domenica 14 agosto 2011

Tutte le cattiverie su Maometto

Quando le frontiere della Siria erano ancora aperte al turismo internazionale, il viaggiatore cristiano avrebbe visitato le splendide rovine della città di Bosra, a un centinaio di chilometri da Damasco sulle pendici occidentali del Gebel Druso. Avrebbe visto l'arco romano, all'incrocio fra il cardine e il decumano, il grande teatro pressoché intatto, le tre chiese bizantine, l'episcopio, i resti della cattedrale. E la guida, dopo avergli permesso di ammirare i segni antichi della romanità e del cristianesimo orientale, gli avrebbe detto con un certo compiacimento che quelli erano i luoghi in cui un monaco siriano, chiamato Sergio o Giorgio, ma noto nella tradizione islamica con l'appellativo di Bahira (una parola che significa probabilmente asceta), aveva incontrato nel VI secolo dopo Cristo un ragazzo di nove o dieci anni di nome Maometto.
Accadde quando il monaco, affacciandosi sulla porta della sua cella, aveva osservato una carovana di mercanti arabi che si stava lentamente avvicinando alla città sotto il sole implacabile di un giorno d'estate. Aveva visto molte altre carovane, ma la sua attenzione, quel giorno, fu catturata dalla presenza, in un cielo uniformemente azzurro, di una piccola nuvola che seguiva lentamente il passo dei cammelli. Abbassò lo sguardo e notò che l'ombra proiettata dalla nuvola avvolgeva un ragazzo e che non si arrestò di scivolare sulla terra sino a quando il giovane non trovò riparo accanto a un albero. Colpito da quel segno, Bahira volle conoscere il ragazzo protetto dalla nuvola e interrogarlo. Gli chiese, per metterlo alla prova, di giurare su due idoli pagani e ne ebbe un rifiutò sdegnoso. Lo pregò di parlare della sua famiglia, di raccontare i suoi sogni notturni e, dopo averlo attentamente ascoltato, lo strinse al petto e disse a suo zio: «Costui è il migliore fra tutti gli uomini della terra, è il profeta di Dio. La sua descrizione si trova in tutti gli antichi testi così come il suo nome e la sua condizione. Io ho settant'anni ed è molto che attendo la sua venuta come profeta. Ti scongiuro di non portarlo in Siria: temo che i giudei o i cristiani te lo rapiscano. Non potranno ucciderlo perché nessuno può opporsi alla volontà di Dio, ma potrebbero storpiarlo, nelle mani, nei piedi, nel corpo. Rimandalo a casa, alla Mecca».
Questa descrizione dell'incontro fra Bahira e Maometto è di un grande esegeta musulmano del X secolo dopo Cristo, Abu Jafar Muhammad ibn Jarir Tabari, e può essere letta ora in un voluminoso studio di Daniela Fabrizio, esperta di storia mediorientale, intitolato Il Profeta della discordia. Maometto e la polemistica islamo-cristiana medioevale , pubblicato recentemente dalle edizioni Aracne di Roma con una prefazione di Franco Cardini e una postfazione di Paolo Branca. Daniela Fabrizio ricorda che accanto alla versione di Tabari ne esistono altre, molto simili nella sequenza dei fatti, ma scritte con intenzioni alquanto diverse.
Per gli autori delle cronache musulmane del Medioevo il riconoscimento di Bahira era un omaggio della cristianità all'islam e dimostrava, come scrive Franco Cardini, che Maometto era «colui al quale Dio si rivolge per concludere la serie dei profeti». La tesi di una lunga genealogia religiosa, di cui Maometto rappresenterebbe il culmine, è quella del Kitab al-miraj , il «Libro dell'ascensione», noto in Europa grazie alla traduzione spagnola del 1264. Quando salì al cielo dalla roccia di Gerusalemme a cavallo di una mula, Maometto era accompagnato dall'arcangelo Gabriele. Quando entrò nel primo cielo, vide Adamo e lo salutò come padre. Quando si affacciò sulla porta del secondo, incontrò Giovanni Battista e Gesù. Quando superò la soglia del terzo, vide Giuseppe. Quando giunse al sesto cielo, incontrò Mosé e fu da lui salutato come «fratello buono e profeta buono». E quando salì al settimo cielo, vide infine Abramo, da cui fu accolto come «figlio buono». Il libro racconta che Mosé, alla fine dell'incontro, non poté trattenere le lacrime e, a chi gliene chiedeva il motivo, disse: «Piango perché un giovane è stato mandato dopo di me e quelli della sua nazione entreranno in paradiso più numerosi di quelli della nazione mia».
Per gli autori cristiani, a cui premeva negare la tesi della continuità fra il giudaismo, il cristianesimo e l'islam, il senso dell'incontro di Bosra con Bahira, invece, non poteva che essere diverso. Occorreva dimostrare che il monaco aveva cercato di educare Maometto nei principi della vera fede e che questi, quando aveva tentato di usurpare per sé un ruolo maggiore, si era dimostrato un eretico, un falso profeta. Oppure, in mancanza di meglio, occorreva dimostrare che Bahira era una persona instabile, stravagante, eccentrica, forse addirittura un ciarlatano a cui non era possibile prestare fede.
La leggenda di Bahira è soltanto uno dei molti terreni su cui cristiani e musulmani, nel corso del Medioevo, si dettero battaglia. Un'altra disputa fu quella intorno alla figura di Waraqah, parente e maestro di Mometto, asceta, custode e sacerdote della Kabah (il santuario in cui è rinchiusa la nera meteorite adorata dalle popolazioni pre-islamiche della Mecca). Sembra che fosse un nazareno, «ovvero un ebreo che seguiva la legge evangelica negando però la divinità di Cristo», mentre altri affermano che copiò e tradusse in arabo il Vecchio e il Nuovo Testamento. Ma i cronisti cristiani sostennero che «inventò» la profezia di Maometto per una sorta di calcolo politico: rafforzare il potere della sua tribù sulle rissose popolazioni della regione. Come nel caso di Bahira, anche Waraqah poteva essere agli occhi dei musulmani e dei cristiani due cose alquanto diverse: una sorta di San Giovanni Battista per i primi, e uno scaltro manipolatore del clima religioso della penisola araba per i secondi. Gli argomenti della polemica divennero ancora più taglienti e fantasiosi all'epoca delle Crociate. Per Pierre de Montboissier, più noto come Pietro il Venerabile, l'islam era soltanto una costola dell'ebraismo, un miscuglio di eresie anticristiane, una brutta copia della fede mosaica. Sostenne che gli ebrei avevano salutato Maometto, agli inizi, come il loro messia, ma lo avevano ucciso quando avevano scoperto che mangiava carne di cammello, proibita dalle loro regole dietetiche. Per il Venerabile, scrive Daniela Fabrizio, questo era «un modo di unire la polemica antigiudaica a quella antimusulmana, ai fini di un sarcastico disprezzo che accomunava giudaismo e islam».
Il punto più basso dello scontro fu toccato quando i polemisti cristiani spiegarono i precetti musulmani con parabole e aneddoti che non avevano altro scopo fuorché quello di screditare la personalità di Maometto. Sostennero che all'origine della proibizione dell'alcol vi sarebbe stato un «fattaccio». Maometto, in stato di ebbrezza, avrebbe ucciso il suo primo maestro, Bahira; e ai discepoli che gliene avevano chiesto il motivo dette l'impressione, quando si svegliò da un sonno profondo, di avere tutto dimenticato. Fu quello il momento in cui, sconvolto dal proprio gesto, avrebbe proibito ai suoi fedeli il consumo di qualsiasi bevanda alcolica. Secondo un'altra leggenda Maometto, ancora una volta ubriaco, sarebbe entrato per sbaglio in una porcilaia e lì divorato da un branco di maiali famelici. Fu quella la ragione per cui i suoi seguaci decisero che i musulmani, da allora, non avrebbero più mangiato carne suina.
Il libro di Daniela Fabrizio è uno studio informato, scrupoloso, privo di qualsiasi connotazione partigiana e arricchito da un'appendice di testi antichi molto interessanti e curiosi. È anche un ottimo anticorpo, tuttavia, per tempi in cui i giudizi sulla religione dell'altro possono diventare, quando servono alle battaglie politico-elettorali, faziosi e volgari. Le colpe, come al solito, andrebbe divise equamente. Ma nella sua postfazione Paolo Branca scrive che «i musulmani avrebbero diritto a rinfacciare, a noi cristiani, una mancata reciprocità, in quanto, nella pur amplissima controversistica anticristiana da parte islamica, mai è accaduto che la figura di Gesù abbia patito qualcosa di simile, poiché Cristo è riconosciuto e rispettato da loro come sommo profeta, anche se non ritenuto figlio di Dio».

Corriere della Sera, 14/08/2011, Sergio Romano



I cristiani di ogni tendenza, cattolici e protestanti, non hanno perduto neppure oggi l'abitudine di insultare e di accusare Muhammad di tutti i possibili delitti.
L'hanno fatto con le note vignette satiriche, platealmente riprese come ornamento di magliette da ministro Calderoli, vignettisti e giornali danesi di confessione luterana nei quali il Profeta è stato rappresentato come un bombarolo che gira con una bomba avvolta dal turbante. Immaginatevi che scandalo farebbero delle vignette musulmane che rappresentassero Gesù in divisa di avviatore americano che bombarda Baghdad o, magari, qualche festa di matrimonio afghana. Un leader politico olandese, cristiano calvinista,  ha fatto di Muhammad un emulo di Hitler e del Corano una riproduzione del Meni Kampf. In casa nostra, agli occhi della maggioranza degli italiani, che non hanno mai letto una riga del Corano e dei musulmani sanno al massimo che salutano citando il "salame", chi pratica l'Islam è un potenziale assassino terrorista, fanatico e assolutamente pericoloso: abbiamo già ricordato che uno dei giornalisti più prestigiosi, Giorgio Bocca, ha definito gli arabi dei feroci guerrieri sanguinari e macellai. Accenniamo appena alle isterie di Oriana Fallaci, i cui libri sull'argomento sono diventati famosi e che non ha avuto alcun dubbio a pubblicarli. Fortunatamente a riscattare l'infamia delle calunnie e delle diffamazioni pseudo cristiane hanno provveduto grandi anime come Goethe mentre il Concilio Ecumenico Vaticano II indetto dal più grande papa della storia, Giovanni XXIII, hanno provveduto a ristabilire anche davanti agli uomini la verità.

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