giovedì 25 agosto 2011

25 Agosto 2011


Rapiti quattro giornalisti italiani ostaggi degli uomini di Gheddafi

Quirico, Rosaspina, Monici e Sarcina. Sono i quattro inviati italiani rapiti e malmenati ieri mentre da Zawiya, l´ultima città liberata dai ribelli prima di Tripoli, cercavano di raggiungere la capitale libica. Secondo le ultime notizie, raccolte dalla Farnesina e dall´Avvenire, il giornale di Claudio Monici - che è riuscito a mettersi in contatto con i suoi colleghi, mentre in serata Quirico è riuscito a chiamare la famiglia - stanno bene, si trovano in un appartamento non lontano dall´Hotel Rixos e dal bunker di Gheddafi sotto sequestro di un gruppo di soldati lealisti. Il rapimento, come ha raccontato Monici al suo giornale, è avvenuto nella mattinata di ieri fra le dieci e mezzogiorno. La loro auto è stata fermata da un banda di criminali comuni che li ha costretti a scendere e gli ha rubato portafogli, telefoni satellitare e computer. L´autista libico sarebbe stato subito ucciso mentre i quattro giornalisti sono stati consegnati ad un gruppo di soldati delle truppe di Gheddafi.
La conferma che Domenico Quirico (La Stampa), Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina (Corriere della Sera), insieme a Claudio Monici (l´Avvenire), erano stati rapiti si è avuto ieri sera verso le diciannove quando a Monici è stato concesso dal proprietario della casa dove sono sequestrati di usare un telefono satellitare per una unica chiamata al giornale. «La situazione è tesa - ha detto Monaci - in città proseguono i combattimenti, sentiamo sparare vicino alla casa».
In seguito il console italiano a Bengasi, Guido de Sanctis, dopo essere riuscito a mettersi in contatto con uno dei giornalisti ha detto che «stanno bene» e, al tramonto dopo la scadenza del Ramadan, «sono stati rifocillati con cibo e acqua». Secondo il console, dalle descrizioni che ha ricevuto, l´appartamento nel quale si trovano sta tra Bab Al-Aziziya e l´Hotel Rixos perché dalle finestre vedono un grosso centro commerciale che apparteneva ad Aisha, la figlia di Gheddafi. Sempre il console ha detto che va «interpretato come un buon segno» il fatto che all´inviato dell´Avvenire sia stato concesso di fare una telefonata e che i quattro inviati sono trattati bene da quando si trovano nell´appartamento.
Il presidente Napolitano segue costantemente l´evolversi della situazione mentre alla Farnesina il ministro degli Esteri Frattini e l´Unità di crisi stanno cercando di ricostruire nel dettaglio le circostanze nelle quali si è verificato il sequestro e lavorano per la soluzione più rapida possibile della vicenda. L´Unione europea, attraverso il portavoce della responsabile per la politica estera Catherine Ashton, ha chiesto «l´immediato rilascio dei quattro rapiti» manifestando «preoccupazione» per le notizie relative al loro sequestro. Mentre Amnesty International parla di «ennesimo crimine internazionale» e ribadisce il suo fermo «no» a «usare i giornalisti come merce di scambio». In serata il comitato di redazione del Corriere della Sera ha rilasciato un comunicato nel quale si sottolinea: «Viviamo ore di profonda angoscia per i nostri due colleghi e per gli inviati degli altri due quotidiani italiani sequestrati oggi in Libia. Siamo vicini alle famiglie dei quattro giornalisti rapiti e a tutti i colleghi che, come noi, attendono con ansia la loro liberazione. Confidiamo nell´intervento delle autorità competenti e di chiunque sia in grado di attivarsi perché i quattro inviati possano al più presto tornare in libertà».



Omero Ciai, La Repubblica



PROCESSO SENZA PATIBOLO

NELL´INTERVISTA rilasciata ieri a la Repubblica, Mustafa Abdel Jalil, uno dei leader degli insorti libici, ha affermato che il Consiglio nazionale di transizione libico preferisce che Muammar Gheddafi e la sua "banda" siano processati in Libia, piuttosto che dalla Corte penale internazionale - beninteso, sempre che non siano uccisi prima dai ribelli. È possibile dal punto di vista giuridico e pratico?
La Corte dell´Aja è stata investita dei crimini dei dirigenti libici dal Consiglio di sicurezza dell´Onu e ha già emesso ordini di cattura contro il raìs e suo figlio Seif al Islam. Ma, in principio, è sempre meglio che processi penali vengano svolti davanti alle corti del paese in cui sono stati commessi i crimini, non solo perché è più facile per quelle corti raccogliere le prove, ma anche e soprattutto per la più immediata visibilità che ha un processo che si svolge davanti agli occhi di coloro che hanno sofferto dei crimini commessi dal gruppo dirigente del paese. I tribunali internazionali sono e devono essere solo un ripiego: subentrano quando la giustizia nazionale non funziona o non riesce ad essere giusta, e mirano ad evitare che processi nazionali costituiscano una resa dei conti tra fazioni rivali, una "notte dei lunghi coltelli", un modo per il vincitore di vendicarsi dei misfatti del vinto. Il Consiglio Nazionale di Transizione può dunque chiedere alla Corte dell´Aja di "autorizzarlo" a celebrare un processo contro Gheddafi e i suoi, a condizione di dimostrare di essere capace di tenere un processo equo e imparziale, e non un processo come quello che si svolse a Bagdad contro Saddam Hussein, che fu abborracciato e non imparziale e portò all´impiccagione del leader vinto.
A mio giudizio i nuovi dirigenti libici possono seguire due strade. La strada maestra consisterebbe nella rapida approvazione di una legge che istituisca un tribunale a composizione mista, ad esempio con tre giudici libici e due giudici eminenti di paesi arabi (che potrebbero essere designati dal Segretario Generale dell´Onu), e preveda una procedura rigorosa e imparziale. Prima della sua approvazione la legge dovrebbe essere sottoposta al vaglio del presidente della Corte penale internazionale, perché accerti se la procedura risulta conforme ai più alti standard internazionali.
Se i dirigenti libici dovessero invece preferire a un tribunale misto un tribunale esclusivamente libico, dovrebbero sottoporsi a un rigoroso controllo internazionale: dovrebbero consentire a una o più persone designate dal Segretario Generale dell´Onu e dal presidente della Corte Penale Internazionale di assistere al processo e riferire all´Onu e alla Corte dell´Aja. Ove il procedimento dovesse risultare ispirato a motivi di vendetta o risultasse iniquo, la Corte dell´Aja potrebbe immediatamente avocare il processo, e chiedere il trasferimento degli imputati all´Aja. In entrambi i casi sarebbe però indispensabile che venissero osservate due condizioni. Anzitutto, dovrebbe essere vietata la pena di morte, che è contraria ai principi fondamentali di umanità ed è esclusa da tutti i tribunali penali internazionali. In secondo luogo, la competenza dei giudici libici dovrebbe essere limitata ai crimini per fatti avvenuti dopo il 15 febbraio. I giudici libici non dovrebbero pronunciarsi sui misfatti attribuiti al quarantennale regime del raìs, ma solo sui crimini perpetrati con la repressione dei civili iniziata a febbraio di quest´anno. Come ho già notato altre volte, le dittature e il loro disprezzo dei diritti umani sono materie non per i giudici, ma per la politica: è solo attraverso procedure politiche (libere e genuine elezioni e la creazione di uno stato di diritto) che si può provocare un ricambio nei regimi. Il mestiere dei giudici è quello di giudicare i reati di singoli individui, non le politiche di clan o partiti politici.
Un processo in Libia contro Gheddafi e i suoi, se condotto in modo imparziale e rigoroso, avrebbe il vantaggio di stimolare il nuovo gruppo dirigente libico a dare prova di una svolta decisiva nel mondo arabo verso la democrazia, la trasparenza e l´affermazione dello stato di diritto. Inoltre, visto che finora processi contro dittatori (Pinochet, almeno per la sua estradizione, Milosevic, Taylor, Karadzic) sono stati svolti solo davanti a tribunali stranieri o internazionali, e che l´unico esempio di processo nazionale è quello, fallito, contro Saddam Hussein, un equo processo in Libia contro Gheddafi segnerebbe una grande vittoria anche per la giustizia penale.

Antonio Cassese, La Repubblica



Bengasi mette una taglia sul raìs: "Vivo o morto"

BENGASI - Esasperato dall´inafferrabilità del Colonnello Gheddafi e dal continuo aggravarsi del bilancio delle vittime a Tripoli, Mustafa Abdel Jalil, presidente del Consiglio nazionale di transizione, ha compiuto uno scivolone morale e forcaiolo, ponendo una taglia sulla testa del suo acerrimo nemico e promettendo l´immunità a chi lo consegnerà, vivo o morto, nelle mani degli insorti. «Sono pronto a offrire la grazia a chiunque catturerà o ucciderà il raìs» ha dichiarato ieri Jalil, rivolgendosi anzitutto agli uomini della guardia pretoriana di Gheddafi, sempre che questi l´abbiano potuto ascoltare. Due giorni fa, il leader delle forze democratiche libiche aveva dichiarato a Repubblica di voler catturare vivo il Colonnello, per poterlo processare in patria.
Come riportava la tv satellitare al-Arabiya, sempre ieri, lo stesso Jalil ha anche annunciato che un ricco imprenditore vicino al governo di Bengasi ha offerto una taglia di circa un milione di euro per la testa di Gheddafi. Imprenditore di cui il presidente Jalil ha preferito tacere il nome. «Una somma pari a due milioni di dinari libici sarà versata a chi lo catturerà, vivo o morto», ha aggiunto colui che molti vedono come la futura guida del Paese, almeno fino alle prossime elezioni legislative e presidenziali.
«Il Consiglio sostiene l´iniziativa dell´uomo d´affari», ha aggiunto Jalil, poco dopo aver reso noto della grazia messa in palio per chiunque, tra la cerchia del Colonnello, lo catturerà o l´ucciderà. Per il colonnello dell´aviazione di Bengasi, Hamad Bani, uno dei primi "eroi" militari a passare con gli insorti, la taglia su Gheddafi è una buffonata. «Perché tanti soldi?», si chiede Bani. «Quel burattino sanguinario non vale oggi più di un dollaro».
Come spiegare questa gaffe verbale di Jalil, non degna dello statista moderato e responsabile che si appresta a diventare? Secondo una fonte a lui vicina, il leader della Libia liberata sarebbe irritato per l´inutile e copioso spargimento di sangue degli ultimi giorni, da quando è stata lanciata l´operazione militare su Tripoli, chiamata "L´alba della sposa del mare". Secondo una stima fornita dagli insorti, i combattimenti che da sabato scorso infuriano nella capitale hanno già provocato più di 400 morti e duemila feriti, la maggior parte dei quali shabab, i giovani combattenti della rivoluzione, caduti sotto le pallottole dei cecchini lealisti. Nel corso della conquista della città, gli oppositori avrebbero invece catturato 600 soldati fedeli a Gheddafi.
Intanto, il principe ereditario della Libia in esilio, Mohammed al-Senoussi, ha confermato di essere «pronto a servire» il suo Paese se la sua gente lo vorrà. «È il popolo libico che dovrà decidere», dice il 49enne Mohammed al-Senoussi, in esilio da 23 anni, in un´intervista al settimanale Die Zeit in edicola oggi. In Libia serve uno Stato democratico, sottolinea il principe, aggiungendo che «vedere la bandiera della libertà sventolare su Tripoli mi rende incredibilmente felice e fiero del mio popolo».
L´erede al trono dell´ex Regno di Libia spiega inoltre di avere incontrato in questi giorni personalità "ufficiali" in Francia, oltre agli ambasciatori di Londra e Parigi a Tripoli, da mesi rientrati nelle rispettive capitali. Già lo scorso aprile, durante un´audizione al Parlamento europeo a Bruxelles, Mohammed al-Senoussi aveva promesso di fare tutto il possibile per supportare la creazione di uno Stato democratico in Libia. Si era anche detto pronto a servire il suo popolo e aveva evocato la possibilità di tornare - almeno temporaneamente - alla monarchia costituzionale nel dopo-Gheddafi. Ipotesi questa, fortemente improbabile.

Pietro Del Re, La Repubblica



Missili, cecchini e machete l´ultimo martirio di Tripoli

TRIPOLI - Il fantasma del raìs vaga ancora nella notte di Tripoli. Lo ha detto lui stesso nell´ultimo minaccioso messaggio diffuso dalla tv siriana: «Ho passeggiato in incognito, senza che la gente mi vedesse, e ho notato giovani pronti a difendere la loro città. Giovani che ripuliranno Tripoli dai ratti». Poi ha mandato in avanscoperta Aisha, la sua figlia prediletta. Un appello a resistere lanciato dalla bella avvocatessa attraverso la tv lealista Al Orouba: «Chiedo al popolo libico di affrontare uniti la Nato, chiedo al popolo libico di non temere le forze armate. Il leader è nel giusto». Quasi una beffa, dopo le aperture - vere o fasulle, qui è sempre difficile capire - di Saadi, il calciatore, un altro dei figli del Colonnello che alla Cnn aveva appena finito di dire che «è ora di negoziare il cessate il fuoco, per evitare ulteriori spargimenti di sangue».
E mentre il Consiglio dei ribelli mette una taglia da 1,6 milioni di dollari sulla testa di Gheddafi - «siamo pronti a graziare chi dovrebbe ucciderlo», ha detto il presidente del Consiglio di transizione Mustafa Abdel Jalil - si combatte ancora nella Tripoli liberata dagli insorti. I towars della rivoluzione martedì notte hanno espugnato Bab al Aziziya, ora si fanno fotografare sul monumento eretto da Gheddafi dopo i bombardamenti Usa dell´86, un pugno che stringe un aereo, sono entrati nella tenda dove il raìs riceveva gli ospiti stranieri e ne hanno calpestato i tappeti e sputato sulle fotografie ma ad una decina di metri di distanza infuria la battaglia.
Un ribelle mostra i corpi straziati di due gheddafiani, li tocca con un machete. Uno dei due ha la pelle scurissima, probabilmente è un mercenario venuto dall´Africa. «Questo non lascerà più la Libia» dice il guerrigliero ma proprio in quel momento però dall´ultimo bastione dove sono asserragliati gli irriducibili del regime arriva un colpo di mortaio.
È una strana liberazione quella che sta vivendo Tripoli. Sulla riva del mare ci sono due ottimisti in costume che si accingono a fare il bagno mentre interi quartieri della parte orientale sono senza energia elettrica da più di due mesi. In centro si spara per aria, si suonano ossessivamente i clacson per festeggiare la liberazione e dall´ultima ridotta delle forze speciali di Gheddafi, un fortino dai muri di cemento armato spessi diversi metri, arrivano missili Grad e colpi di mortai mentre gli sniper cercano un bersaglio per i loro fucili di precisione. Tra i ragazzi che assediano l´ultima parte di Bab Al Aziziya ancora in mano alle forze di Gheddafi ce n´è uno con una bandana tricolore che parla italiano. «Sono stato a Perugia quattro anni - dice agitando il fucile d´assalto - sono tornato per combattere Gheddafi». Pochi metri più in là c´è un ribelle che sembra tutto tranne che libico: capelli biondi, barba incolta ma chiara su una mascella quadrata. Probabilmente è uno Special Forces che inglesi, francesi e persino il Qatar hanno inviato nei mesi scorsi a dar un minimo di organizzazione all´armata ribelle.
Si combatte però anche ad al-Hadbha al-Khadra, ad Airport Road dove il Consiglio di Transizione è convinto si nasconda Gheddafi. E soprattutto si spara nel quartiere di Abousalim, popolato da sempre da malavitosi e vicino a Bab Al Aziziya, la residenza fortificata di Gheddafi. I ribelli dicono che il raìs ha assoldato i boss del quartiere per affrontare la loro avanzata. «Qualcuno di loro però ha rifiutato - dice un guerrigliero - anche per loro Gheddafi era troppo criminale».
Sulla strada di Sirte, città natale del raìs, i fedelissimi del regime però sono riusciti ad avanzare di almeno cinquanta chilometri verso la capitale. I lealisti hanno continuato a sparare missili su Misurata. Poi hanno puntato su Ajelat a ovest di Tripoli. Il Colonnello, e quel che resta delle sue truppe, non ha alcuna intenzione di arrendersi. E, almeno a sentire i ribelli, ci sono cecchini appostati in alto al di fuori del perimetro di Bab Al Aziziya: «Ce ne sono decine e non si riesce a capire dove sono», racconta Nouri Mohamed, il capo di un gruppo di insorti libici a Tripoli.
Ieri dopo scontri furiosi sono stati finalmente liberati i giornalisti stranieri che da giorni erano prigionieri nell´hotel Rixos, strettamente controllato dalle forze gheddafiane. Appena uscito un operatore tv è stato chiamato da un automobilista che gli ha chiesto di poter registrare un messaggio per Gheddafi prima che sia catturato o ucciso. «E´ dagli Anni ‘80 che voglio dirtelo - ha detto l´uomo parlando direttamente al raìs - ti sei paragonato ai profeti ma i profeti non hanno bisogno di scacciamosche e le mosche sono attirate dalla m...».
Mentre in alcuni quartieri infuriano quelli che dovrebbero essere gli ultimi scontri (oggi sono attesi a Tripoli anche i ribelli di Bengasi) e il Consiglio di Transizione, spalleggiato dalle forze speciali della Nato è in caccia di Gheddafi, nel resto della città si festeggia la liberazione. Ovunque si spara in aria, difficile distinguere i colpi per la felicità e quelli che arrivano invece dalla battaglia. Dal bagagliaio di una Peugeot penzolano le gambe di un cadavere. L´autista è in lacrime e spiega: «Rotel è morto combattendo per la libertà, ha il diritto di festeggiare anche lui la liberazione».

Meo Ponte, La Repubblica



Forze speciali Nato con i ribelli "Le prime a entrare nel bunker"

PARIGI - La guerra in corso in queste ore per il controllo di Tripoli viene combattuta anche da forze speciali di Gran Bretagna, Francia, Giordania e Qatar. Dopo le prime indiscrezioni, la Nato è stata costretta a una prima conferma. Il colonnello canadese Roland Lavoie, portavoce dell´operazione Unified Protector, ha ammesso che «alcune nazioni partner hanno una loro presenza sul terreno». Alle unità private di contractors, la coalizione occidentale contro Gheddafi ha affiancato membri in servizio effettivo delle forze speciali. Secondo la Cnn, alcune di queste unità hanno viaggiato insieme ai ribelli mentre avanzavano verso Tripoli. Tra i compiti, l´addestramento, il supporto delle truppe, la raccolta di informazioni militari sugli obiettivi da colpire nei raid dell´Alleanza. Le unità del Qatar e della Francia, in particolare, hanno fornito armamenti agli insorti. Infine, sarebbero state le forze speciali del Qatar addestrate dai militari britannici - e non gli insorti libici - le prime ad entrare a Bab Al Aziziya, la residenza-bunker di Muhammar Gheddafi.
Nonostante le ovvie smentite, il compito delle forze speciali sembra decisivo. «La battaglia per liberare la Libia non è ancora finita» ha spiegato il premier del Consiglio nazionale transitorio libico, Mahmud Jibril, che ha incontrato ieri a Parigi Sarkozy. «Nel Sud ci sono ancora sacche di resistenza» ha aggiunto Jibril che oggi vedrà a Milano Silvio Berlusconi prima di partire per Istanbul dove parteciperà a un gruppo di contatto sulla Libia. Al centro delle discussioni con il responsabile libico le misure per sostenere la transizione post-Gheddafi. Insieme agli Stati Uniti, la Francia ha chiesto alle Nazioni Unite di sbloccare 1,5 miliardi di dollari in asset libici, congelati dalle sanzioni internazionali, per fini umanitari. Il Cnt è stato ormai riconosciuto da almeno 10 Paesi, tra cui Tunisia ed Egitto che hanno ufficializzato le relazioni negli ultimi quattro giorni, da quando cioè è cominciato l´assalto finale a Tripoli. Mentre anche i due giganti, Russia e Cina, che finora avevano mantenuto una posizione più distante, cominciano a concedere aperture più significative.
La pressione militare deve comunque continuare. Il presidente francese ha annunciato che giovedì prossimo si riunirà a Parigi a prima conferenza sul futuro della Libia, alla quale parteciperanno una trentina di soggetti, tra Paesi e organizzazioni internazionali che hanno formato il cosiddetto gruppo di contatto. «Siamo disposti a continuare l´intervento militare seguendo le indicazioni dell´Onu fino a quando i nostri amici libici ne avranno bisogno» ha spiegato il presidente. Nonostante la reticenza di alcuni alleati, la diplomazia francese non esclude l´invio di una forza multinazionale di pace. «Lavoriamo per la democrazia della Libia» ha concluso Sarkozy.

Anais Ginori, La Repubblica



L´Italia teme una missione sul terreno

ROMA - «Sarkozy si deve muovere in modo spettacolare perché vuole entrare in Libia, uno scenario dove è nuovo. Noi invece a Tripoli ci siamo già da anni, ci conoscono bene e possiamo lavorare in modo più discreto». Mentre il presidente francese annuncia il vertice internazionale di Parigi sulla Libia, Silvio Berlusconi è ad Arcore impegnato a preparare l´incontro di oggi con il primo ministro del Consiglio nazionale transitorio libico, Mahmud Jibril. Il premier ostenta tranquillità, anche se doveva essere lui il primo a vedere il leader libico (Parigi lo ha battuto sul tempo) ancora una volta è convinto che, come sulla crisi economica, l´attivismo di Sarkò non lo porterà lontano. Poi la notizia del rapimento dei giornalisti italiani riporta alla sua mente le ombre del recente passato. Al telefono con un amico si sfoga: «Dopo tutte le minacce che mi ha rivolto sarò tranquillo solo quando Gheddafi lo cattureranno e questo bagno di sangue finirà». E pensare che proprio oggi Jibril dovrebbe annunciare la formazione di un Consiglio di sicurezza nazionale per garantire l´ordine a Tripoli.
Sulla Libia regna ancora l´incertezza, tra rischi di polverizzazione irachena e speranze di stabilità. Scenari che potrebbero avere ricadute anche sul governo italiano. La Lega da mesi punta i piedi perché la missione libica finisca a settembre e se l´accelerazione che ha portato alla battaglia di Tripoli ha fatto tirare un sospiro di sollievo al governo, le voci che rimbalzano dalle cancellerie europee sulla possibilità di mandare truppe di terra per garantire l´ordine mettono i brividi. Se poi fosse l´Onu a votare una missione di Caschi blu, tirarsi indietro sarebbe peggio che mandre in frantumi i rapporti tra Pdl e Lega. Ma la notizia, riservata, che per ora tranquillizza il premier arriva tramite la Farnesina da New York: al Palazzo di vetro gira una prima bozza di risoluzione che parla di un team di stabilizzazione composto da truppe esclusivamente arabe ed africane in coordinamento con l´Unione africana. Insomma, spiega un ministro italiano, «questa missione chiesta dagli africani - irritati dalla presenza dei soldati occidentali in Libia - lascerebbe fuori gli europei e ci risolverebbe un problema». Tema sul quale il premier insisterà con l´ospite libico.
Oggi intanto incontrando Jibril Berlusconi capirà se il suo ottimismo sulla leadership italiana sia fondato o meno. I due insisteranno sul punto che Gheddafi si deve arrendere. Nel qual caso per l´Italia dovrebbe essere processato per crimini contro l´umanità di fronte dalla Corte penale internazionale dell´Aja. Poi si guarderà al futuro italiano in Libia. Jibril dovrebbe poi firmare il ripristino degli impianti dell´Eni, che in Libia manderà delle squadre per la loro riattivazione. Team ai quali si aggiungerebbero quelli inviati dal governo per la ricostruzione: esperti di vari ministeri e intelligence sul modello afgano per aiutare il Cnt all´addestramento di polizia e Guardia costiera (anche in chiave anti-immigrazione).
Sarà quindi il turno dei soldi, con il governo che confida di diventare il primo finanziatore del Cnt, un segno tangibile dell´amicizia italiana verso gli insorti - nelle cui mani ci sarà il destino delle nostre aziende in Libia - che si spera faccia dimenticare le titubanze di Berlusconi sulla guerra a Gheddafi. Ci sarà l´annuncio che già settimana prossima dalle nostre banche si riverseranno su Tripoli 450 milioni di euro (300 cash, 150 tramite forniture di petrolio) garantiti dai beni congelati al governo di Gheddafi. Un modo per finanziare il Cnt prima che Onu ed Unione europea tolgano le sanzioni imposte all´inizio della guerra. «Saremo gli europei che danno più soldi», dicono alla Farnesina speranzosi che la nostra posizione non sia stata offuscata dalla leadership di Sarkozy e Cameron. 



Alberto D'Argenio, La Repubblica





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