Egitto, la prova di forza degli islamici
«L’Islam è l’identità dell’Egitto, il suo passato e il suo futuro» , si leggeva su un enorme manifesto in Piazza Tahrir al Cairo. «Gli Stati secolari e socialisti hanno fallito in Turchia e in Russia. Vogliamo uno Stato islamico che applichi la legge di Dio» , diceva un manifestante, mentre un altro gridava: «Dio ha fatto la rivoluzione» . Sei mesi dopo l’insurrezione popolare che ha rovesciato il presidente Hosni Mubarak, il 29 luglio la piazza simbolo della rivolta è stata inondata da una delle più grandi manifestazioni islamiche nella storia dell’Egitto: decine di migliaia di manifestanti con lunghe barbe e abiti conservatori — poche le donne, per lo più velate dal niqab, che lascia liberi solo gli occhi — sono giunte da tutto il Paese, molti in autobus dalle zone rurali. Al centro della piazza, accampati, c’erano i giovani— molti dei quali laici— che l’ 8 luglio sono tornati in piazza Tahrir accusando la giunta militare al potere di tradire gli ideali della rivoluzione. Si guardavano intorno: «Quante barbe...» . Alcuni che tentavano di gridare «vogliamo essere un Paese civile» hanno detto d’essere stati costretti a tacere.
La manifestazione, denominata «venerdì dell’unità» , è stata in realtà una evidente conferma delle divisioni crescenti nell’Egitto post-Mubarak, nonché una prova di forza da parte degli islamici. Ventotto gruppi liberali e di sinistra unitisi alla marcia dopo avere, per giorni, discusso con i partiti islamici al fine di evitare slogan che mostrassero divisioni, arrabbiati per «il tono» della protesta hanno abbandonato la piazza. C’erano i membri e simpatizzanti di vari gruppi islamici banditi sotto Mubarak, che negli ultimi mesi, hanno formato i loro partiti: dai più moderati agli ultraconservatori, dalla Fratellanza musulmana ai salafiti.
L’ascesa di questi ultimi, che seguono una interpretazione letterale del Corano e predicano il ritorno all’Islam praticato da Maometto, ha sorpreso e preoccupato molti laici. C’erano anche sostenitori del «Gruppo islamico» , responsabile di attentati contro i turisti negli anni 90, che ha abbandonato la violenza e formato un partito politico. È stata una prova della forza degli islamici in vista delle elezioni, prima previste a settembre ma rimandate a novembre dal Consiglio supremo delle forze armate che governa il Paese dalla caduta di Mubarak l’ 11 febbraio.
La Fratellanza è il gruppo più organizzato in vista del voto, benché sia stato marginale durante la rivoluzione, mentre i partiti liberali e di sinistra restano divisi e deboli. E’ proprio il Partito «Libertà e Giustizia» dei Fratelli musulmani a guadagnarci di più dal 29 luglio, secondo Rania Al Malky, direttore del quotidiano Egypt Daily News: «Da una parte mostrano ai critici d’essere più moderati rispetto ai salafiti, incoraggiando così le alleanze. Dall’altra, hanno sottolineato di considerare i salafiti come potenziali partner se vengono snobbati dai liberali» . Al centro del braccio di ferro tra forze diverse c’è la nuova Costituzione. Ogni gruppo politico vuole influenzarne i contenuti. Poiché verrà scritta da un’assemblea costituente nominata dal nuovo parlamento (lo ha deciso un referendum popolare a marzo), i liberali temono un’alleanza tra Fratellanza e altri gruppi islamici per una Costituzione in linea con la sharia. Nella Carta precedente, i principi della legge islamica venivano citati come principale fonte del diritto egiziano. La giunta militare ha nominato un comitato per formulare principi «sopracostituzionali» tesi a proteggere le libertà religiose e i diritti delle minoranze ma gli islamici accusano i liberali di sottrarre al popolo il diritto di decidere, e di voler introdurre norme «occidentali» . Sulle linee guida, comunque, sono divisi anche i laici: il timore è che l’esercito voglia assumere un ruolo di garante della laicità simile a quello dei militari in Turchia negli anni 80 (che gli permetta anche di proteggere i propri interessi economici). Negli ultimi mesi, lo slogan della rivoluzione «l’esercito e il popolo sono una mano sola» ha ceduto il campo a proteste per la lentezza delle riforme e dei processi per punire i responsabili della repressione che fece 850 morti; per la permanenza al potere di uomini dell’era Mubarak, anche nel governo provvisorio; per i processi militari cui, nel «nuovo» Egitto, sono stati sottoposti tra i 5.000 e i 10.000 civili; e per le torture denunciate dai manifestanti anche dopo la caduta del presidente.
I problemi di povertà e disuguaglianza, che sono stati tra le ragioni della sollevazione popolare sono tutti da risolvere. Ed emergono timori sulla sicurezza del Paese. L’altro ieri, nel Sinai, un gruppo di miliziani islamici, gridando «Allah è l’unico vero Dio» , ha attaccato una stazione di polizia: sono morte 6 persone (3 agenti e 3 civili, tra cui un 13enne). Ieri, nel Nord del Sinai, un commando armato di granate ha assaltato un gasdotto che rifornisce Israele, il quinto attacco da febbraio. Si avvicina il 3 agosto, la data del processo di Mubarak, dei suoi figli e di altri funzionari del regime.
Dall’ospedale di Sharm el-Sheikh dove l’ex raìs è ricoverato da aprile, giungono notizie sulla sua cagionevole salute. Una settimana fa pareva non mangiasse più. Ora è «stabile ma depresso» . Intanto il futuro del nuovo Egitto resta avvolto nell’incertezza.
La manifestazione, denominata «venerdì dell’unità» , è stata in realtà una evidente conferma delle divisioni crescenti nell’Egitto post-Mubarak, nonché una prova di forza da parte degli islamici. Ventotto gruppi liberali e di sinistra unitisi alla marcia dopo avere, per giorni, discusso con i partiti islamici al fine di evitare slogan che mostrassero divisioni, arrabbiati per «il tono» della protesta hanno abbandonato la piazza. C’erano i membri e simpatizzanti di vari gruppi islamici banditi sotto Mubarak, che negli ultimi mesi, hanno formato i loro partiti: dai più moderati agli ultraconservatori, dalla Fratellanza musulmana ai salafiti.
L’ascesa di questi ultimi, che seguono una interpretazione letterale del Corano e predicano il ritorno all’Islam praticato da Maometto, ha sorpreso e preoccupato molti laici. C’erano anche sostenitori del «Gruppo islamico» , responsabile di attentati contro i turisti negli anni 90, che ha abbandonato la violenza e formato un partito politico. È stata una prova della forza degli islamici in vista delle elezioni, prima previste a settembre ma rimandate a novembre dal Consiglio supremo delle forze armate che governa il Paese dalla caduta di Mubarak l’ 11 febbraio.
La Fratellanza è il gruppo più organizzato in vista del voto, benché sia stato marginale durante la rivoluzione, mentre i partiti liberali e di sinistra restano divisi e deboli. E’ proprio il Partito «Libertà e Giustizia» dei Fratelli musulmani a guadagnarci di più dal 29 luglio, secondo Rania Al Malky, direttore del quotidiano Egypt Daily News: «Da una parte mostrano ai critici d’essere più moderati rispetto ai salafiti, incoraggiando così le alleanze. Dall’altra, hanno sottolineato di considerare i salafiti come potenziali partner se vengono snobbati dai liberali» . Al centro del braccio di ferro tra forze diverse c’è la nuova Costituzione. Ogni gruppo politico vuole influenzarne i contenuti. Poiché verrà scritta da un’assemblea costituente nominata dal nuovo parlamento (lo ha deciso un referendum popolare a marzo), i liberali temono un’alleanza tra Fratellanza e altri gruppi islamici per una Costituzione in linea con la sharia. Nella Carta precedente, i principi della legge islamica venivano citati come principale fonte del diritto egiziano. La giunta militare ha nominato un comitato per formulare principi «sopracostituzionali» tesi a proteggere le libertà religiose e i diritti delle minoranze ma gli islamici accusano i liberali di sottrarre al popolo il diritto di decidere, e di voler introdurre norme «occidentali» . Sulle linee guida, comunque, sono divisi anche i laici: il timore è che l’esercito voglia assumere un ruolo di garante della laicità simile a quello dei militari in Turchia negli anni 80 (che gli permetta anche di proteggere i propri interessi economici). Negli ultimi mesi, lo slogan della rivoluzione «l’esercito e il popolo sono una mano sola» ha ceduto il campo a proteste per la lentezza delle riforme e dei processi per punire i responsabili della repressione che fece 850 morti; per la permanenza al potere di uomini dell’era Mubarak, anche nel governo provvisorio; per i processi militari cui, nel «nuovo» Egitto, sono stati sottoposti tra i 5.000 e i 10.000 civili; e per le torture denunciate dai manifestanti anche dopo la caduta del presidente.
I problemi di povertà e disuguaglianza, che sono stati tra le ragioni della sollevazione popolare sono tutti da risolvere. Ed emergono timori sulla sicurezza del Paese. L’altro ieri, nel Sinai, un gruppo di miliziani islamici, gridando «Allah è l’unico vero Dio» , ha attaccato una stazione di polizia: sono morte 6 persone (3 agenti e 3 civili, tra cui un 13enne). Ieri, nel Nord del Sinai, un commando armato di granate ha assaltato un gasdotto che rifornisce Israele, il quinto attacco da febbraio. Si avvicina il 3 agosto, la data del processo di Mubarak, dei suoi figli e di altri funzionari del regime.
Dall’ospedale di Sharm el-Sheikh dove l’ex raìs è ricoverato da aprile, giungono notizie sulla sua cagionevole salute. Una settimana fa pareva non mangiasse più. Ora è «stabile ma depresso» . Intanto il futuro del nuovo Egitto resta avvolto nell’incertezza.
Corriere della Sera, Viviana Mazzi, 01/08/2011
Turchia, lo schiaffo dei militari a Erdogan
UNA resa dei conti micidiale. Fra le due entità contrapposte che reggono il Paese. In Turchia l' inizio di agosto segna sempre un momento di turbolenza nei rapporti tra Forze armate e governo islamico moderato, a causa della consueta riunione dello YAS, il Consiglio militare supremo che decide le promozioni degli alti ufficiali. Ma quel che è accaduto ieri ad Ankara non è mai successo nei quasi 90 anni dalla fondazione della Repubblica nata dalle ceneri dell' Impero Ottomano. Il capo di Stato maggiore, cioè il numero uno delle Forze armate, il generale Ishik Koshaner, ha rassegnato polemicamente le dimissioni ieri pomeriggio dopo una serie di colloqui riservati avuti con il capo dello Stato Abdullah Gul, e con quello del governo Recep Tayyip Erdogan, entrambi fondatori del partito conservatore Giustizia e sviluppo, di origine islamista. Insieme con lui, per solidarietà, si sono successivamente dimessi anche i capi di Stato maggiore di Esercito, Marina e Aeronautica. Koshaner verrà sostituito dal generale Necdet Ozel, finora capo della Gendarmeria. Nessuna delle due parti ha dato per ora spiegazioni per un gesto che rischia di destabilizzare lo Stato e il Paese, mentre l' economia turca vola e il Pil ha superato nell' ultimo trimestre l' 11 per cento, battendo addirittura la Cina. Al centro di questo scontro al calor bianco ci sono i dissidi riguardanti una serie di promozioni in vista della seduta decisiva dell' organo militare supremo, prevista per domani. I vertici delle Forze armate pretendevano che fra i nuovi incarichi risultassero 17 ufficiali dell' Esercito, detenuti assieme ad altri 25 commilitoni implicati nel piano per un presunto colpo di stato denominato "Martello", scoperto nel 2003 e avente lo scopo di scalzare Erdogan dal potere. Il governo avrebbe voluto trasferirli direttamente nella Riserva. I militari accusano invece gli islamisti al potere di voler promuovere ufficiali sensibili alle istanze religiose, e dunque secondo loro poco inclini nel difendere la Costituzione laica voluta da Ataturk, padre della patriae fondatore della Turchia moderna. Il durissimo braccio di ferro richiama i risultati usciti dalle ultime elezioni generali del 12 giugno, stravinte dal partito conservatore di Erdogan con quasi il 50 per cento dei consensi. Mentre gli ufficiali ancora si leccano le ferite per la sconfitta nel referendum del 2010, che ha visto il Paese voler limitare fortemente i poteri un tempo assegnati a una classe, quella militare, tuttora molto potente e rispettata. Di norma, gli incarichi assegnati ai più alti gradi delle Forze armate vengono concordati dopo lunghe mediazioni fra le due parti. Così non è avvenuto questa volta. È vero che lunedì prossimo i tre comandanti di terra, cielo e aria, tranne il capo di Stato maggiore Koshaner, sarebbero andati in pensione. E ieri sera l' agenzia di stampa Anadolu, semi ufficiale, ha precisato che la loro richiesta di dimissioni è in realtà una domanda di pensionamento. Ma il gesto eclatante espresso dall' altissimo vertice militare turco nella sua totalità ha comunque un valore simbolico dirompente, sulla scia di un braccio di ferro in atto da anni che sembra, adesso, giunto all' alba dello scontro decisivo.
La Repubblica, Marco Ansaldo, 30/07/2011
Sono ben strani gli occidentali, specie gli europei e gli italiani che rivendicano le radici cristiane dell'Europa! Cosa dovrebbero fare i popoli dei paesi di religione islamica? Manifestare per rivendicare l'abolizione delle radici musulmane dei loro paesi?
Sono ben strani gli occidentali, specie gli europei e gli italiani che rivendicano le radici cristiane dell'Europa! Cosa dovrebbero fare i popoli dei paesi di religione islamica? Manifestare per rivendicare l'abolizione delle radici musulmane dei loro paesi?
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