sabato 27 agosto 2011

27 Agosto - Libia

"Gheddafi è a Sirte dentro un bunker" la Nato bombarda la città del Colonnello

Brega. Avanzano lentamente, simili a ciclopici coleotteri di ferro, i pochi carri armati di cui dispone l´esercito delle forze democratiche di Bengasi. Questi che sfilano quasi arrancando al check-point di Brega erano gli ultimi rimasti a difesa della capitale della Cirenaica. Ma il comando militare degli insorti ha deciso di muovere anch´essi verso Sirte, baluardo delle truppe lealiste.
È a Sirte che, a sentire l´Eliseo, Muhammar Gheddafi si sarebbe rifugiato nelle ultime ore mischiandosi tra gli uomini della sua tribù, fedelissimi alleati che lo sostengono e lo proteggono da 42 anni.
Altissimi in cielo, luccicano puntini d´argento, quasi impossibili da scorgere come stelle in pieno giorno. Sono i Tornado britannici che, dopo aver lanciato nella notte scorsa i loro missili di precisione sul vasto complesso fortificato della città dove il Colonnello vide la luce, sorvolano adesso l´ampio "fronte orientale", per incutere coraggio, se mai ve ne fosse bisogno, agli shabab, i giovani combattenti di Bengasi. «Stanno facendo un po´ di pulizia», dice il portavoce del Consiglio nazionale di transizione, Ahmed Omar Bani. «Stasera (oggi per chi legge, ndr) o al massimo domattina attacchiamo. Stiamo aspettando il via da parte dei nostri che si sono infiltrati nella città del raìs». Ma gli insorti aspettano forse il calar del sole, e l´arrivo della "Notte del Destino", che precede il 27esimo giorno di Ramadan, in cui è detto che tutti i sogni si realizzano, che per molti libici significa soltanto catturare il Colonnello.
È dunque pronta l´offensiva verso Sirte. La città è stata circondata da un paio di giorni da un migliaio di shabab, i quali dovranno sfondare il muro delle più agguerrite truppe lealiste della Libia, forti queste di 1500 soldati. Ora, anche se negli ultimi due mesi i giovani bengasini sono stati addestrati alla guerra da istruttori italiani, inglesi e americani, i militari del Colonnello sono per lo più miliziani di lunga esperienza, e per i quali quella che sta per scoppiare sarà davvero l´ultima battaglia. Tra di loro ci sono sia gli uomini di ruolo nelle caserme di Sirte, sia tutti quelli che lì hanno riparato dopo le ultime sconfitte, in Tripolitania ma anche nel contesissimo porto petrolifero di Brega.
L´importanza che riveste per loro la difesa dell´ultima roccaforte è dimostrata dalla testardaggine con cui hanno rifiutato ogni proposta di negoziato avanzata nelle scorse ore dal comando di Bengasi per evitare combattimenti e ulteriori spargimenti di sangue, e l´accanimento con il quale continuano a sparare razzi Grad contro gli assalitori. Il generale degli insorti Omar Bukatif aveva chiesto all´esercito governativo di consentire che almeno le donne, i vecchi e i bambini potessero lasciare Sirte. Ma il suo omologo lealista gli ha retoricamente risposto che questi avrebbero combattuto al loro fianco, e che mai avrebbero abbandonato la loro città. «Sono parole vuote, come le loro minacce: i lealisti, adesso che cominciamo a conoscerli, non ci fanno davvero più paura», riprende Bani. «Ci vorranno al massimo tre giorni per conquistare Sirte».
Intanto, al check-point di Brega, approntato un paio di giorni di fa per fermare i giornalisti e gli shabab non irreggimentati, perché poco lontano si continua a combattere aspramente, continuano a passare Toyota cariche di armi e di uomini sorridenti. È forse giunta fino a loro la notizia che Gheddafi potrebbe nascondersi a poche decine di chilometri da lì. Prima del quotidiano Le Parisien, che ieri riprendeva la supposizione di fonti vicine al presidente Nicolas Sarkozy quanto al ritorno del Colonnello tra la tribù a lui più fedele, la stessa ipotesi era stata ventilata due giorni fa a Roma da Abdessalam Jalloud, ex numero due del regime.
Ieri pomeriggio anche il ministro degli Esteri Franco Frattini ha dichiarato che sulla presenza di Gheddafi a Sirte «ci sono seri indizi, che vanno ben al di là di un semplice sospetto». Il titolare della Farnesina ha spiegato che questi indizi derivano da quello che hanno dichiarato coloro che si trovano lì. Infatti, qualcuno avrebbe visto il raìs aggirarsi per le strade della sua città. «Mi pare evidente che se le azioni si stanno concentrando su Sirte, che è una delle poche aree libiche ancora non recuperate alla libertà da Consiglio nazionale di transizione, ciò faccia pensare che ci possa essere un serio indizio sulla presenza di Gheddafi in loco». Ma il motivo più evidente è forse un altro: l´accanimento della difesa delle truppe lealiste, anche dopo la promessa di immunità formulata ieri dal leader delle forze democratiche libiche, Mustafa Abdel Jalil, il quale ha dichiarato che nel Paese «c´è spazio per tutti, a condizione che le armi tacciano immediatamente e si cerchi ricostruire tutti assieme il nostro futuro». Tuttavia, secondo il ministro della Giustizia di Bengasi, Mohammed al-Alaqi, Gheddafi si nasconderebbe in un quartiere di Tripoli, circondato dagli insorti.
Fermiamo uno shabab in mimetica e con occhiali di marca. Si chiama Ahmed. Prima della rivolta di febbraio gestiva assieme al fratello una boutique di abbigliamento. Gli chiediamo se è d´accordo, una volta catturato Gheddafi, di spedirlo all´Aja perché venga giudicato dalla Corte internazionale. Risponde Ahmed: «No, perché sarebbe un´ammissione di impotenza. E poi credo che la nuova Libia sarà un Paese democratico, e quindi in grado di processare anche il peggiore dei criminali». Difficile dargli torto.
Pietro Del Re, La Repubblica

Le ragazze di Ghiran che fanno la rivoluzione con le loro canzoni

TRIPOLI - Le ragazze della rivoluzione si incontrano all´incrocio del quartiere di Ghiran, nella parte ovest della città. Ogni sera dopo l´iftar, la cena del Ramadan. Asma, 30 anni, porta il tamburo con cui sua madre accompagnava le canzoni tradizionali. La sua amica le poesie che ha appena scritto e il registratore con l´incisione del nuovo inno nazionale. La più piccola del gruppo ha appena tredici anni e si avvolge nel tricolore rosso, verde e nero ricavato da tre sciarpe.
Sono una ventina le ragazze di Ghiran che si radunano per cantare gli inni vecchi e nuovi della rivoluzione davanti alle finestre dei ultimi sostenitori di Gheddafi nel rione. Come le sorelle Aisha e Najat che, durante il regime, arrivarono a denunciare come «anti-governativo» il marito della terza sorella che era venuta a far loro visita per presentarglielo. Da quando è scoppiata la rivoluzione le due sorelle lealiste sono uscite di casa una sola volta e per andare dagli Abougascia, un´altra famiglia lealista che abita in fondo alla strada. «Uno dei figli ha ucciso un uomo anni fa e senza motivo ma è stato in prigione per soli tre giorni. Il padre era ben inserito con il regime. Diceva di conoscere il libretto verde a memoria. Il cognato delle due sorelle invece è sparito senza aver fatto nulla», dice Asma.
Le ragazze della rivoluzione non vogliono vendette ma solo poter dimostrare che ora non si deve più tacere, che si può dire quello che si vuole, che il tempo di Gheddafi è finito. La fanno cantando la sera davanti alle porte sbarrate di chi invece è ancora disperatamente fedele al raìs. Intonano il nuovo inno nazionale che poi è quello che si cantava dopo la colonizzazione e che Gheddafi aveva soppresso appena al potere. Non erano nemmeno nate quando in Libia risuonavano quelle note ma le hanno imparate a memoria e ora le cantano insieme ai nuovi slogan e a canzoni nate poche settimane fa. Come quella composta per i ragazzi del quartiere che sono morti nelle prime battaglie e che recita: "Il nostro paese ci chiamava e noi abbiamo risposto all´appello. Mamma non piangere che mio fratello un martire. Ha risposto all´appello per salvare il paese e il nostro popolo…".
Le più amate però sono quelle scritte con una rabbiosa ironia come quella composta sull´onda dell´indignazione per uno dei discorsi di Gheddafi nei primi giorni della rivoluzione. «Parlando in tv aveva detto di essere amato ovunque nel paese e nel mondo e aveva chiesto ai rivoluzionari chi erano. Ricordo bene quella domanda: "Chi siete voi?". Gli abbiamo risposto con una canzone che cita tutte le città che si sono rivoltate contro di lui…», spiega Asma. E ora le ragazze della rivoluzione cantano: "Non sai chi siamo noi? Noi siamo cavalieri non topi come ci hai chiamato tu, noi siamo quelli di Misurata che ti hanno rotto il naso, noi siamo Nalut e Zawria che ti faranno mangiare la morte, noi siamo Felan che tu, fifone, hai circondato per paura…".
Le ragazze di Ghiran quattro giorni fa hanno iniziato a cantare a Tajura, una città poco lontana da Tripoli che lentamente è stata fagocitata dall´espansione della capitale diventandone un fashloum, un quartiere. «A Tajura sono sempre stati più liberi che in qualsiasi parte di Tripoli» spiega l´amica di Asma. Lì hanno urlato a squarciagola e sino allo sfinimento Shaeshoufa maleshi, ci dispiace ricciolone, uno slogan che fa riferimento alla capigliatura del raìs e che è il più in voga ora tra i ragazzi. E poi quando la rivoluzione è gradatamente arrivata sino alla piazza Verde sono andate a cantare negli altri quartieri.
L´altra sera erano di fronte alle finestre della famiglia Abougascia, rigorosamente sbarrate. Con Asma e le amiche c´erano anche bimbi e mamme, ragazzi appena tornati dal fronte di Abousalim con le canne degli Ak 47 ancora calde. Hanno cantato e ballato, urlato Shaeshoufa maleshi mentre i giovani towar sparavano in aria qualche breve raffica e guardavano i traccianti rossi attraversare il cielo buio. Da dietro le finestre chiuse e illuminate dalla luce fioca originata dal generatore nessun commento. Solo una frase sfuggita per l´esasperazione prima di spegnere anche l´ultimo lumicino: «Scimmie». Stasera le ragazze della rivoluzione canteranno ancora. L´appuntamento è all´incrocio di Ghiran.
Meo Ponte, La Repubblica

Tripoli prega fra le macerie "Allah, aiutaci a essere liberi"

TRIPOLI - Sul muro bianco la scritta con la vernice spray rossa salta subito all´occhio: «We know how to make freedom», Sappiamo come si fa la libertà. Sulla strada centrale del quartiere di Fashtoom, il primo a ribellarsi contro Gheddafi, i guerriglieri adolescenti agitano come un giocattolo il kalashnikov scrostato che li fa sentire adulti. Alla rotonda, i resti di una Bmw bruciata costringono a un giro largo. Il paesaggio è quello di Blade Runner: bidoni incendiati ancora fumanti, aiuole rovesciate, ovunque rifiuti. Finestre chiuse, porte sbarrate. E posti di blocco con miliziani giovanissimi ogni 150 metri. I muri continuano a gridare: «Vai via», oppure: «17/2/2011, viva la rivoluzione», ma anche: «Fashtoom free» e «Gheddafi ebreo». Nelle vie accanto, la bandiera sventola ancora sull´ambasciata del Sudafrica, senza un graffio. E lo stesso vale per un paio di rappresentanze europee. Poco più avanti, la grande residenza dell´ambasciatore italiano esternamente appare sfregiata solo dagli insulti spray rivolti al raìs. Ma all´angolo, prima dei palazzi di Tv Jamahiriya, le tracce dei bombardamenti Nato sono ben evidenti: due edifici rasi al suolo, erano «della sicurezza», cioè sedi di servizi statali vicini al regime.
Al venerdì mattina le strade di Tripoli sono deserte. È il momento della preghiera, non importa per quale fazione si combatta: il richiamo del muezzin si diffonde dai quartieri della zona costiera, controllata dai ribelli, fin lontano verso sud, nelle aree in mano ai fedelissimi del colonnello. Gli uni come gli altri rispettano il dovere da buoni musulmani. A combattere si riprende più tardi. Persino la piazza Verde appare vuota. C´è solo qualche bambina in hijab che si affretta verso casa, e i segni evidenti dell´euforia collettiva: le strisciate delle macchine usate nei caroselli, bossoli di ogni calibro e numerose pallottole, in genere intere, a indicare che sono state usate per sparare contro le stelle, nella gioia per la conquista della città.
Ma che Tripoli sia davvero in mano ai ribelli per ora sembra solo un´illusione. Dare ascolto alle rivendicazioni dei combattenti di una parte o dell´altra è tempo perso: già nei giorni scorsi le dichiarazioni baldanzose del Consiglio Nazionale di Transizione hanno dimostrato una credibilità simile a quelle del regime, cioè molto modesta. Persino il New York Times teorizza che siano dichiarazioni bugiarde, ad uso e consumo dei militanti. Insomma, un modo per dire: avanti, ché alla vittoria finale manca poco. Per i ribelli, la capitale è presa; per gli altri, è solo un momento di difficoltà. I primi ammettono che ci sono "sacche di resistenza" ma assicurano che saranno annientate presto. In realtà, la stessa testimonianza dei giornalisti rapiti, in mano ai lealisti per un giorno intero, smentisce la leggenda: la zona ancora controllata dai fedelissimi è vasta, quartieri interi continuano ad innalzare la bandiera verde ed esibire i ritratti del raìs.
Una ricostruzione possibile potrebbe essere questa: in mano ai ribelli c´è senz´altro la zona costiera, con il porto, la Piazza Verde, la città vecchia. Questa fascia si estende fin verso Ovest. La strada per Zawiya è controllata ogni 500 metri da miliziani e sbarrata spesso da giganteschi blocchi di cemento, a forma di "X" ma tridimensionali, come cavalli di Frisia: sono quelli normalmente usati nei porti come frangiflutti, qui adoperati dai guerriglieri per rallentare il traffico e tenere sotto controllo chi arriva.
In mano ai lealisti resta per il momento la zona sud: i quartieri sotto la strada che va verso l´aeroporto, la zona di Abu Salim e Bab el Aziziya, con il compound governativo, il centro commerciale di Aisha Gheddafi e la blindatissima caserma delle truppe scelte, la guardia personale del colonnello. Giovedì i ribelli sono riusciti a buttar giù un cancello corazzato del compound, usando un bulldozer dopo un inutile assalto a forza di granate Rpg: secondo il racconto di un testimone diretto, sono riusciti ad attraversare il compound da una parte all´altra, senza resistenza. Ma si tratterebbe comunque dell´anello esterno: la caserma dei fedelissimi sarebbe ancora fuori portata, per il momento.
Nell´ospedale di Abu Salim sono stati ritrovati almeno duecento cadaveri: la struttura era rimasta isolata per una settimana perché i cecchini tenevano a distanza tutti, compresi medici e infermieri. Così i pazienti sono morti di stenti, abbandonati al loro destino.
Il fronte passa dunque vicino all´aeroporto, colpito ieri dall´artiglieria dei lealisti. La strategia dei fedelissimi sembra abbastanza chiara: "tenere" verso sud vuol dire assicurarsi una possibile via d´uscita verso le zone più vicine al vecchio regime, anche quando le possibilità di rovesciare le sorti dello scontro si assottigliano. In altre parole: la resistenza dei governativi è ancora fortissima, ma non per una fedeltà tribale ormai indebolita, quanto per mancanza di scelta. Questa è una guerra civile, non uno scontro fra gentiluomini. Per i gheddafiani si sa, basta vedere la bestiale esecuzione a freddo dell´autista dei giornalisti italiani, colpevole di arrivare dalla città sbagliata e di aiutare gli stranieri. Ma anche dall´altra parte si ragiona allo stesso modo. Un giovane fotografo italiano ha ripreso i corpi dei lealisti abbattuti dai ribelli, nel pieno centro di Tripoli. Le immagini sono riprese da lontano, ma comunque si vede con chiarezza: i combattenti uccisi avevano le mani legate dietro la schiena. In Libia, in questi giorni, non si fanno prigionieri.

Naím: "Un governo forte dopo Gheddafi anche all´Italia serve una Libia stabile"

NEW YORK - «Il grande interrogativo oggi è questo: se la lezione che l´Occidente ha imparato durante la rivolta in Libia potrà servire anche dopo, se il successo contro il regime è il preludio a un successo nel dopo-Gheddafi, perché è questo che conta. La questione è cruciale per l´Italia perché nessun altro paese può beneficiare quanto il vostro, da una Libia stabile». Chi parla è Moisés Naím, uno dei massimi esperti di geopolitica e strategie internazionali, da sempre attento in modo particolare alle questioni energetiche e all´evoluzione dei paesi produttori di petrolio. Fondatore della rivista Foreign Policy, oggi impegnato come Senior Associate al Carnegie Endowment di Washington, Naìm affronta in questa intervista a Repubblica le questioni aperte a Tripoli e in tutto il mondo arabo.
Sei mesi per abbattere un regime durato 42 anni: fin qui il bilancio dell´intervento occidentale a sostegno della rivolta libica non è poi così male, avevano torto i critici di Barack Obama e della sua linea "soft"?
«L´Occidente, e anzitutto gli Stati Uniti, hanno applicato le lezioni dolorose che erano state apprese in Iraq e in Afghanistan. In Libia la strategia è stata ben diversa rispetto ai casi precedenti caratterizzati dall´uso massiccio e permanente della forza militare. Obama ha fatto bene a lasciare che alcuni paesi europei assumessero un ruolo di punta, ha avuto ragione lui a dispetto di chi ironizzava su quel modo di "dirigere dalle retrovie". Stati Uniti, Nato, paesi europei hanno fatto di tutto per dimostrare che quella libica è una rivolta nazionale, non ha nulla a che vedere con presunte mire imperialistiche dell´Occidente né tantomeno con la questione israelo-palestinese».
Questo relativo successo può essere replicato anche nel "dopo"?
«È questo il punto. La lezione dell´Iraq e dell´Afghanistan diventa ancora più importante adesso. Bisogna evitare che la Libia precipiti in una violenta anarchia, impedire una contro-rivoluzione, scongiurare l´emergere di correnti nazionalistiche anti-occidentali. E minimizzare l´influenza di agenti esterni: Al Qaeda o l´Iran. Infine occorre creare condizioni per un dinamismo economico, la ripresa dell´occupazione, il che implica la costruzione di un governo forte. È il paradosso delle dittature: dietro di sé lasciano uno Stato debole, paesi senza istituzioni, senza una società civile dinamica, senza un esercito e una polizia che non siano i pretoriani del tiranno. Il grande interrogativo, oggi, è se i libici sapranno creare le condizioni per una convergenza e uno sforzo di unità nazionale».
Può cambiare qualcosa nel ruolo della Libia sul mercato petrolifero mondiale? Possono cambiare le alleanze, i rapporti storici con i paesi clienti?
«Anzitutto è chiaro che la Libia resterà un petro-Stato, come durante il regime di Gheddafi. La sua vocazione economica è determinata da fattori che vanno oltre la natura del governo: le geologia, la geografia, la storia. Il peso delle infrastrutture già esistenti ha un´influenza determinante anche sulle strategie future, e questo crea un vantaggio indubbio per l´Italia. È proprio l´Italia il paese che avrà più da guadagnare da una Libia stabile».
Le vicende dell´intervento Nato però hanno creato qualche timore sui rapporti futuri Italia-Libia. Francia e Inghilterra si sono mosse con più decisione, senza ambiguità né tentennamenti, con una chiara scelta di campo fin dall´inizio in favore del Cnt. Sarkozy e Cameron potranno insidiare il ruolo politico e le quote di business energetico dell´Italia?
«Io penso all´Italia del dopo-Berlusconi. Non c´è dubbio che i legami storici tra Italia e Libia possono essere danneggiati, distorti o troncati per ragioni di politica interna inerenti ai due paesi. Non bisogna però minimizzare il peso dell´eredità storica, non sarà facile per la Francia e la Gran Bretagna sostituirsi alla rete di contatti costruiti negli anni dalle imprese italiane come l´Eni».
Alla luce degli eventi in Libia, come va aggiornato il bilancio provvisorio del grande sommovimento cominciato a Tunisi e al Cairo, la cosiddetta primavera araba che ormai volge verso l´autunno?
«Siamo ancora al prologo di una storia lunghissima. Il fatto che in molti paesi arabi i venerdì di preghiera siano diventati degli appuntamenti di protesta, può generare un miraggio: l´illusione che siamo di fronte a un solo movimento, una sola causa, quindi un solo risultato. L´effetto-contagio è reale, ma ogni paese ha caratteristiche diverse, il modo in cui è caduto Ben Ali non è lo stesso di Mubarak né Gheddafi».
Dunque è prematura l´analogia con l´89 nell´Est europeo, la speranza che l´intero mondo arabo si evolva verso la democrazia e un atteggiamento filo-occidentale?
«L´evoluzione democratica è una speranza, è una possibilità, è uno scenario: ma non è l´unico. Se ai governi autoritari dovesse seguire un periodo di anarchia o instabilità, insicurezza, violenza o crisi economica, le popolazioni di quell´area potrebbero riscoprire appetiti autoritari. I cittadini in rivolta contro i tiranni vogliono libertà, ma chiedono anche di non morire quando escono per strada, o di non essere impoveriti dalla stagnazione economica».
Dipenderà anche da noi? È tempo di realizzare il piano Marshall per il Nordafrica, che Obama lanciò al G8 di Deauville?
«Noi dobbiamo fare tutto il possibile perché l´evoluzione di quei paesi avvenga in senso democratico, però non illudiamoci che tutto dipenda da noi. È una pericolosa illusione, pensare che le riforme istituzionali ed economiche in un paese come l´Egitto possano accadere come conseguenza di un piano del G8. Tra l´altro non c´è nessun segno che i paesi del G8 sappiano come si modernizzano le economie sottosviluppate. Quei paesi poveri che si sono trasformati in potenze emergenti, lo devono anzitutto alle loro classi dirigenti. Gli aiuti servono, ma un paese come la Libia ha ricchezze proprie, non sono i capitali che le mancano. Per determinare il futuro di quell´area conta più il Cairo di Bruxelles».
Federico Rampini, La Repubblica

Aguzzino del raìs, eroe dei ribelli il doppio gioco di Ben Jumaa

NEW YORK - L´aguzzino di Muhammar Gheddafi era l´eroe dei ribelli. Di giorno compilava le liste dei rivoluzionari da schiacciare. Di notte tramava con i compagni carbonari. Sembra una storia da romanzo d´altri tempi quella di Ben Jumaa: il moschettiere del re che in gran segreto tramava per la rivoluzione. E invece è la fotografia di questa Libia ancora appesa tra passato e futuro.
Ben Jumaa non è solo. Dietro di lui c´è una caterva di militari e funzionari passati armi e bagagli col nuovo che avanza: di battaglia in battaglia. Ma forse nessuno si è mai trovato a giocare il doppio ruolo in una maniera così pericolosamente spregiudicata. «Sì, ho diretto uno degli strumenti più oppressivi del governo di Gheddafi» confessa adesso al Wall Street Journal. «Ma nello stesso tempo ho cercato di fare di tutto perché questa rivoluzione finalmente riuscisse».
La storia di Jumaa è la speranza della Libia: che il passaggio cioè dal regime alla democrazia non venga ostacolato dalle élite fedeli al vecchio raìs, così com´era successo per esempio nell´Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein. Ma la sua incredibile vicenda aiuta anche a spiegare come sia stato possibile che i ribelli siano potuti entrare a Tripoli senza trovare grandissima resistenza. Proprio grazie alle porte aperte dagli uomini come Jumaa: raccolti in una vera e propria organizzazione clandestina. Una ventina di "consigli" diffusi per tutta la capitale: ciascuno guidato da un anonimo carbonaro. E tutti rispondenti al Consiglio di transizione nazionale (Cnt).
La fuga dal regime di Jumaa è maturata lentamente. L´uomo faceva parte di uno dei comandi di sicurezza più vicini al Colonnello. Conosceva i piani per piegare gli insorti. Era anzi incaricato di raccogliere informazioni su di loro. Che però utilizzava all´incontrario: per invitare i ribelli a evitare i blitz degli squadroni della morte.
La situazione è cominciata a precipitare a febbraio. Mentre tutto il paese si sollevava era proprio la capitale a cadere sotto il pugno di ferro di Gheddafi. La repressione spietata ha spinto gente come Jumaa a farsi più prudente. «La regola generale era dotarsi di un nome di battaglia» racconta Jamal Derwish Boulsayn, un uomo d´affari che ha raggiunto anche lui la carboneria degli insorti, raccogliendo una trentina di persone nella sua casa di Souq al Jouma. «La segretezza è stata fondamentale: l´unico modo per evitare di rivelare i nomi nel caso qualcuno fosse preso. Ma anche per difendersi dall´intrusione delle spie».
E già: spie nell´organizzazione delle spie. Ben Jumaa ha incominciato a capirlo sulla propria pelle. A marzo il regime spegne Internet e accelera sulla repressione. L´aguzzino doppiogiochista "accelera" anche lui: le sue segnalazioni aiutano decine di rivoltosi a mettersi in salvo. Ma la sua attività comincia a suscitare qualche sospetto. All´inizio di agosto è lui a ricevere, a sua volta, una soffiata. È un amico, anche lui con le mani ancora in pasta nel regime ma già in contatto con i ribelli: ho visto il tuo nome sulla lista delle persone da arrestare. Sono le 11 di sera quando Ben mette la famiglia in auto e scappa. Tante vite salvate hanno salvato la sua. Alle 4 del mattino gli uomini di Gheddafi fanno irruzione a casa: tra le mani un ordine di arresto come quelli che lui stesso aveva redatto fino a poche ore prima.
La battaglia non è finita. Con la famiglia in salvo in Tunisia, Jumaa raggiunge finalmente la resistenza. Ma l´addio a Tripoli dura poco. Quando i ribelli avanzano, pochi giorni fa, tra quelle colonne c´è anche lui. Ha già rimesso in piedi il vecchio gruppo. La nuova Libia nasce anche così: col doppiogioco di un aguzzino diventato eroe.
Angelo Aquaro, La Repubblica

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