mercoledì 24 agosto 2011

LA FINE DI GHEDDAFI DOVREBBE ESSERE PROSSIMA....DOVREBBE


Tripoli, i ribelli nel bunker di Gheddafi

TRIPOLI. Entriamo a Tripoli in un pomeriggio torrido quando il fumo del compound si alza già nero. In strada il richiamo del muezzin si impasta con le raffiche di kalashnikov e le voci dei megafoni che annunciano la presa del simbolo del potere. In tv spopola "Tripoli, ti amo", l´inno dei ribelli libici.
"Tripoli, ti amo follemente. Tripoli, non temere. Speriamo che la vittoria sia vicina». Lungo la strada che porta a Tripoli sui carri armati distrutti nel deserto si leggono le frasi di sei mesi di rivolta: "Game over", "Fuck Gheddafi", "Thanks Sarkozy, Usa e England". I posti di blocco sono sorvegliati da ragazzi imberbi che fanno fatica a sollevare il kalashnikov ma che gridano "Free Libya" e alzano due dita in segno di vittoria.
Bab al-Aziziya è caduta, la cittadella-bunker di Gheddafi è nelle mani degli insorti. Adesso un gruppo di giovani si avventa sulle foto del raìs, qualcuno prende a calci quel che resta dei mobili, delle porte, delle finestre. Said, un ragazzo di nemmeno vent´anni, va verso la telecamera di Al Jazeera e brandisce la testa decapitata di una statua del Colonnello: «Per ora gli abbiamo tagliato questa, presto sarà la testa vera, quella di Gheddafi, a rotolare nella piazza dei nostri martiri».
La città festeggia, qualcuno infrange il Ramadan e mangia frutta prima del tramonto, ma qui, oggi, tutto è permesso. A poche centinaia di metri da Bab al-Aziziya, il giovane Sadir ha preso la piccola telecamera che aveva acquistato un paio di mesi fa in Tunisia e l´ha piazzata sopra il tetto. «Internet funziona, è il primo miracolo da quando ci siamo ripresi la nostra città. E allora voglio mostrare ai miei amici che qui, dopo quarant´anni di dittatura, la gente ha trovato il coraggio di ribellarsi. E finalmente ha vinto». Sadir da qualche giorno ha deciso di non lavorare. «Troppo pericoloso, poi io giro con i camion, capirai...». Adesso ha il soggiorno invaso da inviati di tutto il mondo. Quasi si scusa per quella corrente elettrica che non regge il peso dei computer e lo costringe ogni dieci minuti a collegare i fili con il nastro isolante. «Siete i benvenuti, la mia casa è la vostra casa. La Libia è il vostro Paese, raccontate a tutti quello che siamo stati capaci di fare».
Con la telecamera, Sadir riprende i pick-up dei ribelli con i bazooka che corrono verso il bunker espugnato: "Allah akbar, abbiamo vinto, Dio è grande". A Bab al-Aziziya gli insorti setacciano il compound, cercano il dittatore stanza per stanza. Ma di Gheddafi non c´è traccia. Ed è questo il grande interrogativo nella notte di Tripoli: si potrà parlare di vittoria fino a quando il raìs rimane soltanto un´ombra. Soprattutto il giorno dopo la clamorosa ricomparsa in pubblico di Saif, il figlio prediletto ed erede designato, arrestato dai ribelli ma tornato in libertà in circostanze misteriose. Gli insorti ammettono: «Giovani e inesperti, presi da troppa euforia, si sono lasciati scappare i due figli che erano riusciti ad arrestare, Saif e Mohammed».
Lui, il raìs, è tornato intanto a farsi sentire. Questa volta non ha inviato il solito audio registrato dalle viscere in cui è nascosto ma ha parlato al telefono con il presidente della federazione russa degli scacchi: «Gheddafi è a Tripoli - ha rivelato Kirsan Ilyumzhinov - e combatterà fino alla fine». L´amico calmucco ha dettato alle agenzie che accanto al raìs c´era il figlio maggiore Mohammed, liberato dai lealisti dopo essere stato arresto dagli insorti: «Muammar mi ha detto che è vivo e in salute: «Mi trovo a Tripoli e non intendo lasciare la Libia», le ultime parole prima che la linea si interrompesse. La conferma di quanto, poche ore prima, aveva detto Saif agli inviati "rinchiusi" nell´hotel Rixos, a due passi dal bunker: «Tripoli è ancora sotto il nostro controllo. Abbiamo spezzato la spina dorsale dei ribelli. Mio padre? Naturalmente è in città».
Parole che per qualche ora hanno gelato i rivoltosi ma quasi "dimenticate" dopo la conquista del compound. Anche se, fino all´ultimo, i fedelissimi hanno tentato di difendere il simbolo del potere gheddafiano e nella battaglia violentissima sono rimasti a terra decine di cadaveri. Spari sono sempre più fitti. Alle raffiche dei fucili d´assalto si accompagnano colpi di mortai e delle contraeree. Hadia, 37 anni, insegnante d´arte, porta al polso il bracciale verde, rosso e nero della rivoluzione. Con le cugine ha cucito una grande bandiera con il tricolore della libertà. Il bunker non è certo il posto più sicuro della città, ma Hadia ha tenuto un diario della rivoluzione libica, annotando ogni giorno ciò che accadeva intorno a lei, e vuole vedere tutto. Ora con le cugine più giovani canta Shafshousa Maleshi, mi dispiace parruccone, il grido contro Gheddafi che risuona in tutta Tripoli.
Per tutta la serata, mentre in centro impazzavano i caroselli di auto, i ribelli hanno continuato a saccheggiare l´armeria del bunker portando via molti fucili dei cecchini. Perché sono ancora centinaia gli irriducibili del Colonnello appostati sui tetti delle case e pronti a colpire e uccidere chiunque gli capiti a tiro. La tv degli insorti che ha sede a Doha non smette di ripeterlo: «Tripoli è ancora piena di mercenari, state attenti, la città non è del tutto liberata». «E´ nostra all´80-85 per cento», rimbalzano da Bengasi i capi del governo transitorio. Ma nel caos di queste ore sembra davvero impossibile dare numeri e percentuali. E molti sono scettici anche quando Ibrahim Dabbashi, ambasciatore dei ribelli alle Nazioni Unite, annuncia che «la Libia dovrebbe essere liberata entro le prossime 72 ore».
In un bar di Tajura, a est della capitale, prima di entrare in città un barista aveva avvertito i cronisti: «Non fidatevi mai di chi sventola la bandiera dei ribelli. Magari è una spia di Gheddafi che vuole incastrarvi. Qui è pieno di infami».
Però a tarda sera nessuno ha dubbi quando i colori degli insorti sventolano sulla piazza verde di Tripoli. Per festeggiare i ribelli continuano a sparare raffiche di mitra. L´odore del fumo non si è ancora stemperato. Per strada c´è anche Sadir, con la sua telecamera, a riprendere tutto. «Piazzo tutto su Internet stanotte così i miei cugini che vivono in America possono vedermi esultare. Loro sono fuggiti in tempo, ma magari adesso ritornano».

Meo Ponte, La Repubblica




Giornalisti in trappola all´hotel Rixos "I lealisti ci tengono in ostaggio"
ZARZIS (Tunisia) - Dal tetto del compound di Bab al-Azizya sventola fiera la bandiera dei ribelli, ma l´hotel Rixos che ospita una trentina di giornalisti occidentali accreditati dal regime rischia di diventare una trappola. La battaglia ormai è arrivata persino nella hall, fra gli specchi, i candelieri e le poltrone di vimini dell´angolo di potere più ambito di Tripoli. E il drappello di sopravvissuti è vicino al panico, solamente il corrispondente della Cnn Matthew Chance raccoglie le ultime gocce di freddezza per raccontare di spari all´interno e di giornalisti in fuga nei corridoi, stretti nei giubbotti antiproiettile e costretti a rifugiarsi sul tetto e a sventolare lenzuola per farsi riconoscere come operatori dell´informazione. Dai messaggi su Twitter trapela la paura che i fedelissimi di Muammar Gheddafi possano decidere di prendere i giornalisti come ostaggi. «Vorremmo uscire, ma non possiamo», scrive Chance.
All´inizio della crisi il Rixos era una postazione ideale: un albergo di lusso a due passi dal compound del Colonnello. Nei mesi scorsi il visto che dava la possibilità di arrivare a Tripoli e quindi, necessariamente, di affacciarsi nel patio più desiderato era diventato quasi una barzelletta fra i corrispondenti di guerra stipati al confine di Ras Ajdir. Per chi riusciva a raggiungerlo, quell´hotel sfarzoso era quasi una piccola garanzia di celebrità, quasi come il tetto del Palestine monopolizzato da Peter Arnett durante la guerra del Golfo. Nelle sale dell´hotel i giornalisti potevano mangiare - molto bene, si racconta - fianco a fianco con i maggiorenti del regime, con le loro famiglie, fra funzionari che sussurravano e bambini che correvano in triciclo negli ampi corridoi. Un´ala dell´albergo era stata trasformata in una sorta di «media center», con le stanze tutte occupate dai responsabili della comunicazione e dai giovani militanti della Rivoluzione. Era qui che i giornalisti occidentali subivano gli esami, quando i loro pezzi pubblicati in patria venivano tradotti e discussi dai ragazzi entusiasti del Libretto Verde. Era qui che i fortunati ospiti chiedevano - e a volte ottenevano - di poter visitare la città, guardati a vista da una «guida» attenta ma spesso troppo giovane per essere un controllore davvero invalicabile.
La leggenda vuole che persino Gheddafi a un certo punto abbia scelto il Rixos come residenza provvisoria. E in effetti i testimoni raccontano di un intero corridoio che d´improvviso era stato chiuso agli ospiti «normali», anzi addirittura nascosto da pareti a specchio.
Poi la Jamahiriya del Colonnello ha cominciato a sciogliersi, le bombe della Nato hanno quasi raso al suolo il compound di Bab al-Aziziya. Ma nessuna ha mai colpito l´albergo dei giornalisti.
Qualcuno anzi suggeriva che il Rixos fosse il rifugio più sicuro di tutta la capitale, perché le bombe della Nato, presunte intelligenti, mai avrebbero colpito la postazione delle tv americane.
Ma l´armata rivoluzionaria del Consiglio nazionale di transizione, spalleggiata dall´Alleanza atlantica, appare tutto tranne che organizzata. I ribelli hanno tanto entusiasmo, hanno sicuramente una gran quantità di finanziamenti, ma non sembrano avere un coordinamento adeguato a gestire una battaglia casa per casa senza «danni collaterali». Tanto più che gli scontri finali, per definizione, sono più confusi di qualsiasi altra fase di una guerra. Così ora gli stucchi del Rixos, invece che teatro per gli stand-up come il tetto del Palestine, rischiano di diventare sfondo di una tragedia.


Giampaolo Cadalanu, La Repubblica





Caccia al Colonnello nei tunnel sottoterra

Bab Al Aziziya non è un bunker: è una città sotterranea, ma è anche una dimensione della politica, del potere, della magia nera gheddafiana. «Sindrome di bunkerizzazione progressiva»: nel nido del dittatore, anno dopo anno, le mura si fanno sempre più spesse, il cemento è sempre più blindato, i cunicoli sempre più profondi, le armi più pesanti. Guardie più aggressive, controlli più profondi, i fedeli ammessi a godere del capo sempre più fedeli, o semplicemente più supini. C´è tutta la parabola psicologica, militare e politica di Muhammar Gheddafi nella storia di questo luogo, Bab Al Aziziya, che dalla cronaca sta passando alla storia.
Il Colonnello potrebbe già non essere più lì, una fonte italiana dice che le opzioni sono Algeria oppure Sirte, una tunisina dice che la più probabile è l´Algeria. È possibile quindi che Gheddafi sia già fuggito. Ma se invece è ancora lì, Gheddafi è nascosto in un cunicolo talmente profondo e ben scavato da poter custodire nelle sue viscere non soltanto lui, ma decine dei suoi uomini. Una città parallela, una chilometrica Tripoli sotterranea di cui magari fra qualche giorno vedremo foto e planimetrie. Ma che per ora può riservare ancora sorprese alla Tripoli liberata.
Ieri Seif el Islam, il figlio diplomatico che si è fatto guerriero, ha smentito chi lo dava per arrestato, lanciando proclami a favore del papà: «Gheddafi è a Tripoli, non fuggirà, combatteremo», ha detto comparendo all´improvviso all´Hotel Rixos. E da dove sbucava il giovane delfino? Da uno dei cunicoli blindati che sotto terra si intrecciano nella rete oscura e segreta di gallerie che collegano i luoghi del potere gheddafiano. Il Rixos, l´albergo di lusso costruito dai turchi e venduto agli svizzeri un attimo prima del crollo, è solo uno dei terminali del sistema-Bab Al Aziziya: perché l´apoteosi della "bunkerizzazione progressiva" è stata proprio questa, allargare sotto terra il perimetro del nido, collegarlo con strade e gallerie all´aeroporto, a case sicure, ad alberghi e ministeri.
Un libico bene informato dice che il vero bunker di Gheddafi è sotto il nuovo zoo di Tripoli: i lavori sono andati avanti per mesi, non sono terminati, e per scavare le gabbie delle tigri sono state sbancate tonnellate e tonnellate di terra. Lo zoo in linea d´aria dista poche centinaia di metri dal Rixos, che a sua volta è a poche centinaia di metri da Bab Al Aziziya. Ma i cunicoli vanno avanti per chilometri, il generale ribelle Umar al Hariri dice per 30 chilometri, fino ad aeroporti o basi militari. «Volevano una strada sotterranea percorribile da mezzi militari per fuggire all´aeroporto», dice un ingegnere irlandese. La sua ditta poi non ha vinto il contratto, ma lui crede che la strada sia stata costruita.
Gheddafi ha avuto mille ragioni per indurire il suo bunker: Bab Al Aziziya fu attaccata una prima volta negli anni Settanta da militari ribelli che si appostarono con i kalashnikov nelle palazzine popolari dall´altra parte della strada. I gheddafiani si salvarono a stento, prendendo a cannonate con i carri armati le palazzine, uccidendo naturalmente tutti quelli che erano dentro. La sindrome indusse a costruire più muri perimetrali di cemento armato all´interno della prima cerchia di difesa. E quel primo recinto è stata portato di recente a mura spesse un metro e alte quattro, tutto cemento armato, non attaccabili da terra. La Nato in questi mesi ha dovuto colpire le mura dall´alto per aprire varchi agli invasori.
Poi, nell´86, ci fu il bombardamento dall´aria voluto da Ronald Reagan: e allora ingegneri e manovali puntarono verso il basso, scavando e piazzando cemento armato e lastre d´acciaio a difesa dei saloni sotterranei. L´ultima grande evoluzione, quella che avevamo notato da quando il terrorismo integralista ha iniziato a usare i camion-bomba, erano i posti di blocco esterni con putrelle di cemento e sbarre d´acciaio. In marzo anche i soldati di guardia erano diversi, quasi sembravano soldati americani di una qualsiasi «operazione Desert Storm», gli elmetti in kevlar, giubbotti antiproiettile in ceramica, controllo anti-bomba sotto le auto, metal detector per uomini e cose. Il che significa un´altra cosa: mentre 30 anni fa i bunker venivano costruiti da tecnici jugoslavi e l´addestramento delle guardie era affidato a guardie della Stasi tedesco-orientale, da qualche mese il colonnello aveva assunto consiglieri occidentali, pare anche ex Sas britannici portati in dono da Blair, anche lui a caccia del petrolio libico.
Dietro questa montagna di cemento armato, il Colonnello però ha sempre continuato ad usare la sua tenda. Dentro il grande recinto abbiamo visto seduti Gheddafi e Silvio Berlusconi, affiancati soltanto dall´ambasciatore Gaddur e dal consigliere del cavaliere Cesare Ragaglini: negoziavano l´accordo d´ amicizia firmato poi nel 2008, forse parlavano di un´alleanza petrolifera fra Eni, Lukoil e la Noc libica. Nel compound di Bab el Azizia entravano e uscivano delegazioni e rappresentanze, venivano allestiti banchetti per dignitari e feste beduine per militanti. Venivano siglati capitolati d´appalto e firmate condanne a morte. In queste ore Bab Al Aziziya potrebbe rivelarsi quello che sono diventate tutte le altre linee Maginot quando la politica non capisce più gli affari militari: un semplice bunker inutile a difendere il potere.

Vincenzo Nigro, La Repubblica





"Niente esecuzioni sommarie processeremo Gheddafi Validi tutti i patti con l´Italia"





BENGASI - «Io, nuovo presidente della Libia? Ma vuole scherzare!», si schermisce Mustafa Abdel Jalil, leader del Consiglio nazionale di transizione (Cnt), ossia del governo-ombra di Bengasi che in questi mesi ha amministrato le regioni liberate del Paese. Eppure, tutti vedono in Jalil, 59 anni mal portati, il candidato ideale per guidare la Libia nel dopo regime, vuoi perché già parla da statista, vuoi perché in questi mesi è riuscito a farsi riconoscere come interlocutore legittimo da oltre 30 nazioni. «Se fossi nominato presidente - aggiunge - sarebbe comunque un incarico ad interim, e lo rimarrei soltanto fino alle prossime elezioni, che saranno anche le prime elezioni libere del nostro Paese».
Presidente Jalil, è quasi fatta, la vittoria è a portata di mano. Ma non teme un colpo di coda del Colonnello?
«L´epoca di Gheddafi è finita, anche se tutto si concluderà soltanto con la sua cattura e con la sua condanna per i crimini che ha compiuto. Detto ciò, Tripoli è all´80% sotto il nostro controllo. Restano però ancora sacche di resistenza in città, e una grande concentrazione di truppe nella regione di Sirte, storica roccaforte del raìs».
La Corte penale internazionale dell´Aja attende Saif Al Islam e lo stesso Colonnello all´Aja. Se doveste catturarli, li consegnerete a quei giudici?
«Nelle scorse settimane abbiamo discusso di questa eventualità e l´orientamento prevalente tra i membri del Consiglio nazionale di transizione è stato quello di giudicare il raìs e la sua banda in patria. Con un processo "giusto", s´intende, ma da svolgersi in Libia. Perciò voglio che li prendano vivi e che siano trattati diversamente da come il Colonnello trattava gli avversari. Lui sarà ricordato solo per i crimini, gli arresti e gli assassinii politici che ha compiuto».
Lei ha fatto parte del governo di Gheddafi per oltre trent´anni. Lo scorso febbraio, quando esplose la rivolta, era ancora ministro della Giustizia. Che cosa l´ha spinta a cambiare casacca e a fuggire verso la Cirenaica?
«Mi sono dimesso per la ferocia con cui il Colonnello volle reprimere i moti a Tripoli. Quando ordinò ai soldati di sparare sulla folla disarmata decisi che non avrei ricoperto quell´incarico per un solo giorno ancora. Giunsi dunque a Bengasi e mi misi a disposizione degli insorti».
Due giorni fa, aveva lei stesso annunciato che i figli del Colonnello, Saif Al Islam e Mohammad, era stati arrestati domenica a Tripoli e che si trovavano in mani sicure e sotto il controllo dei vostri uomini. Come mai Saif è rispuntato fuori dal nulla, libero e minaccioso come sempre?
«Avremmo potuto imprigionarli, ma volevamo che fossero trattati bene. I due fratelli erano stati semplicemente messi agli arresti domiciliari».
Dopo 42 anni di un regime così spietato non teme che si saranno vendette, e che per mesi verrà sparso altro sangue in Libia?
«Certo, ho paura che qualcuno possa applicare la legge del taglione, magari chi ha perso un figlio o un fratello nelle galere di Gheddafi. Perciò ho chiesto espressamente ai nostri uomini che in queste ore combattono a Tripoli di risparmiare cose e persone, e soprattutto di non infierire sugli ex nemici. Gli ho detto di non farsi giustizia da soli, e ho anche minacciato le dimissioni se qualcuno non dovesse rispettare queste regole. La "nuova Libia" dovrà essere un Paese diverso dal passato, e fondato sui principi di libertà, uguaglianza, fraternità».
E con le altre nazioni come vi comporterete?
«Voglio confermare che la nuova Libia avrà forti relazioni con gli altri Paesi, basate sul mutuo rispetto e la cooperazione. Saremo un membro effettivo della comunità internazionale e rispetteremo tutti i trattati presi in precedenza. Assicureremo inoltre che in Libia vengano rispettati i diritti umani e lo Stato di diritto, e che il Paese contribuisca a stabilire la pace e la sicurezza internazionali».
Come vi comporterete con l´Italia?
«La Libia del dopo-Gheddafi avrà relazioni speciali con i Paesi che hanno sostenuto la nostra lotta di liberazione dal suo inizio. Tra questi, ovviamente, figura anche l´Italia».
A sentirla parlare della nuova Libia, si direbbe che il Paese diventerà una sorta di paradiso?
«Tra otto mesi si terranno le elezioni legislative, parlamentari e presidenziali. Vogliamo un governo democratico e una Costituzione giusta. Soprattutto, non vogliamo più essere isolati dal mondo come lo siamo stati fino ad ora».
Dopo aver rassegnato le sue dimissioni da ministro della Giustizia, ed esser diventato presidente dell´organo degli insorti, il regime di Tripoli ha messo sulla sua testa una taglia di 300mila euro. Lei ha comunque continuato a lavorare e a viaggiare per il mondo per ottenere la legittimità del Consiglio nazionale di transizione. Sono anche questi i meriti che le riconosce il suo popolo?
«Non lo so. So soltanto di essermi limitato a fare il mio dovere».
Pietro Del Re, La Repubblica

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