venerdì 26 agosto 2011

LIBIA


Battaglia nel deserto di Sirte

BENGASI - Infuria la battaglia del deserto attorno a Sirte, città natale di Muhammar Gheddafi e sua ultima roccaforte, ma anche a Ben Jawad e nel porto petrolifero di Ras Lanuf. Sul cosiddetto "fronte orientale" si combatte aspramente da due giorni, da quando gli insorti hanno riconquistato Brega e lentamente ripreso la loro marcia verso Tripoli. Tuttavia, prima di raggiungere la capitale, dovranno superare uno scoglio duro, durissimo: Sirte, appunto, dove in questi giorni ha riparato buona parte delle truppe lealiste, che sono i soldati sconfitti non solo attorno a quelle sabbie, ma anche in buona parte della Tripolitania. E proprio Sirte, ieri sera, sarebbe stata nel mirino della Nato che, secondo l´emittente libica Al Uruba, schierata dalla parte del regime, avrebbe bombardato a lungo gli schieramenti lealisti.
Questo porto è situato quasi a metà strada tra Tripoli (da cui dista 450 chilometri) e Bengasi (che si trova 550 chilometri più a Nord-Ovest), e fu qui, in una tenda nel vicino deserto, che vide la luce Gheddafi, probabilmente nel 1942. Nessuno è certo dell´anno preciso, perché prima del 1950 in Libia non era obbligatorio denunciare le nascite. Attorno a Sirte vive la sua tribù, che lo protegge e lo sostiene, ricambiata, da più di quattro decenni. Non è un caso che il suo ultimo, farneticante messaggio audio per "sconfiggere il nemico", quello lanciato ieri dalla rete televisiva Al-Uruba, il raìs l´abbia indirizzato proprio alla popolazione di Sirte.
È lei che al momento blocca con una resistenza che gli insorti hanno definito "inattesa" la loro marcia verso la capitale. «Siamo sorpresi, credevamo che dopo la caduta del quartiere generale di Gheddafi si sarebbe arresa», dice Fawzi Boukatif, comandante militare delle forze democratiche di Bengasi. Le truppe lealiste hanno invece eretto barriere per difendere la città portuale e non hanno accolto le proposte di negoziato avanzate dagli insorti, anche ai leader delle tribù locali, per evitare i combattimenti. Spiega ancora Boukatif: «Sembra che non si vogliano arrendere ma noi vogliamo risparmiare la città e per questo cerchiamo di ottenere di accedere liberamente con il patteggiamento, evitando ulteriori spargimenti di sangue».
Intanto, il Consiglio nazionale transitorio di Bengasi ha chiesto ai lavoratori di riaprire gli impianti petroliferi di Brega. E soprattutto di ricominciare a pompare il petrolio più a Sud, nei pozzi del deserto, per giungere al più presto a quei 400mila barili al giorno senza i quali nelle casse della nuova Libia non entrerà neanche un dinaro.



Pietro Del Re, La Repubblica, 26/08/2011



Liberi dopo un giorno da incubo

TRIPOLI. Claudio Monici, inviato dell´Avvenire, rievoca la giornata più lunga: «Eravamo arrivati a Tripoli in tarda mattinata, abbiamo visto arrivare i convogli dei ribelli di Misurata nella piazza Verde, ormai piena di gente, abbiamo visto la festa, la frenesia. Poi abbiamo preso l´auto per andare all´hotel, ci siamo diretti verso il Rixos, prendendo la strada che costeggia il complesso di Bab Al Aziziya, dove c´è il bunker di Gheddafi. Siamo passati vicino al centro commerciale proprietà di Aisha, la figlia del colonnello. A un certo punto ci siamo trovati su una strada larga, completamente vuota, senza traffico, silenziosa. Io ero seduto davanti, accanto ad Al Mahdi, il nostro autista. Ho avuto l´impressione che ci fosse qualcosa che non andava, ho chiesto di fermarci, ma prima che riuscissimo a tornare indietro da una via laterale è sbucato un gruppo di armati. Pensavamo fossero ribelli, che tutto fosse a posto, invece ci hanno bloccati, ci hanno costretti con i kalashnikov puntati a scendere dall´auto, e ci hanno spinto in un angolo».
A quel punto è cominciato l´incubo: domande urlate in arabo, la scoperta che erano italiani, e giornalisti, spintoni, pugni, calci. «Io avevo addosso questa maglietta del Paris St Germain», racconta Domenico Quirico, inviato della Stampa, «e all´inizio mi hanno preso per francese. Mi gridavano "Sarkozy assassino", mi hanno dato un colpo in testa con il calcio di un fucile». Riesce a trovare la voglia di scherzare: «Mi hanno preso tutto, spero che La Stampa non mi licenzi per aver perso un altro computer, dopo quello finito in fondo al Mediterraneo quando sono naufragato sul barcone tunisino diretto a Lampedusa». Giuseppe Sarcina, inviato del Corriere, ha sul viso le tracce dei pugni e i pantaloni con tracce delle ferite: «Non erano solo soldati, c´erano miliziani, ne ricordo uno vestito con la maglia del Milan».
Caricati a forza su un pick-up sporco di sangue, i quattro italiani e l´autista sono stati portati via solo per pochi metri. Poi il fuoristrada si è fermato, l´autista libico è stato strappato fuori. «Eravamo schiacciati in cinque su due posti. Mahdi era seduto accanto a me, rannicchiato, a testa bassa. Ho visto le sue labbra che si muovevano, ho avuto come un lampo, ho capito. Stava pregando. Sapeva che l´avrebbero ucciso», racconta Monici. Poi la sua voce si rompe un momento. Quando riprende a parlare lo sguardo è un po´ velato: «Non so come, a un certo punto l´ho visto fuori, in piedi, a una decina di metri da noi. Ecco, su quello che è successo dopo ho come un vuoto dei suoni. Non ricordo raffiche, non mi viene in mente nemmeno un rumore. Ricordo una figura che si inchina, si ribalta, cade a terra». È stato il passaporto con su scritto Zintan a costare la vita al giovane. Veniva dal feudo dei ribelli. I fedelissimi del colonnello l´hanno ucciso a freddo con una sventagliata di kalashnikov.
Gli italiani sono stati portati in una strada chiusa del quartiere, dove subito si è riunito un centinaio di persone urlanti. Non c´era nemmeno un comandante, tutti gridavano, qualcuno sparava in aria, qualcuno per terra. «Chissà, forse la mia presenza ha fatto arrabbiare ancora di più i gheddafiani», dice la Rosaspina del Corriere, unica donna del gruppo, ancora incredula di essere viva. Ma forse è vero il contrario: probabilmente la sua presenza è servita a "spiazzare" i più arrabbiati.
È stato quello il momento decisivo, quando sono intervenuti "gli angeli", come li chiama Sarcina: diversi civili, fra cui due giovani sulla ventina, hanno fermato i miliziani più accaniti, li hanno convinti a portare i prigionieri davanti a un alto ufficiale, perché decidesse della loro sorte. I quattro sono stati rinchiusi in un garage seminterrato. «Anche allora c´era qualcuno che si affacciava alla finestrella, ci guardava, faceva cenno di tagliarci la gola», racconta Quirico. Poi i due giovani, evidentemente legati ai clan più potenti, hanno utilizzato l´influenza tribale per raffreddare gli animi, sono riusciti a ottenere di trasferire i prigionieri nella casa di uno dei due: «Lì la musica è cambiata, siamo diventati ospiti. Ci hanno offerto il caffè, da mangiare, ci hanno dato persino un letto per dormire. Ma io non sono riuscito a chiudere occhio», racconta Sarcina.
Alla fine i due ragazzi sono riusciti a trovare la via d´uscita: caricati su un camion gli italiani, lentamente, con un lungo giro, li hanno portati all´hotel Rixos, controllato dai ribelli. Anche qui, evidentemente, i legami familiari sono serviti ad evitare uno scontro. Spiega Domenico Quirico: «Per un momento ho persino creduto che volessero usare l´opportunità della nostra presenza per passare dall´altra parte. Invece no. Erano gheddafiani, sono tornati dalla loro parte. Ma erano comunque persone straordinarie, persone per bene. Io credo che Dio esista nelle azioni degli uomini: noi abbiamo incontrato due persone che l´hanno dimostrato, hanno concretizzato la presenza del divino nel mondo».
A quel punto, liberi e ospiti dei ribelli, i quattro ex prigionieri sono diventati anch´essi oggetto di giubilo, in una sfilata per ogni posto di blocco, con i ragazzi a fare la V di Churchill. Ma non c´era gioia, il pensiero tornava a Mahdi, ucciso a freddo. E anche ai due liberatori. Racconta Monici: «Quando ci hanno liberato, sono finito da solo in una macchina dei ribelli, i colleghi erano tutti e tre in un´altra vettura. Mi chiedevo che cosa fosse successo, che cosa fosse intervenuto a salvarci. Me l´ha spiegato l´autista della mia macchina, che guidava continuando a girarsi per sorridere nella mia direzione. A lui i due "angeli" l´avevano detto in modo esplicito: lo facciamo in segno di rispetto per il nome di Dio».

Giampaolo Cadalanu, La Repubblica, 26/08/2011



Il risveglio dell´europa

Quanto è accaduto in Libia non è soltanto la caduta di un tiranno lunatico e sanguinario. Nonostante le difficoltà e il caos interno che immancabilmente seguiranno di qui a poco, la caduta di Gheddafi segna di fatto una triplice rottura storica, la somma delle cui componenti sconvolgerà il panorama internazionale. La prima è che l´Europa in Libia ha ripreso l´iniziativa sullo scacchiere mondiale, non soltanto senza gli Stati Uniti.
Ma addirittura contro di loro, in quanto sono gli europei ad aver reso possibile questa vittoria del movimento insurrezionalistico libico persuadendo le Nazioni Unite a dargli pieno appoggio. L´Europa dunque ha saputo imporsi come protagonista autonoma e determinata della scena internazionale, mentre l´ultima volta in cui ci si era cimentata risale al 1956, quando Francia e Gran Bretagna si lanciarono con il sostegno di Israele in un´operazione militare contro l´Egitto, dopo che Nasser ebbe nazionalizzato il Canale di Suez.
Gli Stati Uniti avevano immediatamente posto fine a quell´impresa, ingiungendo ai suoi alleati di rinunciarvi. Le due ex superpotenze del XIX secolo ne erano uscite umiliate più che mai. La Gran Bretagna era giunta alla conclusione di non poter più aver peso e influenza nel mondo se non restando nella scia dell´America. La Francia aveva compiuto invece una scelta opposta, uscendo dal comando integrato della Nato e affermando una propria peculiarità politica in Occidente, ma in ogni caso - né nell´una né nell´altra, né nelle proprie componenti né nel suo insieme - l´Europa non ha più avuto un ruolo diplomatico proprio per quasi sessant´anni.
Tutta occupata a costruirsi, l´Europa dal punto di vista politico era un non-essere, tutto fuorché quell´"Europa potente" vagheggiata dalla Francia. Ma quando David Cameron e Nicolas Sarkozy hanno visto cadere Mubarak dopo Ben Ali, e gli abitanti dello Yemen e del Bahrein scendere in strada a manifestare, hanno subito capito che qualora non avessero colto l´occasione di prendere le distanze dalle dittature arabe, sostenendo le popolazioni che si stavano sollevando contro di esse, i rispettivi paesi avrebbero perso l´autorevolezza che ancora restava loro a sud e a est del Mediterraneo.
La Primavera araba, ritenuta ormai irreversibile a Parigi come a Londra, era in marcia. Era indispensabile prendere quel treno in corsa, gettare le basi di un´alleanza mediterranea, investire sul futuro e non limitarsi ad attendere sulla banchina, restando aggrappati al passato. E la Libia ha offerto l´occasione a lungo sperata di intraprendere la svolta. Motivati da un interesse a lungo termine, agevolati dalla loro conoscenza del mondo arabo, francesi e britannici si sono apprestati a passare all´azione, ed è stato allora che è successo l´imponderabile. A fronte di una diplomazia americana che non voleva aprire un terzo fronte, visto che già stenta enormemente a tirarsi fuori dall´Iraq e dall´Afghanistan, la coppia formata dalle due ex superpotenze, Francia in testa, molto semplicemente ha ricattato la Casa Bianca, facendo comprendere a Barack Obama che né lui né gli Stati Uniti sarebbero usciti indenni da un eventuale massacro a Bengasi. Da ogni possibile punto di vista, quindi, si è trattato di un caso di Suez alla rovescia, e proprio come l´avventura del 1956 aveva lasciato scorgere un nuovo rapporto tra le forze internazionali, così l´adozione della risoluzione libica e ora la caduta di Muammar Gheddafi fanno intendere chiaramente fino a che punto le cose stiano cambiando su entrambe le sponde dell´Atlantico.
Indebitata in modo esorbitante, in crisi di crescita, spossata dagli interventi militari all´estero e disorientata dalla sfilza di insuccessi incassati nel mondo musulmano, l´America è sempre più tentata di rinchiudersi in se stessa, di lasciare le redini a un´Europa che non le pone più problemi strategici, per dedicarsi in via prioritaria all´Asia dove deve assolutamente trovare un difficile equilibrio con Pechino. Quanto all´Europa, anch´essa è altrettanto indebitata. Le sue difficoltà economiche non sono certo di minor entità, ma lo sgomento americano, la tentazione nei confronti dell´isolazionismo, i tentennamenti del suo apparato diplomatico restituiscono alle due potenze politico-militari dell´Unione europea – Francia e Gran Bretagna – ambizioni tanto più grandi, al punto che la Ue non può più ignorare la necessità di rendere immediatamente stabili i paesi circostanti.
Che lo voglia o meno, per quanto forti siano le reticenze della Germania e della maggioranza dei Ventisette, l´Europa non può più restare indifferente al mondo arabo in pieno fermento, come pure all´evoluzione della Russia o alla battaglia aperta che si è scatenata tra chi è ostile e chi è favorevole a mettere radici in Europa. Gli sconvolgimenti in corso nel pianeta obbligano l´Unione a dotarsi di una politica estera di nome e di fatto, per la quale la questione libica diverrà la prima concretizzazione, nel momento stesso in cui, summit dopo summit, i governi europei sono obbligati – la crisi lo rende indispensabile – ad armonizzare le loro politiche economiche. Ci troviamo a vivere un cambiamento epocale. La seconda rottura storica che la questione libica mette in risalto è la forza assunta dalla globalizzazione della libertà. Purtroppo, le democrazie non sono ancora diventate più numerose delle dittature. Né si può ragionevolmente affermare che le vecchie democrazie sono irreprensibili, o molto lontane da quelle, ma a vent´anni dal tracollo del blocco sovietico, la libertà si è rimessa in marcia dopo aver esitato a lungo e segnato semplicemente il passo. La caduta del muro di Berlino le ha permesso di dilagare nell´Europa centrale e di estendersi all´America Latina. La sua avanzata è stata spettacolare, ma il modo in cui gli anni Novanta l´hanno assimilata alla liberalizzazione economica aveva fatto sì che la Russia, il paese più grande del mondo, ne provasse quasi ripugnanza, prima che gli attentati dell´11 settembre rinnovassero la polizza vita di tutte le dittature disposte ad aiutare gli occidentali nella guerra contro il terrorismo. Al Qaeda aveva fatto compiere al pianeta, e alle democrazie stesse, una regressione completa, ma ora la terza vittoria che la caduta di Gheddafi offre alla Primavera Araba non porta speranza di libertà soltanto nel Maghreb e nel Machrek.
Per comprendere che le due dittature più grandi al mondo non si sentono più al riparo dal contagio della libertà è sufficiente prendere atto della collera che ha scatenato in Vladimir Putin il rifiuto di Dmitri Medvedev di opporre il veto russo alla risoluzione libica; dell´estrema freddezza con la quale la Cina ha accolto la nascita di un movimento democratico arabo; dell´ostinazione di Mosca e Pechino nel proteggere il regime siriano dalle condanne delle Nazioni Unite.
Il vento della libertà araba alimenta i sogni dei blogger cinesi; dà ragione a quei dirigenti del paese più popoloso al mondo che – come Hu Jintao – affermano che la Cina necessita di libertà politiche; e convince sempre più le grandi fortune russe che la nascita di uno stato di diritto, il programma rivendicato da Dmitri Medvedev, è ormai una necessità vitale. Quanto alla terza rottura storica introdotta dalla svolta libica, è ormai evidente – al di là di ogni ragionevole dubbio – che le speranze sbocciate a Tunisi avranno la meglio e prevarranno in tutto il mondo arabo-musulmano. Ciò non accadrà, naturalmente, dalla sera alla mattina, e neppure in un anno. Assisteremo a passi indietro e ripiegamenti, a lunghi periodi di insoddisfazione, di despotismo e di violenza. La Libia non si stabilizzerà in tempi rapidi né facilmente. Il clan Assad non porrà fine ai propri massacri, se non all´ultima cartuccia disponibile. L´esercito egiziano non rientrerà più nelle caserme, non più di quanto i generali algerini si lasceranno facilmente sottrarre la loro manna petrolifera. In Africa del Nord come nel Vicino Oriente la battaglia è appena all´inizio, ma una nuova generazione sta muovendo i primi passi e si sta affermando in paesi nei quali la popolazione di età inferiore ai trenta anni costituisce oltre i due terzi della stessa.
La posta in gioco a Tripoli superava di gran lunga quella libica. Era una sfida macroscopica e averlo capito è motivo 

d´onore e di nuova forza per l´Europa. 


Bernard Guetta, La Repubblica, 26/08/2011

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