lunedì 22 agosto 2011

TRIPOLI SI E' LIBERATA DAL TIRANNO



Strana guerra senza vincitori

Se la guerra di Libia come sembra è terminata, sappiamo chi l'ha perduta: il Colonnello, il suo clan familiare, i profittatori del regime, le tribù alleate, gli amici internazionali che hanno scommesso sulla sua vittoria. Non sappiamo invece chi l'ha vinta. I ribelli hanno combattuto coraggiosamente, ma sono una forza raffazzonata composta all'inizio da qualche nucleo islamista, senussiti della Cirenaica, nostalgici del regno di Idris, una pattuglia democratica. Le loro file si sono ingrossate quando l'intervento della Nato è sembrato garantire una vittoria sicura. Ma il fatto che molti notabili siano stati alla finestra per parecchi mesi e abbiano cambiato campo soltanto nelle ultime settimane dimostra che il risultato della partita era incerto e che nella migliore delle ipotesi il Paese sarà governato da una coalizione di opportunisti post-gheddafiani, lungamente complici di colui che ha dominato la Libia per 42 anni.
Hanno vinto gli uomini di Stato occidentali che hanno voluto l'intervento militare? Il presidente francese aveva due obiettivi. Sperava, in primo luogo, di oscurare con un rapido successo politico-militare l'imbarazzante ricordo delle sue amicizie egiziane e tunisine. E contava di diventare il partner privilegiato della maggiore potenza petrolifera dell'Africa settentrionale. Dopo una guerra molto più lunga del previsto, Nicolas Sarkozy constaterà probabilmente che un Paese distrutto e ingovernabile è il peggiore dei partner possibili. Il primo ministro britannico ha obbedito a una sorta di tic imperiale e ha oggi altre gatte da pelare. Barack Obama non crede che la vicenda libica possa giovare alla sua rielezione e ha fatto un passo indietro non appena l'operazione è diventata troppo lunga e complicata.
Ha vinto la Nato? I suoi portavoce sosterranno che il suo ruolo è stato decisivo. Ma ha vinto, tecnicamente, soltanto per evitare che la sua uscita di campo, dopo il fallimento dell'operazione umanitaria e lo stravolgimento degli scopi iniziali dell'intervento, divenisse agli occhi del mondo la prova della sua impotenza. Qualcuno prima o dopo si chiederà se la maggiore alleanza militare del mondo abbia interesse a spendere tempo e denaro per installare al potere un partito di cui ignora la composizione e i programmi.
L'incertezza del risultato raggiunto in Libia avrà l'effetto di rendere ancora meno efficace la politica dell'Europa e degli Stati Uniti in Africa del Nord e nel Levante.
Di fronte a una transizione che si sta rivelando ovunque incerta e laboriosa, l'Occidente ha bruciato ormai la carta estrema dell'intervento militare. La Fratellanza musulmana in Egitto, Bashar Al Assad in Siria, gli Hezbollah in Libano, Ali Abdullah Saleh nello Yemen, Omar Al Bashir in Sudan e naturalmente Mahmud Ahmadinejad in Iran sanno che l'Occidente, assorbito dalle sue crisi economiche e finanziarie, potrà soltanto predicare democrazia e minacciare sanzioni: due armi che si sono dimostrate quasi sempre spuntate.
Sergio Romano, Corriere della Sera

“La città brucia con il suo raìs”



Tutto, o quasi tutto, è crollato come un castello di sabbia. Con un´avanzata lampo, i ribelli hanno sfondato senza incontrare una seria resistenza “l´anello d´acciaio” destinato a difendere Tripoli, e sono entrati nei quartieri occidentali della metropoli, acclamati dalla popolazione. Alcune pattuglie hanno raggiunto la piazza Verde, quella dei grandi comizi del rais, dove c´era una folla entusiasta ad accoglierle, ma anche sparute unità governative pronte a combattere. E infatti si è acceso uno scontro a fuoco. A tarda notte una contabilità approssimativa dava centotrenta morti nell´insieme della capitale. Un figlio del rais, il preferito, quello che doveva succedergli, il secondogenito Saif el-Islam, è stato catturato. Il regime di Muhammar Gheddafi è ormai agonizzante. Sembra barricato nella parte orientale di Tripoli, dove i ribelli dovrebbero scontrarsi con i reparti più agguerriti, nel caso questi non si disperdessero come le truppe destinate a difendere la città. Ma lui, Gheddafi, non è rassegnato alla resa resa. Al contrario i suoi messaggi trasmessi per telefono sono stati diffusi con insistenza da radio e televisione. E definivano i ribelli «topi che scendono dalla montagna» ; e l´offensiva in corso una semplice mascherata. Il suo sarcasmo risuonava come un´eruzione di collera. Di rabbia. Ma non di disperazione. I suoi inviti alla resistenza si sono ripetuti nella notte con toni ancora più fermi: «Se il popolo non si difende Tripoli sarà distrutta». Il rais braccato, umiliato, sconfitto nella sua capitale non ha perduto la grinta. Una grinta sconfinante nell´irresponsabilità. Mentre si spara, si combatte per le strade della sua capitale, lui ha tutta l´aria di voler vendere a caro prezzo insieme alla propria pelle anche quella dei suoi fedeli, e più in generale del suo popolo. Che per la verità acclamava i ribelli vincitori, come avevano acclamato lui per quarant´anni. Mentre una battaglia decisiva era in corso il colonnello diceva che non si sarebbe mai arreso e annunciava che« Tripoli brucerà». Più cauto era il suo portavoce, Mussa Ibrahim, di solito intransigente e fedele interprete della fermezza del capo. Mussa Ibrahim in un´improvvisata conferenza stampa all´Hotel Rixos, dove alloggiano i corrispondenti stranieri, si dichiarava pronto a negoziare con i ribelli.
Anche se non del tutto conquistata dai nemici, Gheddafi ha perduto la sua capitale. Ma in una società tribale non saper perdere e trascinare la propria gente in una sanguinosa sconfitta, può essere una dimostrazione di coraggio. Una prova estrema per un rais che vuole restare nelle memorie. Alla società tribale Gheddafi si è del resto richiamato spesso negli ultimi tempi, al fine di spiegare a suo modo le cause della guerra civile, per lui non riducibile allo scontro tra dittatura e desiderio di libertà, ma a una lotta tra clan. Clan etnici passati dalle tende del deserto ai grattacieli del petrolio, ma sempre immersi in rivalità e vendette. Richiamandosi alla società libica originaria, Gheddafi ha annunciato un inevitabile finale tragico, nel rispetto dell´onore della tribù. È quello che sta accadendo in queste ore. Nei quarant´anni di potere ha spesso sfidato la morte, sempre assistito dalla «baraka», la fortuna che accompagna i guerrieri nella tradizione magrebina.
Ma dov´è adesso lui, il rais, mentre il laccio si stringe? È da tempo che non si mostra, e questo ha indotto a pensare che fosse già lontano, in un luogo sicuro. Lui ha sentito il sospetto, si è inorgoglito e ha subito giurato di essere sul posto. Non è sulle mura della città assediata con la spada in pugno, ma rintanato in un bunker. Un bunker nella Tripoli che comincia a bruciare? Alcuni pensano che scortato dai reparti fedeli egli stia ripiegando nel deserto, dove potrebbe continuare la resistenza e soprattutto evitare di apparire davanti a un tribunale internazionale. Mentre si spara per le strade è in corso una gara per diffondere false notizie, che rendono difficile fare un esatto ritratto della situazione. Quella di Gheddafi in fuga nel deserto, seguito dai fedeli, è una di quelle voci. Dichiarandosi pronto a negoziare, Mussa Ibrahim, il suo portavoce, prenderebbe tempo. Me nel frattempo sono atterrati due jet sudafricani su una pista dell´aeroporto di Tripoli. E allora si è pensato che il rais ha forse un´altra meta.
L´attesa implosione del regime sembra comunque avvenuta, vista la scarsa resistenza opposta finora dai reparti ritenuti legati per la vita e la morte al rais. Negli ultimi decenni la solidarietà tribale si è frantumata con l´inurbamento dei beduini, e ha risentito della miracolosa crescita dei redditi dovuta al petrolio. Ma attorno al rais si erano saldati interessi e fedeltà che spesso ricalcavano le vecchie alleanze etniche. E poi c´era la storica rivalità tra Tripolitania e Cirenaica, accompagnata dal timore di inevitabili regolamenti di conti. Il regime ha fatto migliaia di vittime, e altrettante vendette erano e sono in attesa.
Non solo gli insorti sono arrivati sulla Piazza Verde, ma altri reparti convergono rapidamente sulla capitale arrivando da est, da sud, da ovest. Ed anche dal mare, da nord, poiché imbarcazioni con uomini armati sono salpate dal porto di Misurata e sono arrivate sulle spiagge della capitale. La capitale era ritenuta ben armata e capace di reagire con forza a qualsiasi tipo di aggressione. Era in realtà come in preda a un´ipnosi, dopo quarant´anni di potere gheddafiano. E ieri sera si è risvegliata. Decine di migliaia di kalashnikov erano state distribuite alle famiglie giudicate sicure, in ogni quartiere. E il richiamo al patriottismo sollecitato dalla propaganda contro l´aggressione degli stranieri, avidi di petrolio libico, non sembrava caduto nel vuoto. Inducevano a crederlo le imponenti manifestazioni di piazza, anche recenti, senz´altro organizzate dal regime con pretesti e forti pressioni, ma non del tutto prive di spontaneo nazionalismo. Gli esperti occidentali (americani, francesi, inglesi, ed anche italiani, quest´ultimi veterani di Libia) non hanno calcolato questa reazione patriottica che Gheddafi ha saputo più imporre che ispirare.
La conquista da parte dei ribelli di Zawiya, città sulla strada diretta al confine occidentale, è stata decisiva. La via attraverso la quale arrivavano i rifornimenti, dall´acqua minerale alla benzina, dal cous cous ai montoni, è stata interrotta. E subito la Tunisia, dalla quale partivano quei prodotti che facevano vivere Tripoli, ha disconosciuto il regime di Gheddafi e ha riconosciuto quello di Bengazi. Se non era più in grado di garantire alla sua gente i generi di prima necessità, neppure la luce elettrica, il rais era destinato alla sconfitta. La fulminea decisione del governo di Tunisi, presa subito dopo la conquista di Zawiyha, è stata dettata da un freddo realismo. Ha avuto il valore del rintocco di una campana che annuncia una morte imminente.
Quando l´ho attraversata, per andare e ritornare da Tripoli, Zawiyha mostrava i segni delle numerose battaglia tra ribelli e lealisti. Tutti sapevano che l´andamento del conflitto dipendeva da quella modesta e contesa località, che ospita un´importante raffineria. Là i ribelli hanno cominciato a radunare la «Brigata Tripoli», composta di mille insorti destinati a investire e controllare la capitale. Si sono addestrati nella città occidentale di Nalut e sono entrati in azione prima del previsto, aiutati da una sorprendente situazione che li ha portati fino nel cuore di Tripoli, nel giro di poche ore. E senza sparare troppi colpi di fucile o raffiche di kalashnikov.
La Nato, l´Onu, e in generale tutte le capitali impegnate nel conflitto, temevano che la caduta di Gheddafi avvenisse con un massacro, si concludesse in un bagno di sangue. Il rischio sussiste. Un colpo di mano che esautori il rais, lo mandi in esilio, e avvii trattative con il Consiglio nazionale di transizione, installato a Bengasi, sarebbe una soluzione ideale. Qualcosa di simile si sta realizzando. Poiché Gheddafi è introvabile ma senza, almeno per ora, una difesa efficace. Molti operano in queste ore per rendere possibile quel colpo di ano. Ma i tempi sembrano ormai scaduti e i capi dell´insurrezione, benché riconosciuti ormai da mezzo mondo come rappresentati di un potere legittimo, stentano a gestire una situazione esplosiva. Essi non controllano tutte le forze armate in campo nelle zone liberate. Gli elementi islamisti, presi in un primo tempo alla sprovvista dalla rivolta, si sono organizzati, si sono dotati di mezzi svaligiando i magazzini del nuovo esercito, e rifiutano ad esempio di combattere sotto la bandiera degli «infedeli», cioé della Nato, dichiarandosi pronti ad occuparsi soltanto di problemi di sicurezza interna.
È il caso della Brigata Abu Ubaidah bin Jarrah, i cui capi potrebbero non essere estranei all´uccisione del generale Abdul Fatah Yunis, comandante delle nuove forze armate ribelli ed ex ministro degli interni di Gheddafi. In quest´ultima veste Yunis ha perseguitato gli islamisti, che si sarebbero vendicati. Il capo di un´altra formazione islamista, la Brigata dei martiti del 17 febbraio, è il religioso Ismail el-Sallabi. Il quale sostiene che Yunis sia stato ucciso da agenti provenienti da Tripoli e infiltratisi a Bengazi. Altri pensano che Yunis fosse una spia di Gheddafi e che la Cia l´abbia soppresso. Tante sono le versioni sull´assassinio, ma il risultato immediato è stato il crollo del governo. Per dissipare i sospetti, Abdel Mustafa Jalil, presidente del Consiglio nazionale di transizione, ha costretto alle dimissioni tutti i ministri, ad eccezione di Mahmud Jibril, il primo ministro. Mentre ci si prepara a una decisiva battaglia per Tripoli, nella Libia libera, a Bengazi, si teme che un giorno si arrivi a un conflitto tra forze laiche e forze islamiste. Ed è già bizzarro che con quest´ultime abbia cercato di avere buoni rapporti Saif al-Islam, uno dei figli di Gheddafi arrestati ieri sera. In una intervista al New York Times Saif ha detto che la Libia dopo Gheddafi dovrebbe essere uno Stato islamico. Insomma, il futuro, vicino e remoto, è piuttosto torbido.



La Repubblica 22.08.11, Bernardo Valli




I ribelli a Tripoli, il regime crolla








I ribelli entrano a Tripoli crolla il regime di Gheddafi "Presi tre figli 

del Colonnello"

RAS AJDIR (Confine fra libia e tunisia) - Osama sorride quando finisce di parlare al telefono. E´ fuggito sei mesi fa da Tripoli dopo cinque anni al servizio di Saif Al Islam, secondogenito ed erede designato del Colonnello come factotum (interprete, chaperon, guida nei viaggi all´estero) e ora qui sulla linea di confine con la Tunisia ha appena saputo da suo fratello rimasto in Libia che i ribelli sono nella piazza Verde, il simbolo del regime di Gheddafi. «Hanno arrestato Saif Al Islam - dice Osama che ora vuol fare l´imprenditore - meglio così, meglio arrestato che ucciso. Lo odio ma non voglio la sua morte…».
La conferma ufficiale del crollo del regime in questo sabato di Ramadan arriva poco dopo quando Mustafa Abdel Jalil, presidente del Consiglio Nazionale Transitorio, il fronte rivoluzionario che sei mesi fa si è sollevato contro Gheddafi annuncia alle telecamere di Al Jazeera: «Tripoli è nostra, Gheddafi è finito…». Finito ma non preso. Forse il Colonnello, presagendo il crollo, ha preso il largo da giorni. Ha lasciato un ultimo messaggio video però: mentre le truppe degli insorti entrano a Tripoli accolte festosamente come liberatori lui esorta i miliziani: «Salvate Tripoli dalla distruzione». Un appello che ora suona come una beffa: Gheddafi ha dipinto i ribelli come drogati, come membri di Al Qaeda ma quando le loro colonne entrano a Tripoli la popolazione li accoglie come liberatori. Le voci si inseguono mentre il regime pare sgretolarsi pezzo dopo pezzo. Il Consiglio Nazionale Transitorio annuncia anche la cattura di altri figli di Gheddafi, i capi ribelli giurano di aver arrestato Khamis, dopo la bruciante della 32ma brigata da lui comandata e considerata la forza d´elite dell´esercito libico. E´ stato probabilmente proprio il colpo inferto alla 32ma a mandare a gambe all´aria il regime. La breccia nelle difese gheddafiane si è infatti aperta nel pomeriggio. I ribelli sono arrivati da ovest, dalla strada di Zawiya, hanno assaltato la caserma della 32ma e hanno vinto. In serata si sparge la voce dell´arresto degli altri figli del Colonnello: di Saadi che per qualche tempo ha goduto di una certa celebrità anche in Italia che piccandosi di essere un campione del calcio era riuscito a giocare, grazie ai soldi del padre, nel Perugia, nell´Udinese e nella Sampdoria senza però lasciare segni nella storia dello sport, e di Muhammad il figlio maggiore.
Il colpo definitivo dei ribelli al colonnello è arrivato con un´azione probabilmente studiata con cura e di certo concordata con le Forze della Coalizione che hanno appoggiato l´attacco terrestre dal cielo con le loro aviazioni. Mentre Gheddafi esortava ancora alla resistenza con un video che annunciava l´incendio di Tripoli e alcuni suoi miliziani sparavano raffiche di rabbia contro l´hotel Rixos che ospita gran parte della stampa internazionale persino la guardia di sicurezza del raìs, gli scherani più fedeli, gettava le armi di fronte agli insorti. E nel frattempo, Ibrahim Mussa, il portavoce del governo libico, lanciava un appello alla «sospensione delle operazioni su Tripoli». «Vogliamo i negoziati».
L´attacco a Tripoli d´altronde è arrivato da più parti. Nei giorni scorsi il Consiglio Nazionale Transitorio aveva fatto affluire in città molti dei suoi uomini che avevano il compito di agire da quinta colonna. Contemporaneamente ieri da Misurata sono partiti i barchini dell´Operazione Sirena portando da mare truppe fresche. Infine l´attacco definitivo e irresistibile dall´ovest, con le «tecniche», pick up su cui i ribelli hanno montato mitragliatrici pesanti sull´esempio delle bande di Mogadiscio e del Madhi Army dell´iman Moqtada Sadr in Iraq. E già in serata Anwar Fekim, un leader dei ribelli, poteva dire: «Il regime è finito, abbiamo voci da parte di persone molte vicine al raìs che ormai nessuno ha più il coraggio di nascondere la sconfitta…».
Ieri sera, ancor prima di mezzanotte, il regime del Rais è quindi crollato. Dopo sei mesi di combattimenti il bilancio è pesante. Fonti autorevoli hanno stimato che i caduti siano più di trecento e che il numero dei feriti superi i mille. Da entrambe le parti. Nella sola giornata di ieri gli insorti ammettono di aver avuto almeno cento caduti. Resta il mistero della fine del Rais. Mentre i suoi figli sono in manette lui pare scomparso. Nella notte ieri, mentre nelle piazze di Tripoli e Bengasi la popolazione festeggiava la fine del regime all´aeroporto della capitale libica sono atterrati improvvisamente due aerei del Sudafrica. Ricordando il legame tra il vicepresidente sudafricano Jacob Zuma e il Colonnello Gheddafi qualcuno ha ipotizzato che i due veivoli fossero arrivati per portare in salvo un passeggero di lusso come il Raìs.
Dagli Stati Uniti a Gran Bretagna, Francia, Italia, le reazioni internazionali all´ingresso degli insorti a Tripoli sono unanimi: Gheddafi deve arrendersi e andarsene. Gli Stati Uniti, ha riferito il dipartimento di Stato, assistono con favore all´offensiva finale a Tripoli e invitano gli insorti a pensare da subito alla Libia senza il Colonnello perché «i suoi giorni a capo del Paese sono contati».
La fine è molto prossima, ha dichiarato Downing Street, mentre per il presidente francese Nicolas Sarkozy «non c´è più alcun dubbio» che la fine del regime sia arrivata. Il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini ha chiesto che il Colonnello «si arrenda e abbandoni il potere», mentre il ministro della Difesa Ignazio La Russa ha insistito: «Mi auguro che Gheddafi accolga l´invito degli insorti a lasciare il Paese. Adesso ha le spalle al muro».

La Repubblica, Meo Ponte














L´avvocato eroe, la città martire i sei mesi di bombardamenti che cambiano la storia del regime






Ha regnato più a lungo. E per questo ha resistito, ha ucciso, è stato capace di combattere più a lungo. Ma alla fine sei mesi di guerra sono bastati per cancellare di fatto il più spietato dei dittatori del Mediterraneo. Da ieri Muhammar Gheddafi, dopo 41 anni di dittatura, dopo 185 giorni di guerra, non è più capo della Libia.
Non è ancora finita, non è chiaro se Tripoli nei prossimi giorni vedrà ancora morte e orrore, combattimenti e tradimenti. Non si può prevedere poi quale sarà la capacità dei ribelli di controllare la città e il paese intero. Ma ormai la Tripoli percorsa dagli insorti non è più la capitale del regno del terrore di Muhammar Gheddafi. «È stato il terrore che ci ha paralizzato per anni è anni: ed è la volontà di sconfiggere il terrore che ci darà il coraggio di conquistare la nostra libertà»: sono le parole di Fethi Tarbel, il giovane avvocato che in Libia è diventato la scintilla della protesta. Da anni, a Bengasi, Fethi Tarbel, aveva iniziato a chiedere giustizia per le vittime del massacro di Abu Slim, duemila morti trucidati in 3 giorni in un carcere di Tripoli. Il 15 febbraio la polizia libica va a casa di Fethi, lo arresta alla vigilia del 17 febbraio che era stato proclamato "giorno della rabbia" contro il regime Gheddafi. Speravano così di fermare in anticipo la rivolta, di limitare il contagio tunisino ed egiziano. E invece così gli uomini di Gheddafi diedero un motivo in più alla rivolta per diventare immediatamente insurrezione armata.
In poche ore le proteste, i disordini che seguirono all´arresto di Fethi si trasformano in una sommossa: a Bengasi, Tobruk, in tutta la Cirenaica i manifestanti immediatamente assaltano caserme e depositi di armi, si impossessano di Kalashnikov, artiglierie contraeree, saccheggiano i depositi di munizioni. In poche ore, in pochi giorni, la rivolta divampa e si propaga come fuoco nella prateria. «Quella settimana abbiamo avuto davvero paura, terrore», ci diceva la sera del 24 marzo Seif Gheddafi all´hotel Rixos di Tripoli. Solo un mese prima, il 24 febbraio, la rivolta era arrivata addirittura a Misurata, la terza città del Paese. Diventerà uno dei simboli del martirio libico, città massacrata in un assedio spietato e sanguinario durato fino alla fine di maggio.
La reazione sanguinaria dell´esercito di Gheddafi porta già il 26 febbraio l´Onu a votare le prime sanzioni contro la famiglia Gheddafi, a bloccare beni ed esportazioni di petrolio. Ancora nessuna minaccia di uso della forza, perché nessuno immagina ancora cosa stia per ordinare Gheddafi. Il 5 marzo, quando a Bengasi i ribelli formano il Consiglio Nazionale Transitorio e si dichiarano unico rappresentante legale del popolo libico, loro sì che sanno cosa sta per scatenare Gheddafi. Una vera e propria pulizia etnica fatta contro il suo stesso popolo. Il presidente francese Sarkozy a questo punto sceglie l´azzardo, la scommessa che ha reso possibile al mondo di correre in sostegno ai ribelli di Libia: la Francia il 10 marzo, senza consultarsi con nessuno, riconosce il Cnt come unico rappresentante del popolo libico, e soprattutto avvia un forcing politico e diplomatico incredibile per far votare all´Onu una risoluzione che consenta l´uso delle armi contro il colonnello.
Sarà una corsa contro il tempo, il 16 marzo Seif Gheddafi dichiara anche a Repubblica e ai giornali italiani che «in 48 ore tutto sarà finito, i nostri carri armati libereranno Bengasi dai terroristi». L´Onu esita ancora, Cina e Russia si oppongono, ma il colonnello in persona darà agli indecisi la spinta finale a votargli contro: il 17 marzo l´Onu autorizza l´uso della forza dopo un discorso in cui Gheddafi dice ai ribelli «vi verremo a prendere strada per strada, casa per casa, stanza per stanza, vi spazzeremo via come ratti».
Ancora poche ore e il 19 marzo iniziano gli attacchi, dopo un summit internazionale convocato da Sarkozy a Parigi a cui Berlusconi è costretto a partecipare a forza da Gianni Letta, Franco Frattini e dalle pressioni del Quirinale. I primi raid aerei francesi e inglesi bloccano i carri armati libici che hanno già iniziato sparare sulle case di Bengasi.
In pochi giorni i raid danno tempo ai ribelli di radunarsi e riprendersi, alla coalizione si affiancano due stati arabi come il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti, mentre il 29 a Londra 40 governi convocano la prima conferenza per iniziare a gestire la guerra e pensare anche al dopo-guerra.
Il primo a capire come sarebbe finita è Moussa Koussa: l´ex capo dei servizi segreti di Gheddafi, il principe del tagliagole di Tripoli, da un paio di anni era diventato il ministro degli Esteri del regime. Il 30 marzo, a poche ore dall´ultima apparizione in pubblico a Tripoli, Koussa scompare, defeziona, abbandona Gheddafi e si rifugia in Qatar.
Poche settimane ancora e il 30 maggio compare a Roma Shukry Ghanem, potente ministro del Petrolio di Gheddafi, amico dell´italiano Paolo Scaroni, grande conoscitore delle logiche del potere e del petrolio. Quando in marzo lo avevamo incontrato nella sede vetro e cemento della Noc, l´Eni libica, gli avevamo chiesto se sapeva che inevitabilmente sarebbe finito anche lui sulla lista nera dell´Onu, nell´elenco degli sconfitti. «Si, lo so, sono sicuro che lo faranno, vedremo cosa fare. «, aveva risposto sorridendo. Come lui, uno dopo l´altro, avevano abbandonato Tripoli i più intelligenti e accorti fra i ministri e i generali di Gheddafi.
Il tempo scorre, le battaglie si susseguono incessanti, sembra quasi che Gheddafi sia destinato a resistere per sempre nel suo ridotto di Tripoli, della Libia occidentale. Ma non è così: poco alla volta i governi alleati scongelano i fondi che servono ai ribelli per finanziare la guerra e mandare avanti il paese.
Arrivano armi e istruttori, francesi, qatarini, anche italiani.
L´Aise riesce a entrare in contatto con i ribelli delle Montagne occidentali, quelli che l´altro ieri hanno portato fuori dalla Libia Abdessalam Jallud e che ieri sono entrati a Tripoli assieme ai commandos sbarcati via mare da Misurata.
È il 27 giugno la data in cui l´Onu chiude un´altra porta alle spalle di Gheddafi: fino ad allora il mandato d´arresto della Corte penate internazionale era stato tenuto in sospeso, per permettere al colonnello e ai suoi una via di fuga che evitasse lo scontro finale. Da quel giorno Muhammar Gheddafi, Saif e il capo dei servizi Abdullah Senussi sono ricercati con l´accusa di crimini di guerra.
Inizia un lungo periodo di stallo militare in cui però i ribelli avanzano poderosamente sul fronte politico e diplomatico: violando quasi le loro stesse leggi interne, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Turchia e perfino la piccola e terrorizzabile Tunisia (da parte di Gheddafi) uno alla volta riconoscono il Cnt di Bengasi come unico governo di Libia.
Il 16 luglio nell´isola di Djerba due diplomatici americani danno l´ultimo messaggio a Gheddafi: dimettiti, vattene entro tre giorni oppure aiuteremo i ribelli ad arrivare a Tripoli. Dicono che il capo di gabinetto di Gheddafi, il fedelissimo inviato a negoziare con gli americani, quel giorno fosse stato tentato di rimanersene in Tunisia: il colonnello però gli aveva già fatto arrestare la famiglia prima di partire.
I giorni finali di Gheddafi sono conosciuti: la trattativa diplomatica avanza disperata, tutti i governi della coalizione alleata ma anche Russia e Cina fidano che l´inviato dell´Onu, il giordano al Khatib, faccia il miracolo. Convinca il colonnello a mollare. Non ci riesce: e allora la Nato attacca ancora più a fondo, il 30 luglio vengono colpiti i ripetitori della tv libica, muoiono anche alcuni tecnici. Su Tripoli la valanga di fuoco non ha più ritegno.
I Mirage francesi e i Tornado britannici aprono la strada ai ribelli che arrivano da Ovest, da Sud e anche da Est, sbarcando dal mare. In marzo, attraversando Tripoli, avevamo visto che Gheddafi aveva fatto piazzare postazioni di artiglieria sul lungomare, proprio per evitare possibili sbarchi. Non è servito a nulla, la Nato ha colpito tutti i suoi cannoni, ha portato i ribelli fin dentro il cuore di Tripoli. Forse la battaglia di Tripoli non è ancora terminata, ma Muhammar Gheddafi dopo 41 anni e 6 mesi è finito.

La Repubblica, Vincenzo Nigro








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