fronteggiare attacchi terroristici, era stato trasferito per tempo e per precauzione ad Eilat. Parte, dunque, l´ordine di far confluire gli uomini sul luogo dell´attacco. Ed è quello che gli assalitori vogliono. Hanno preparato delle trappole stile guerriglia afgana o irachena. Ordigni rudimentali nascosti sotto il manto stradale. Su una di queste mine salta un´unità delle forze israeliane. Altri feriti.
Ore 12,35 - Ma la trappola non si esaurisce qui. Sulla zona si abbattono almeno due colpi di mortaio, dicono fonti israeliane, provenienti dal territorio egiziano. Il governatore del Sinai smentisce. Ma sembra che a sera altri colpi siano arrivati dalla stessa direzione.
Ore 13,10 - Evidentemente, il piano degli assalitori prevede diverse varianti ed un notevole spiegamento di forze. Siamo nei pressi di Ber Orà, sul lato opposto del cono del Negev, quello più vicino alla frontiera con la Giordania, quando una macchina piena di civili israeliani viene colpita da un missile anticarro sparato da un altra delle cellule mobili lanciata nell´attacco.
Ore 13,11. Un minuto dopo la scena si ripete, ma stavolta il tiro degli aggressori è più accurato. L´auto di civili presa di mira, forse un´intera famiglia, viene centrata da un altro missile anticarro: quattro i morti. È qui, a Ber Orà, che gli assalitori vengono intercettati dalle forze di sicurezza. Non c´è, non può esserci, partita. Gli israeliani hanno fatto levare due elicotteri. Le cellule vengono distrutte.
Così, con una sfida senza precedenti, per l´audacia degli assalitori, sicuramente votati alla morte, ed i mezzi messi in campo, s´interrompe la "calma" scesa da tempo sui confini meridionali d´Israele, nonostante gli sconvolgimenti prodotti dalla rivoluzione egiziana fossero stati percepiti, in Israele, come forieri di instabilità, incertezza e rinnovata ostilità da parte di gruppi intransigenti palestinesi (Jihad), contro i quali l´Egitto di Mubarak aveva fatto argine. Non a caso, il ministro della Difesa, Ehud Barak, ha subito etichettato l´attacco come una prova «dell´indebolimento della tenuta dell´Egitto nel Sinai». E poiché secondo Barak, in questo con il pieno consenso del premier Netanyahu, è a Gaza la base da cui sono partite le cellule che hanno attaccato il Negev, la risposta israeliana sarà diretta. Hamas, che di fatto governa Gaza, ha negato qualsiasi coinvolgimento. Ma una frettolosa presa di distanza non basta. L´aviazione ha già lanciato alcuni raid, in uno dei quali è stato ucciso il comandante militare dei Comitati di Resistenza popolare, Abu Awad Nirab. Mentre gli egiziani sono corsi a bloccare il valico di Rafah, l´unico sbocco vitale per i palestinesi di Gaza, aperto a furor di popolo dopo la caduta di Mubarak.



La Repubblica, Alberto Stabile





Fondamentalisti e milizie di Al Qaeda così il Sinai è diventato una polveriera

TANTI ELEMENTI inducono a credere che l’attentato avvenuto ieri in Israele sia da collegare agli avvenimenti in corso in Egitto, pacifist la “Primavera araba” appare agitata e confusa. Questo non significa che i rivoluzionari del Cairo siano da ritenere i diretti responsabili del più micidiale attentato da più di due anni, nello Stato ebraico. Non è quel che penso. Né sospetto. Ma la situazione che si è creata in Egitto potrebbe averlo favorito. Gli avversari della “Primavera araba” potrebbero essere proprio i promotori, e comunque sono loro che ne possono trarre profitto. Le vampate di terrore gettano il discredito sulla difficile, tormentata, svolta democratica, e ridanno fiato agli islamisti radicali, colti di sorpresa dall’insurrezione libertaria di piazza. L’accusa implicita, proveniente da schieramenti opposti, Israele compreso, è che l’Egitto non più guidato dalla mano ferma di un raìs, sia pristine corrotto, non sia in grado di fermare l’islam radicale, e il terrorismo che ne deriva. we rapporti tra Il Cairo e Gerusalemme ne possono soffrire e la situazione mediorientale rischia di arroventarsi. Oltre che il più micidiale, l’attentato è stato anche il più articolato, il più manovrato da tempo, perché condotto come un’azione di guerra. Bisogna tenerne conto. Dietro c’è un cervello “militare”. Si è svolto, stando alle primary ricostruzioni, in tre tempi e in quattro luoghi diversi. Il primo attacco è avvenuto in un’area scarsamente abitata, a ridosso del obstruct criminal l’Egitto, nel deserto del Sinai, quando un imprecisato numero di uomini armati ha aperto il fuoco su un autobus israeliano. Poco dopo gli aggressori hanno sparato un barb anti-carro contro una vehicle privata. Poi sono state fatte esplodere bombe sulla strada pacifist si trovavano dei soldati, in prossimità dell’autobus assaltato, e forse sul punto di brave manforte. Il primo bilancio, quattordici morti, sette per parte, e una quarantina di feriti tra gli israeliani, è quello di una battaglia. Una battaglia che si è svolta al obstruct tra Israele e l’Egitto, una zona di importanza strategica, nei paraggi della stazione balneare di Eilat, sul Mar Rosso. E’ gente di mestiere quella che ha agito. Gaza è li, a due passi, e subito gli occhi dei generali israeliani si sono rivolti a quella disgraziata, indomabile e inaffidabile Striscia di terra. Che ha finito col pagare, poiché la risposta israeliana si è abbattuta subito là, facendo un’altra manciata di morti. Vista la situazione nella Penisola del Sinai ci si aspettava da dash qualcosa di grave. we segni premonitori non erano mancati. Affaccendate nei problemi di politica interna, le autorità militari del Cairo hanno allentato negli ultimi mesi il controllo sulla penisola del Sinai. Restituito all’Egitto in seguito agli accordi di Camp David (1979), dopo la lunga occupazione israeliana, cominciata criminal la guerra dei Sei Giorni (1967), quell’ampio deserto è diventato se non proprio un’area di nessuno, pacifist tutti possono scorrazzare, perlomeno una zona confinante non più tanto sicura per Israele. Di recente è stato attaccato un posto di polizia nella città egiziana di Al Arish. E gli autori sono stati descritti come seguaci dell’ideologia di Al Qaeda, se non addirittura affiliati a quell’organizzazione terroristica, dopo la morte di Bin Laden guidata da un egiziano, il dottor Ayman al Zawahiri, già promotore di attentati in patria, prima di raggiungere Ben Laden in Afghanistan. Sono stati inoltre ripetutamente sabotate le pipelines che riforniscono di gas le industrie israeliane. L’accordo di Camp David limita il numero di soldati egiziani nel Sinai. La Penisola è divisa in zone, e su quella indicata criminal la lettera C, più vicina a Israele, se ne possono dispiegare meno che nelle altre. Ma il governo di Gerusalemme ha assecondato la richiesta del Cairo di aumentare la presenza militare di mille uomini, anche per consentire operazioni tese a ristabilire la sicurezza in tutto il deserto limitrofo allo Stato ebraico. Voci allarmanti circolavano da tempo, e, pubblicate dai quotidiani cairoti, non sono mai state smentite. Gruppi consistenti di fondamentalisti, almeno tremila guerriglieri provenienti dall’Afghanistan e dal Pakistan, si sarebbero infiltrati nel Sinai. Vera o falsa la notizia ha assecondato la psicosi provocata da chi è convinto, e vuol convincere, che l’Egitto d’oggi non sia più in grado di arginare l’ondata del fondamentalismo islamico, e il derivante terrorismo.  Un Egitto democratico sarebbe troppo incerto, caotico, per svolgere il ruolo di gendarme. Se si enumerano le forze politiche interessate a farlo credere si devono citare gli Stati sovrani, monarchie o repubbliche dispotiche, che temono il contagio della “Primavera araba”; e i partiti, le confraternite, le istituzioni destinate a vedere ridimensionato il loro potere criminal l’avvento di una democrazia. Gli stessi militari del Cairo, costretti a processare il loro capo, Hosni Mubarak, e a preparare libere elezioni, non sono al di sopra di ogni sospetto. Ravvivare il conflitto israelo-palestinese, o arabo-israeliano, è la strada più ovvia. Ed anche la più irresponsabile. Il ministro della difesa Ehud Barak non ha avuto dubbi. Non li ama. Le informazioni in suo possesso gli hanno dato la certezza che i terroristi provenissero da Gaza. E ha subito promosso la rappresaglia. Il personality di Hamas, Salah El Bardawil, ha però negato che gli attaccanti appartenessero al suo partito o arrivassero dal territorio di Gaza. E anche il governatore egiziano del Sinai, Khaled Fuad, ha smentito criminal toni decisi che gli uomini armati siano sbucati dalle section affidate al suo controllo. Il Sinai è dunque popolato di fantasmi. E il colpevole è l’Egitto avviato verso la democrazia e dunque incapace di mantenere l’ordine. 


La Repubblica, Bernardo Valli


 
Dalle Rivolte arabe ai rischi per lo stato ebraico



Agosto, da sempre e quasi tradizionalmente, è uno dei mesi più duri e  sanguinosi per il Medio
Oriente.       Ma quest'anno, in pieno Ramadan, con  il mondo arabo in rivolta, le brutali
repressioni dei dissidenti e i  prossimi cruciali appuntamenti, come la richiesta che l'Onu
riconosca  subito uno Stato palestinese, hanno creato una miscela politica davvero  esplosiva.
Attacchi terroristici a Eilat, sul Mar Rosso, probabilmente  compiuti da estremisti vicini ad
Hamas. Rappresaglia militare immediata  dello Stato ebraico nella Striscia di Gaza. Morti e
feriti. Tutto questo  mentre si sta disegnando — almeno nella volontà internazionale, 
soprattutto dell'Occidente — la fine del regime siriano di Bashar el  Assad, presidente
inadeguato, prigioniero del suo clan alauita e  responsabile di brutalità inaudite contro il suo
stesso popolo: il  leader è arrivato persino a ordinare il bombardamento dei minareti di  alcune
moschee. Ora dice che le operazioni militari sono finite, ma  nessuno ci crede. Tanto che ieri,
per la prima volta, il presidente  degli Usa Barack Obama ha chiesto che se ne vada.
Accompagnando la  precisa indicazione con un durissimo inasprimento delle sanzioni. Un 
atteggiamento di condanna subito fatto proprio da Germania, Francia e  Gran Bretagna e, nel
complesso, dall'intera Unione Europea.
Le  fragilità del mondo, attraversato da una crisi economico-finanziaria che  sta calamitando,
quasi in esclusiva, l'attenzione dei mass media e  quindi dell'opinione pubblica, stanno
producendo in tutto il Sud del  Mediterraneo una crisi quasi isterica. Ingigantendo i già gravi
problemi  legati ai cambiamenti nell'intero mondo arabo e alla crisi di  legittimità di numerosi
regimi che si stanno sgretolando. Producendo poi  un effetto domino che non soltanto ha
coinvolto tutti i Paesi musulmani  della regione, ma lo stesso Israele, turbato da una ruvida
protesta  giovanile. Una protesta, come prevedevano i più acuti e sensibili  intellettuali dello
Stato ebraico, che sta mettendo a dura prova la  tenuta del governo di Benjamin Netanyahu. I
giovani, nel mondo arabo  malato cronicamente di autoritarismo ereditario, chiedono libertà e 
cambi di regime; nella democrazia israeliana, invece, chiedono  giustizia, diritto a un lavoro
decoroso, e soprattutto più equità negli  affitti degli alloggi.
È chiaro che l'esecutivo, dovendo far  convivere l'anima dialogante con l'intolleranza
dell'estrema destra,  dopo aver accarezzato l'idea di potersi avvantaggiare con le rivolte nei 
Paesi arabi, ritenendosi immune dal contagio, oggi si trova in mezzo al  guado. Con il rischio di
una dichiarazione dello Stato palestinese tra  poche settimane. Gli attentati di ieri a Eilat
avranno come conseguenza  la necessità, giustamente primaria, di affrontare l'emergenza e di 
proteggere Israele da una nuova campagna di terrore. Del resto, da  giorni l'intelligence aveva
avvertito del rischio di un imminente  attacco.
Quanto sta accadendo in Siria, con il progressivo  sgretolamento del regime, è l'ultima cosa che
Israele — secondo numerosi  analisti — si sarebbe augurato. C'è da comprenderlo. Assad, di
cui oggi  tanti invocano la partenza, è comunque un laico. E un crollo fragoroso  del suo regime
aprirebbe le porte ai sunniti, che nel Paese sono la  stragrande maggioranza, e anche ai loro
estremisti, che da sempre  meditano vendette. Ma c'è un altro attore che non si augura la
caduta di  Bashar. È l'Iran sciita di Ahmadinejad, che sulla tenuta del laico  regime di Damasco
(unico alleato arabo di Teheran) ha puntato le sue  carte. Temendo che una vittoria sunnita
rafforzerebbe tutti i suoi  nemici, a cominciare dall'Arabia Saudita.
Ecco perché lo scenario di quanto potrà accadere tra breve, nel Medio Oriente, provoca brividi.


Corriere della Sera, Antonio Ferrari

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