domenica 21 agosto 2011

21 Agosto 2011 - Libia


La battaglia arriva a Tripoli
Ultimo assalto al Colonnello

ZAWIYA - Ancora Gheddafi non è caduto, ma già i comandi militari della guerriglia rivoluzionaria pensano a come assicurare la calma quando saranno in controllo di Tripoli. «Una cosa è certa: eviteremo gli errori che commisero gli americani dopo la fuga di Saddam Hussein da Bagdad nell'aprile 2003», sostengono gli ufficiali della Rivoluzione del 17 febbraio incontrati tra le vie devastate dai combattimenti di Zawiya e negli uffici-comando a Zintan, la cittadina dove hanno il loro quartier generale sulle montagne di Nafusa.
Come? Le risposte specifiche sono ovviamente top secret. Nessuno intende rivelare al nemico i piani delle prossime battaglie. Un'operazione comunque complessa. Qualcuno l'ha chiamata «Alba della sposa», dal soprannome della capitale libica «sposa del mare». Un nome aulico per liberare dal dittatore una città di oltre due milioni di abitanti, dove Gheddafi può ancora contare su di un buon numero di fedelissimi: irriducibili sostenuti da tribù importanti che dominano nel centro e nelle regioni meridionali della Libia.
Informazione e propaganda si accavallano in un brusio contraddittorio e caotico, specie in queste ultime ore. Al Jazeera riportava ieri testimonianze da Tripoli su scontri in centro, in piazza Algeria e nei quartieri di Fashlum, Suq al Jumaa e Arada. «L'intifada di Tripoli è iniziata», proclamava l'emittente. In serata, altri reporter hanno confermato di aver udito esplosioni multiple nella capitale. Sparatorie sono state segnalate nel sobborgo orientale di Tagiura. Alcuni tripolini hanno riferito che, mentre folle di oppositori del regime sono uscite in piazza dopo il digiuno, un sms è stato inviato ai cittadini, esortandoli «a scendere in strada per eliminare gli agenti armati» del nemico. Il portavoce del regime, Moussa Ibrahim Gheddafi, ha ammesso scontri «limitati» in alcuni quartieri di Tripoli, aggiungendo che «gli infiltrati» sono stati respinti. L'altra notte la radio dei ribelli aveva annunciato che «circa 10.000 combattenti hanno liberato l'aeroporto internazionale di Tripoli». Ma la tv libica ha mostrato che è nelle mani delle forze lealiste.
A Zintan il portavoce militare del Consiglio rivoluzionario, colonnello Juma Ibrahim, conferma l'importanza della presa di Gharyan, Zlitan, Brega e Zawiya e di larghi tratti di fascia costiera tra Tripoli e il confine con la Tunisia. «Manca poco, forse meno di una settimana - afferma -. Stiamo preparando l'assalto finale su Tripoli. Gheddafi è completamente circondato. Gli attacchi della Nato, assieme alle nostre offensive di terra l'hanno logorato. I suoi soldati hanno il morale a terra, mancano di benzina e munizioni. Non penso abbia armi chimiche. Le avrebbe già usate. Però potrebbe minare Tripoli con gigantesche bombe da 3.000 chili, impegnare cecchini, dissanguarci in estenuanti combattimenti strada per strada, facendosi scudo dei civili». La radio dei ribelli Libya Al Ahrar riferiva ieri voci di una fuga del Raìs con i figli Hannibal e Mutassim. Ma nella notte la tv libica ha mandato in onda un audio di Gheddafi che si congratulava per l'eliminazione dei nemici, «quei topi». «Suo figlio Saif al Islam potrebbe morire combattendo. Ma lui no, è troppo furbo - continua Ibrahim -. Non mi stupirei se, dopo aver incitato i suoi a morire con onore, cercasse di scappare nel deserto verso un Paese africano amico, ne ha tanti a sud del Sahara».
Ecco dunque il piano per tentare la presa il più possibile indolore di Tripoli. Da qualche giorno le unità dei ribelli più prossime mandano avanti i loro uomini che risiedono nella capitale affinché si appostino nelle proprie case. Da Bengasi alcune centinaia di militanti sarebbero arrivati via mare in attesa di ordini. «Saranno i tripolini a liberare per primi i loro quartieri, invitando la popolazione a insorgere e nello stesso tempo cercando di controllare chi vorrà prendersela con i vicini pro-Gheddafi», dice un giovane capitano originario di Tripoli e impegnato a Zawiya. Le sommosse nella capitale tra fine febbraio e marzo erano state sedate nel sangue. Poi si erano riaccese su scala minore. Tra maggio e i primi di giugno i disordini notturni e le schermaglie tra giovani e corpi scelti della polizia erano la norma. Ma poi la repressione era tornata violenta, con agenti e informatori sparpagliati su larga scala, spesso volutamente visibili con l'intento di fungere da deterrente. Ora le manifestazioni urbane dovrebbero congiungersi con le colonne di insorti in arrivo dall'esterno. Ieri si era anche propagata la voce, non confermata in modo indipendente, che dopo un intenso bombardamento Nato sulle mura di cinta del carcere di Abu Selim (un simbolo della ribellione da quando nel 1996 vi furono massacrati circa 1.200 prigionieri politici) i familiari dei detenuti avessero attaccato l'edificio liberando i loro cari.
Viaggiare nelle zone controllate dai ribelli presso Zawiya è ormai meno pericoloso che due giorni fa. «Stiamo ripulendo le postazioni nemiche dai cecchini. Il problema è che ci sono tanti miliziani pro-Gheddafi sbandati ancora ben armati. Sono nascosti tra le case abbandonate, che sono tantissime. Quando può, la popolazione civile fugge», dicono ai posti di blocco sino a Sabratha. Le operazioni più violente sono in corso più a Ovest, verso Zuwara, dove i miliziani pro-Gheddafi sono imprigionati in una grande sacca impossibile da difendere. Ieri nel pomeriggio è intervenuto l'esercito tunisino per fermare quelli in fuga che tentano di sconfinare. I lealisti restano molto più aggressivi a Jaddaym, sulla strada costiera, una decina di chilometri a est di Zawiya: da qui tirano a intermittenza missili Grad verso le zone che hanno appena abbandonato. Il centro di Sabratha porta i segni di incendi e impatti di proiettili di grosso calibro anche nella zona dei giardini pubblici. A Zawiya quasi non c'è palazzo che non sia stato danneggiato.


Corriere della Sera, Lorenzo Cremonesi








Il «tradimento» di Jalloud, ex numero due del regime

Questo ormai è sicuro: Abdel Salam Jalloud ha lasciato la Libia e il Colonnello, di cui fu il grande amico, il compagno di studi e di golpe, il numero 2, il primo ministro, l'inviato nel mondo, e tanto altro. Quasi sicuro è che sia arrivato ieri a Roma, in aereo dall'isola tunisina di Djerba, dopo esser transitato dai ribelli a Zintan: un video girato venerdì nella città libica in mano agli insorti lo mostrava allegro mentre dichiarava che «la libertà è ormai molto vicina». Da lì il confine e Djerba non sono lontani, i media tunisini lo davano ieri in partenza per l'Italia «a bordo di un aereo maltese, con la famiglia». Fonti italiane lo hanno quindi segnalato a Ciampino. E a Roma l'ambasciatore libico Abdulhafez Gaddur confermava che Jalloud in effetti era in arrivo, forse già arrivato.
Si fermano qui le (quasi) certezze sull'uomo che per quasi 25 anni fu il più potente e temuto nella Jamahiriya, dopo il Colonnello ovviamente. E che per altri 19 anni visse in silenzioso confino in una villa di Tripoli, per aver perso il favore di Gheddafi a causa di divergenze politiche, dell'avanzata dei figli del Qaid, dei sospetti di questo sulla fedeltà dell'amico. Resterà a Roma, Jalloud? «Lo attendiamo a Bengasi per una conferenza con Abdel Jalil, il presidente del Consiglio nazionale transitorio», ha dichiarato ieri l'Ufficio d'informazione dello stesso Cnt, a Bengasi. «Questo avrà un effetto dirompente sul morale di molti ufficiali di alto rango e di personalità del regime», ancora fedeli a Gheddafi.
Se Jalloud accetterà l'invito (altre voci lo darebbero in partenza per il Qatar) vorrà dire che l'antica passione politica non si è spenta nei quasi vent'anni di pensione forzata all'ombra del Colonnello. Che un ruolo, anche importante, lo potrebbe ancora giocare nella Nuova Libia. Già il figlio-delfino di Gheddafi, Saif Al Islam, dopo l'inizio della rivolta aveva pensato di offrirgli un'alta carica politica, pur di salvare il regime. Un tentativo di creare un ponte con l'opposizione che però era fallito sul nascere, forse per il no del Qaid, forse per il rifiuto del suo ex primo ministro. Ma ora i giochi sono cambiati.
«Non c'è niente da dire su Abdel Salam Jalloud: aveva lasciato la politica da anni, passava molto tempo all'estero per curarsi, soffre di cuore», ha minimizzato ieri l'agenzia di Tripoli Jana
, ammettendo finalmente la defezione, rivelando viaggi all'estero e malattie che potrebbero essere solo disinformazione. Da Bengasi, il Cnt aggiunge che la fuga di Jalloud ha visto la «collaborazione dell'Italia», che il Consiglio di Bengasi ora «ringrazia». La Farnesina non conferma. Jalloud per ora non parla. La difficoltà di sapere davvero qualcosa, come sempre avviene per la Libia, è immensa. Ma è certo che l'ex numero 2 di Tripoli, almeno in queste ore, è tornato alla ribalta.
Corriere della Sera, Cecilia Zecchinelli


Tra i ribelli della Cirenaica
"Ora il raìs non ha scampo"

TOBRUK - Lo vede già cadavere, appeso a un lampione di Tripoli. Anche se non l'hanno ancora preso. "Non gli abbiamo ancora stretto il cappio attorno al collo, ma è da giorni che m'immagino Gheddafi morto ammazzato", dice il ventitreenne Ibrahim con un sorriso appena accennato e lo sguardo perso nel vuoto, come se pregustasse l'avverarsi di un evento fortemente atteso. Il ragazzo si passa la mano sul cranio rapato a zero, e aggiunge: "Ma non impiccheremo soltanto lui. No: sulla forca finirà tutta la sua maledetta famiglia". Postino prima dei moti di febbraio, durante i quali armato del suo solo coraggio attaccò con una banda di giovanissimi esaltati la caserma di Tobruk, Ibrahim fa oggi parte di una sorta di guardia pretoriana degli insorti della Cirenaica. Per guadagnarsi i galloni, a fine marzo salpò su un guscio di noce dal porto di Bengasi per andare a difendere l'assediata e bombardatissima Misurata.
E' vero, la guerra in Libia vive in queste ore fasi convulse, che preannunciano forse il suo epilogo. Le forze democratiche così come le cancellerie occidentali si dicono certe che il Colonnello stia finalmente per uscire di scena. Confermando l'esistenza di contatti con la cerchia più stretta dei collaboratori del raìs, il presidente del Consiglio nazionale di transizione, Mustafa Abdel Jalil, prevede che la sua fine è vicina, vicinissima, e che sarà certamente "catastrofica", perché Gheddafi lascerà dietro di sé solo caos e anarchia. "Può anche darsi", sbuffa Ibrahim, passandosi nuovamente la mano sulla sua palla da biliardo. "Fatto sta che le città della Tripolitania stanno cadendo tutte, una dopo l'altra: Zawiya, Zlitan e adesso anche Brega. La prossima sarà la capitale". A febbraio, quando l'incontrammo davanti alla caserma ancora fumante della sua città, Ibrahim che allora era ancora crinito di una folta zazzera bruna insistette per mostrarci le stanze dove furono più volte torturati suo padre e suo zio dagli scherani di Gheddafi. "Catastrofica è stata fino ad ora la vita dei libici: il futuro non può che riservarci delle belle sorprese".
Come è già accaduto nei mesi scorsi, questa guerra ancora si combatte a colpi di propaganda. Di una propaganda grossolana. Ed è difficile raccapezzarsi quando si dispone di poche certezze in un mare di illazioni. Come annunciato da Ibrahim, i ribelli hanno affermato ieri di controllare tutta la città di Brega, importante polo petrolifero della Cirenaica, da settimane teatro di violenti scontri con le forze governative, che starebbero ora ritirandosi verso Occidente. Una decina di giorni fa, gli insorti si erano impadroniti della zona residenziale di Brega: da allora hanno avanzato a passo di lumaca, incontrando la forte resistenza dei soldati lealisti nascosti nelle infrastrutture industriali abbandonate. "Vuole sapere perché abbiamo impiegato così tanto per conquistarla? Perché i gheddafisti hanno infarcito le loro linee di ragazzi molto giovani, e noi non spariamo sui bambini", s'inalbera Ibrahim. "E preferisco tacere sulle perdite tra i nostri ranghi causate dalle mine piazzate dai soldati del regime". Poche ore dopo, il portavoce militare degli insorti, colonnello Ahmed Omar Bani, dichiarerà che intensi bombardamenti delle forze governative li hanno costretti a lasciare l'area industriale. "Una ritirata strategica", per evitare ulteriori danni alle infrastrutture petrolifere e per risparmiare vite dei combattenti.
Chiediamo allora a Ibrahim delle altre due città strappate alle truppe regolari, Zawiya e Zlitan, obiettivi fondamentali nell'avanzata verso la capitale. Sostiene il ragazzo: "Sì, abbiamo liberato Zawiya, ultimo dei principali ostacoli per avanzare verso Tripoli da Ovest. La sua raffineria è inoltre la sola fonte di combustibile per la capitale che dunque potrebbe rimanere senza rifornimenti". Quanto a Zlitan, che dista 150 chilometri da Tripoli, si combatte ancora, sebbene gli insorti occupino adesso tutti i suoi punti strategici.
Dicevamo dell'infinità di notizie difficilmente verificabili, quasi assordanti, che si sovrappongono appena entri in Libia. Una, giunta ieri mattina tramite la stazione radio Libya Hurra di Misurata, annunciava che gli insorti controllano adesso perfino l'aeroporto internazionale di Tripoli e che stanno avanzando verso il centro della città per occupare la radiotelevisione. Ma è lo stesso Ibrahim a non crederci: "Sarebbe troppo bello. Detto ciò, ci sono adesso migliaia i combattenti impegnati nella battaglia di Tripoli. Si tratta di intere colonne di giovani soldati, che stavolta sono bene irreggimentati e non, come a febbraio e marzo, sparsi come cani sciolti con la vocazione del martirio". La televisione Al Arabiya, che è stata vicina agli insorti fin dall'inizio della rivolta, ha riportato ieri il poetico nome dell'offensiva sulla capitale: "Alba della sposa del mare", dove la "sposa" è appunto Tripoli.
Intanto, all'Hotel Hasdrubal di Hammamet sarebbe già pronta una lussuosa suite con vista sul golfo Cap Bon, che fonti dell'intelligence americana indicano come possibile prima tappa dell'esilio di Gheddafi, prima che ripari in Venezuela dall'amico Hugo Chavez. Altre fonti statunitensi ritengono però che il Colonnello non lascerà la Libia, ma al contrario combatterà fino alla fine, organizzando un'ultima resistenza dalle sue roccaforti attorno alla capitale. Se così fosse, il macabro sogno di Ibrahim potrebbe davvero avverarsi.

La Repubblica, Pietro Del Re


IL RISCHIO DI UNA FINE CATASTROFICA

È giunta l´undicesima ora per Gheddafi? Gli insorti libici annunciano di aver dato il via all´operazione "Alba della sposa del mare", ovvero la conquista di Tripoli, la battaglia finale per la caduta del Colonnello.
Che questa sia l´obiettivo dei "bengasini" è indubbio; che si tratti di un´avanzata senza ostacoli è altro conto. Come dimostrano gli ultimi rivolgimenti sul fronte di Brega, città spesso simbolo dell´anabasi degli insorti. Il tempo di Gheddafi sembra, comunque, contato. Più che la situazione militare sul terreno, sono le continue defezioni. Le più fresche: quelle del ministro per le risorse energetiche, Omran Abu Kraa, presidente della Noc, la compagnia petrolifera statale di Tripoli. E quella di Abdel Jalloud, a lungo numero due del regime. Caduto in disgrazia, dal 1990 Jalloud non aveva più ricoperto alcun incarico ufficiale. Era definitivamente fuori dal gioco dopo che Gheddafi lo aveva accusato di essere silente complice del tentato colpo di Stato del 1993, orchestrato da giovani ufficiali dell´esercito membri della potente tribù dei Warfalla. Tribù di grande peso numerico e prestigio, che si considerava protettrice di quella dei Ghaddafa, alla quale appartiene il Colonnello e che forniva il maggior numero di effettivi all´esercito. In quel tentativo, originato dall´annoso e mai risolto problema libico, ovvero la redistribuzione del potere e delle risorse nel sistema tribale, i Warfalla avrebbero avuto l´appoggio dei Magariha, la tribù di Jalloud. Ora Jalloud è fuggito in Tunisia e poi, da lì a Roma, per poi dirigersi forse in Qatar. Una fuga che il regime liquida con sufficienza, puntualizzando che Jalloud avrebbe "abbandonato la politica volontariamente". Il regime precisa che l´ex-premier ha trascorso buona parte del suo tempo all´estero per curarsi. Liquidandone sprezzantemente il ruolo nella storia della Jamahirya.
Ma che farà Gheddafi di fronte alla prospettiva della battaglia finale? Nonostante il mandato d´arresto della Corte penale internazionale molti, tra gli stessi insorti e nei Paesi occidentali che con la Libia hanno avuto stretti rapporti negli ultimi anni, preferirebbero che il Colonnello andasse in esilio. Meglio in Venezuela che in Tunisia, in un Paese africano piuttosto che in un altro Paese arabo. In cambio del prezzo del silenzio. Così gli stessi membri del Consiglio nazionale transitorio, fanno sapere che, di fronte a un volontario e pubblico abbandono del potere, potrebbero anche considerare una simile ipotesi.
Ma nel cupio dissolvi che sembra sottrarlo anche alle pressioni del resto della famiglia, il Colonnello potrebbe essere intenzionato a fare di Tripoli la sua Berlino 1945. Una scelta che rende plausibile quella fine che il presidente del Cnt Mustafa Abdel Jalil prevede "catastrofica" per lui e i suoi. Come se, scegliendo l´epilogo tragico, il Colonnello volesse ancora una volta ricordare al mondo che, senza di lui, la Libia non sarà più tale. Una battaglia quella per Tripoli che, semmai ci fosse, rischia di ipotecare a lungo il futuro del Paese. Per le profonde ferite che rischia di provocare in un contesto frammentato da fratture etniche e tribali. Evitare che le ultime, drammatiche, volontà di Gheddafi si compiano, diventerebbe a quel punto un imperativo politico oltre che umano.
La Repubblica, Renzo Guolo


La trincea, l'esilio la pallottola d'argento Tre vie per Gheddafi

Sei mesi fa. Il destino di Gheddafi sembrava segnato: si parlava dell'esilio o della sua uccisione. Invece il colonnello ha resistito. Sei mesi dopo. Gli oppositori infiltrano uomini a Tripoli e prevedono una «fine catastrofica» per il dittatore mentre, nella notte, si rincorrono le voci su una sua fuga con i figli Hannibal e Mutassem. E gli scenari si ripropongono.
Resistere fino all'ultimo
L'intelligence Usa è convinta che Gheddafi non voglia piegarsi. Combatterà fino all'ultimo e morirà sul suolo libico. Per dimostrare davvero di essere stato il Qaid, la Guida. A sua disposizione c'è quello che resta della trentaduesima brigata, gruppi di mercenari e miliziani provenienti dalla tribù Qaddafa e da quelle alleate. Tre i capisaldi: Tripoli, la città natale di Sirte e l'oasi di Sebha, nel Sud. La difesa ravvicinata è assicurata dagli «uomini della prima fila», soldati arruolati fin da piccoli e diventati i «giannizzeri» del potere. Se gli insorti volessero mettere le mani su Gheddafi dovrebbero superare questo cerchio di sicurezza. Il colonnello conta ancora sul consenso di quanti hanno da perdere da un cambio di potere o non si fidano dei ribelli. Fino a poche settimane fa si diceva che Gheddafi avesse ancora un largo seguito. Difficile valutarlo. Molti starebbero aspettando di vedere come va a finire.
Certo è che la fuga di Abdel Salam Jalloud e del ministro del Petrolio Omran Abukraa sono segnali di un progressivo disfacimento. Al fianco del capo restano il ministro degli Esteri, Abdel Ati Al Obeidi — il protagonista del riavvicinamento con l'Occidente — e il premier Ali Al Mahmoudi, uno degli ultimi «uomini della tenda». Definizione che indica chi ha libero accesso alla tenda di Muammar. Importanti, ovviamente, i figli del colonnello. In particolare Khamis — sempre che sia ancora vivo —, Mutassim, Saif al Islam e Aisha. I primi due per il ruolo militare, gli altri due quali combattivi portavoce. La tesi della resistenza a oltranza troverebbe appoggi nelle condizioni del despota: malato, non lo si vede più in giro da tre mesi, vuole morire con la spada in mano.
Il negoziato
L'ala più responsabile dell'opposizione vorrebbe evitare la marcia su Tripoli. La pensa così anche la Nato. Troppe incognite, c'è il rischio di un massacro. Vi sono componenti poco controllabili. Come «l'esercito del sudario», gruppo comparso il 12 agosto in un video. Vestiti di bianco, i guerriglieri inneggiano al martirio e sembrano ispirarsi al qaedismo. Meglio allora trovare una soluzione negoziata con Gheddafi che, in cambio di un salvacondotto, lascia il Paese. In tanti ci lavorano. L'Italia lo ha fatto in passato, ora sono molto attivi i russi e i sudafricani. Anche i cinesi sono favorevoli. Il colonnello potrebbe raggiungere il Venezuela — due giorni fa tutto era pronto — o il Sudafrica, Paese dove Seif al Islam ha trasferito somme consistenti (almeno 250 milioni di dollari). Fonti arabe hanno aggiunto che Gheddafi in persona avrebbe fatto sondaggi in Marocco, Algeria, Tunisia ed Egitto per trovare ospitalità alla moglie Safia, alla figlia Aisha, a nuore e nipoti. Un altro canale è stato aperto dai ribelli con il premier Al Mahmoudi. È un fedelissimo di Gheddafi e potrebbe essere ascoltato. C'è l'ostacolo del mandato di cattura internazionale contro il leader libico, ma potrebbe essere superato in modo pragmatico. Non lo eseguono. In teoria, questa via d'uscita sembra la più facile. E in questi mesi è apparsa a portata di mano. Ma alla fine Muammar ha sempre detto no. Ecco perché gli avversari e la diplomazia sperano che i figli — l'ultima carta — convincano il padre a partire.
La pallottola d'argento
È l'ipotesi sognata da molti. Gheddafi viene eliminato — la pallottola d'argento, la chiamano — da qualcuno dell'entourage. Una guardia del corpo, uno dei pochi gerarchi rimasti al suo fianco. Qualcuno che ha accesso al suo nascondiglio e lo uccide. Oppure lo arrestano e lo spediscono all'estero o ne favoriscono la partenza (come con il tunisino Ben Ali). Si è anche parlato di un esilio «interno», con il capo rinchiuso in una villa (stile Mubarak). A questo punto si apre un dialogo che porta a una transizione del potere. Un percorso che è solo un inizio e non una fine. Con molti dubbi. Gli oppositori non sono compatti. Quelli dell'Ovest, a cominciare dai berberi, possono vantare maggiori meriti. La misteriosa uccisione del generale Abdel Fattah Younis è la conferma di contrasti che possono spaccare i nemici del colonnello. Il cammino intrapreso quest'inverno a Bengasi è ancora lungo.
Corriere della Sera, Farid Adly

Nessun commento:

Posta un commento