Il mistero dell' assassinio del capo dei ribelli libici
L' assassinio giovedì sera del generale 67enne Abdel Fattah Younes, massimo responsabile militare delle forze rivoluzionarie libiche, rilancia con gravità la questione delle debolezze, lacerazioni tribali e divisioni interne al fronte anti-Gheddafi. I suoi funerali ieri nel centro di Bengasi, assieme a due colonnelli apparentemente uccisi nello stesso attentato, si sono svolti nel terrore generale che potessero sfociare in guerra fratricida. «C' erano migliaia di persone. Giovedì sera i militanti più arrabbiati degli Obeidi, la stessa tribù di Younes, avevano sparato per le strade. Temevamo vendette sommarie. Ma poi la situazione si è calmata e le esequie si sono svolte regolarmente», raccontavano ieri sera per telefono da Bengasi i responsabili del Consiglio nazionale transitorio, l' organo di governo dei ribelli. «La morte di Younes resta un grave mistero. Preoccupante. Si diffondono voci contraddittorie. Ma per fortuna è stata istituita una commissione d' inchiesta, sembra accettata da tutti. L' importante è che le violenze tra i nostri ranghi siano tenute sotto controllo. E ora a Bengasi le strade sono tornate tranquille», ha spiegato Abdelkader Kadura, noto docente di diritto all' università locale legato al fronte rivoluzionario. Pure, i tentativi di gettare acqua sul fuoco non riescono a nascondere questioni fondamentali sulla capacità di tenuta del fronte rivoluzionario che già covavano sotto la cenere e ora tornano incandescenti. La tesi che va per la maggiore è infatti che Younes sia stato ucciso (e forse anche torturato) da elementi estremisti delle forze rivoluzionarie perché accusato di stare negoziando segretamente con inviati del governo di Tripoli e forse in modo diretto con familiari di Gheddafi. Si parla dello stesso Saif al Islam, il figlio più politico del Colonnello, che di recente ha con insistenza pubblicamente avanzato la proposta di un compromesso negoziato sulla base di elezioni nazionali. Ieri in serata, il ministro del Petrolio Ali Tarhouni ha affermato che sarebbe stato lo stesso commando di ribelli mandato a prelevare Younes ad ucciderlo. In un primo tempo, tuttavia il presidente del Consiglio transitorio, Mustafa Jalil, aveva puntato il dito contro non meglio definiti «sicari» di Gheddafi. Ma nella giornata di ieri si è fatta più corposa la versione assolutamente opposta. Ormai da diverse settimane crescevano i dubbi sulla fedeltà di Younes, tanto che martedì scorso aveva lasciato le sue truppe impegnate nei combattimenti sul fronte di Brega per essere ascoltato in proposito da una commissione di capi tribali e militari a Bengasi. In quel frangente sarebbe quindi stato assassinato. «Abbiamo ricevuto il suo corpo solo il giorno dopo. Riportava ferite di proiettili. Ed è stato in parte bruciato», ha raccontato ieri il nipote, Abdul Hakim. La sua morte non costituisce comunque un fulmine a ciel sereno. Dalle rivolte di febbraio Younes è un personaggio controverso. Accusato ripetutamente di tradimento da Gheddafi, sospettato di fare il doppiogioco tra le fila della rivoluzione: sin da marzo evitava di farsi vedere in pubblico. Le sue conferenze stampa a Bengasi (sempre scortato da guardie del corpo ben armate) si contano sulle dita di una mano. Per i militanti delle sommosse sin dall' inizio era considerato un nemico pericoloso, da eliminare a tutti i costi. Fedelissimo di Gheddafi sin dal colpo di Stato del 1969, suo ministro degli Interni e poi della Difesa, era a capo dei corpi scelti dell' esercito nella regione di Bengasi, la «Brigata al Saiqa», quando scoppiarono i tumulti del 17 febbraio. La sua abitazione (una grande e lussuosa villa nelle periferie occidentali) venne saccheggiata e data alle fiamme assieme a quelle di un' altra decina di esponenti locali più noti della dittatura. Quando il 22 febbraio annunciò il suo passaggio tra le fila dei ribelli, i più scettici lo accusarono di «doppiogiochismo», addirittura di avere garantito la fuga verso Tripoli dei militari incaricati della repressione, prima di passare di campo «in combutta con Gheddafi». Accuse simili tornarono all' ordine del giorno circa un mese dopo, quando la scarsità di coordinamento con la Nato causò a più riprese decine di vittime tra le fila dei rivoltosi, caduti sotto il «fuoco amico» dei jet alleati. E non mancarono i rivali interni. Sin dal suo ritorno dall' esilio negli Stati Uniti in marzo, l' ex generale Khalifa Haftar (popolare eroe nazionale della guerra contro il Ciad, noto per i dissidi con Gheddafi, poi catturato dai nemici e quindi riparato a Washington) mira ad assumere il comando militare dei ribelli scalzando Younes. Il loro braccio di ferro è stato tra le cause delle abissali inefficienze e degli sprechi dimostrati dalla macchina militare rivoluzionaria, a fronte invece della disciplina e capacità di adattamento al mutare delle situazioni sotto la minaccia delle bombe Nato evidenziate dalle truppe filo-Gheddafi. La sua scomparsa in un quadro tanto ambiguo apre ora la lotta alla successione. I dirigenti di Bengasi sanno bene che, a oltre cinque mesi dall' inizio delle sommosse, l' aspetto militare resta dominante. Tra pochi giorni inizierà la semitregua imposta dal mese di Ramadan. La morte di Younes lascia la rivoluzione in Libia più confusa e disorganizzata che mai. Lorenzo Cremonesi RIPRODUZIONE RISERVATA **** Profilo Con il Raìs Abdel Fattah Younes, nato 67 anni fa, è stato uno dei militari chiave nel golpe del 1969 che ha portato Gheddafi al potere. È stato ministro degli Interni e poi della Difesa Coi ribelli A febbraio è passato con i ribelli, assumendo il comando delle operazioni militari Dubbi Mentre per Tripoli era un traditore (sulla sua testa aveva posto una taglia da 2,5 milioni), alcuni dei ribelli sospettavano che facesse il doppiogioco. La sua leadership era contesa da Khalifa Haftar, un altro capo militare 165 i giorni della rivolta in Libia, cominciando dalle proteste scoppiate a metà febbraio nella città di Bengasi 42 gli anni passati dai libici sotto il regime di Muammar Gheddafi, che prese il potere con un golpe incruento nel ' 69.Corriere della Sera, 30/07/2011, Lorenzo Cremonesi
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