martedì 23 agosto 2011

LIBIA - 23 Agosto 2011


Tripoli, è guerra strada per strada mistero sulla sorte di Gheddafi

RASAJDIR (Confine tra Libia e Tunisia). Tripoli è in ginocchio, il regime si è sgretolato. La capitale festeggia, e pure è ancora in guerra. Rimasti in pochi, i fedelissimi di Muammar Gheddafi non gettano le armi, cercano il massacro finale. I ribelli conquistano un quartiere dopo l´altro, ma in quelli centrali si concentrano sacche di resistenza ostinate, soprattutto attorno alla cittadella fortificata di Bab Al-Azyzya. Un´ardita disperazione guidata dal figlio del raìs Khamis, che alla testa di quel che resta della sua 32esima brigata protegge il compound con i carriarmati, con i cecchini che dai tetti forse prendono di mira persino i bambini, come denunciano i ribelli. E, intanto, sulla città dove la gioia della liberazione è smorzata dal caos, aleggia il mistero sulla sorte del Colonnello.
Le voci sul raìs si rincorrono per tutta la giornata. Per al Arabiya non sarebbe più nel suo bunker, nel cuore di Tripoli, ma in un ospedale vicino al sobborgo di Tajoura. Altre fonti lo danno in Angola e in Sudafrica, ma Pretoria smentisce. Per il Pentagon il raìs sarebbe ancora a Tripoli. Di certo, la sua folle ostinazione nelle ultime 48 ore ha trasformato la città in un inferno. Dove i ribelli, sì, avanzano: secondo il ministro Franco Frattini solo il 10-15 per cento della città resterebbe sotto il controllo dei lealisti. «Sono poche centinaia, perlopiù stranieri», ha spiegato un combattente all´Ansa, mentre i suoi compagni dicevano di aver catturato mercenari subsahariani, ma anche ucraini. Nel pomeriggio, dopo aver arrestato la giornalista che due giorni fa aveva brandito una pistola in diretta minacciando i ribelli, hanno preso il controllo della tv di Stato: un altro potente simbolo del regime che crolla. E dell´aeroporto. «Andiamo avanti, ma lentamente» ammette uno degli ufficiali ribelli «perché non vogliamo il massacro». Massacro che invece sembrano volere a tutti i costi i superstiti gheddafisti. Se a Sirte hanno lanciato un missile Scud, poi intercettato dalla Nato, nella capitale i loro carriarmati sono stati visti uscire dal complesso di Bab Al-Azyzya e cannoneggiare alla cieca attorno a sé. Diversi testimoni hanno riferito che sostenitori di Gheddafi in abiti civili si aggirano per la città e sparano sulle auto e sulle persone. Non si risparmiano i giornalisti (quello della Bbc è rimasto coinvolto in una sparatoria e rimasto illeso), e neppure i bambini. Secondo SkyNews due bimbi sono stati colpiti dai tiratori del Colonnello: rispettivamente alla testa e allo stomaco. Così, in questo inferno, si attendeva la notte: nella speranza che i raid della Nato riuscissero a radere al suolo Bab Al-Azyzya, covo e simbolo di quel che resta del regime.

Meo Ponte, La Repubblica





LE DUE GUERRE DI LIBIA

La fine del regime di Gheddafi segna l´inizio della vera lotta per il potere in Libia. La liquidazione del despota era il punto di fusione delle molte anime della ribellione. Ora si tratta di stabilire chi e cosa succederà al duce libico. Operazione non rapida e certamente sanguinosa: pur privato delle leve del potere, Gheddafi non sembra disposto a sgombrare il campo senza incendiarlo, ricorrendo ovunque possibile all´arma estrema della guerriglia.
Il regime non può più governare la Libia, ma non rinuncia a distruggerla. Dalle macerie della dittatura fiorirà uno Stato unitario, più o meno assimilabile a una democrazia, con un leader eletto e riconosciuto da tutti i cittadini libici (pur se non sappiamo chi e quanti sono, in assenza di un censimento)? Oppure sarà guerra civile permanente? O il pendolo della storia si fermerà in qualche punto intermedio fra i due estremi?
Di sicuro, per ora, c´è che il vecchio regime sta sbriciolandosi e che milioni di libici festeggiano, liberi finalmente di immaginare una vita migliore. E mentre si dedicano a stroncare le sacche di resistenza degli ultrà gheddafisti - o dei disperati che non sanno a chi arrendersi senza rischiare la pelle - gli insorti già pensano a determinare i nuovi rapporti di forza. Chi fra loro comanderà, su quali territori e risorse, secondo quali regole o equilibri?
In attesa che la polvere delle opposte propagande si depositi per aprire lo sguardo sull´orizzonte futuro, qualche illuminazione possiamo forse trarla dal modo in cui l´edificio gheddafiano si sta schiantando.
C´è un tratto comune nella fine di ogni tiranno: la perdita del senso della realtà. Come altri dittatori accecati dal potere, anche Gheddafi si era costruito un universo irreale. Quasi a immaginarsi eterno e invincibile. L´eco di tale paranoia risuona negli appelli lanciati durante la battaglia di Tripoli, a invocare una ad una brigate fantasma, tribù ormai convertite alla causa della vittoria, milizie popolari di questo o quel quartiere, che un tempo sarebbero scattate in massa all´appello del qaid, inconcussa guida della rivoluzione, ma che ora aspettavano solo la fine del massacro.
Gheddafi era da tempo un cadavere politico. La rapidità dell´avanzata finale su Tripoli, in cui non è peraltro difficile scorgere la mano professionale dell´intelligence e di forze speciali occidentali, conferma che il regime era marcio. Le sue architravi erano tarmate e usurate. In retrospettiva, i sei lunghi mesi di guerra - non i pochi giorni pronosticati in Occidente sull´entusiasmo dell´insurrezione di Bengasi - sono non tanto il prodotto della resistenza di Gheddafi, quanto delle divisioni tra chi ambiva ad abbatterlo per prenderne il posto.
Abbiamo assistito finora a due guerre parallele. Una calda e sanguinosa, tra i ribelli della Cirenaica e i loro alleati in Tripolitania e nel Fezzan, che con il sostegno delle potenze occidentali puntavano a finirla con il regime per aprire una nuova pagina nella storia della Libia. L´altra prevalentemente fredda e sotterranea, ma talvolta violenta (vedi il misterioso assassinio del generale Younes), fra le assai eterogenee componenti della coalizione anti-gheddafiana: islamisti e laici, conservatori e progressisti, esponenti tribali o di gruppi etnici particolarmente oppressi dal regime, berberi in testa. Unico fattore comune, la più o meno antica matrice gheddafista dei capi del Consiglio nazionale di transizione.
In questo senso, il crepuscolo del colonnello può essere descritto come la progressiva e sempre più rapida diserzione dei suoi accoliti. Quasi un prolungato, strisciante colpo di Stato - avviato ben prima della rivolta di Bengasi - di chi si rendeva conto di non aver più nulla da guadagnare dal regime e perciò lo abbandonava. Perdendo foglia dopo foglia, la pianta del regime si è spogliata fino a esibire la radice ormai esausta: il colonnello e i suoi figli.
Il pericolo non è solo che da quella pianta morente emanino ancora veleni mortali, sotto forma di guerriglia, attentati, colpi di mano dei nostalgici del vecchio regime, a Tripoli come nella Sirtica o nel Fezzan. È soprattutto che la coalizione prodotta dalla necessità di eliminare Gheddafi si scopra troppo incoerente, che gli interessi particolari - tribali, etnici, regionali - prevalgano sulla necessità di costruire finalmente istituzioni libere nella Libia riunita. Un avvitamento di tipo iracheno, se non somalo. D´altronde, le performance del gruppo di Bengasi non sono incoraggianti quanto a capacità politiche e di gestione. Né si deve dimenticare che l´assalto finale a Tripoli è venuto principalmente dall´Ovest e dalle montagne a prevalenza berbera, con il fronte orientale bloccato a Brega. Non sarà facile ricucire le antiche rivalità e le diffidenze fra tripolitani e cirenaici, o fra arabi, berberi e neri (questi ultimi assai compromessi col regime).
La speranza è che la fine della dittatura sia anche l´inizio della pacificazione fra le genti libiche e della costruzione di uno Stato unitario che non esiste, se mai è esistito. Per fortuna, la storia ha spesso più fantasia di chi prova a interpretarla. Le potenze europee ed atlantiche non possono comunque sottrarsi alle responsabilità che hanno voluto assumersi nel conflitto libico. Scesi in campo per un´improbabile "guerra umanitaria" - di fatto per cambiare il regime - la tentazione degli occidentali è di cantare vittoria, spartirsi le spoglie energetiche e tornare a occuparsi dei fatti propri. In tal caso la sconfitta è assicurata. Sconfitta dei libici che sperano in un futuro di pace, benessere e libertà. Ma anche di noi italiani ed altri europei che li avremo, come d´abitudine, usati e traditi.

Lucio Caracciolo, La Repubblica





La capitale che vive nella paura

«Come viviamo? Con la paura, nella paura. La paura è un fiato caldo, un soffio che non vedi ma che ti riscalda all´improvviso. E non passerà presto, rimarrà, rimarrà ancora a lungo». Fergiani, il libraio di Tripoli, l´aveva detto: «Questi sono duri, resisteranno a lungo».
«E quando i ribelli arriveranno qui in città, quando chi a Tripoli ha coraggio e scenderà in strada, allora vedremo il peggio del peggio, il botto finale di questi 40 anni di paura». Kokac, il direttore dell´albergo, l´aveva detto: «Io ti dico: noi stiamo per andarcene, chiudiamo», aveva sussurrato nei corridoi del Rixos il poderoso Sukru Kokac, il turco messo a comandare su un albergo intero di turchi. Hanno venduto, il turco milionario proprietario della catena ha venduto agli svizzeri, e se ne sono andati: da ieri gli ultimi giornalisti stranieri al Rixos sono ostaggio degli ultimi fedelissimi gheddafiani in un albergo abbandonato anche dagli svizzeri.
Anche Badria, la ginecologa gheddafiana, l´aveva detto: «Gioia mia, il nostro leader non abbandonerà mai, combatterà fino in fondo, devono rassegnarsi questi minchia di ribelli, dovete capirlo voi». «Gioia mia» sussurra Badria in italiano, anzi in lieve siciliano: ha studiato a Palermo quando la Libia di Gheddafi mandava i suoi giovani a costruirsi in Italia. Gheddafi e la Sicilia l´hanno fatta medico, l´hanno emancipata come donna e come professionista. Lei non vorrebbe tradire né Gheddafi né l´Italia. Il suo lavoro le porta pazienti da tutta la Tripolitania, un colpo di telefono e sa quanti ribelli arrivano a Zawiya, cosa succede a Misurata oppure quante bombe a Zlitan. Ma adesso anche lei ha paura, «c´è casino gioia, ciao».
Il libraio di Tripoli, il direttore dell´albergo, la ginecologa gheddafiana. Tutti sapevano, tutto era già stato sussurrato, era scritto ma non poteva essere scritto. C´è un italiano rimasto a Tripoli, forse uno soltanto adesso che il vescovo Martinelli è in Italia per vacanze. E´ Bruno Dalmaso, il guardiano del cimitero, una leggenda italiana, un imprenditore miliardario nell´Eritrea e nell´Etiopia post-coloniale. Con i suoi aerei privati arrivava in Libia quando voleva, poi Menghistu in Etiopia gli fece scomparire tutto. E poi Gheddafi in Libia gli ha fatto scomparire di nuovo tutto, e lui è rimasto a Tripoli, «guardiano del cimitero che è il simbolo della nostra Italia migliore». Dalmaso no, non faceva previsioni, non parlava di politica. Ma adesso anche lui ha paura: al telefono spiega che «dopo 6 mesi di bombe capiamo qualcosa anche noi, e sabato notte abbiamo capito subito che erano entrati in città. Il segnale l´hanno dato dalle moschee alla fine del digiuno del Ramadan. Non c´erano solo le bombe della Nato, non c´erano le sparatorie per aria di quelli di Gheddafi. Ci sono stati i combattimenti, e ci sono ancora, vanno e vengono. Noi non usciamo, non possiamo far nulla. Cibo? C´è ancora, ma la benzina, il carburante manca, la città è ferma, il gas, le bombole per cucinare costano una follia».
Ahmed, un amico del libraio Fergiani, un altro che parla bene italiano e che ci aveva guidato per mano fra gli scaffali della libreria, parla senza paura: «Io domenica notte sono sceso in piazza Verde, eravamo tutti pazzi di gioia. Abbiamo capito subito chi sono questi ribelli, sono quasi tutti delle montagne Nafusa, molti sono berberi, non sono arabi come noi, ma certo siamo tutti libici». Ahmed a Tripoli ha provato a frequentare i giornalisti italiani, a fare qualche soldo insospettendo qualcuno perché era troppo apertamente contro Gheddafi. «Oggi però ho paura, se non convincono Gheddafi a uscire fuori, a dire che è finita, tutti quelli che sono marchiati, infettati col suo sangue continueranno a impazzare per Tripoli. Lo sapete che ci sono i cecchini, come a Misurata? L´altra notte hanno sparato anche sulla piazza Verde, ancora non è finita. Questi sono pazzi: se uno decide di combattere fino in fondo contro la Nato, contro l´America, è pazzo. E allora spareranno da pazzi, fino all´ultimo».
Ahmed racconta che nella notte di domenica in piazza Verde anche i più giovani e i più vecchi sembravano impazziti, di felicità. «I più giovani perché scendono in strada dopo aver guardato la televisione, vogliono essere eroi per un giorno, l´hanno visto in tv, in Egitto, in Tunisia, voglio farlo loro. I più vecchi perché sanno che c´era un´altra Libia, una Libia gentile, non così violenta, cosi sporca e corrotta come quella comandata dalla famiglia mafiosa Gheddafi. Sì, la Libia era comandata da un branco di mafiosi e voi italiani, francesi, turchi, americani avevate scelto tranquilli di fare affari con i mafiosi».
Al telefono adesso c´è un ultimo libico, ha due telefonini, uno dei due gestori ha interrotto i contatti, ma l´altro funziona ancora. «Io non ho paura di questi giorni, di questa violenza. Lo sapevo che sarebbe finito così, e noi stiamo in casa. Ho paura che sarà lunga, che per passare alla dittatura alla democrazia dovremmo gettare molto sangue. Come si fa a farlo senza sangue? Come possiamo farlo senza ucciderci ancora tra di noi?». Con Gheddafi, l´uomo nero, la Libia ha paura. Senza Gheddafi, l´uomo sconfitto, la Libia avrà ancora paura.



Vincenzo Nigro, La Repubblica




Brega, battaglia per la città del petrolio i ribelli: "Ma il nemico ormai è in fuga"

Il più antico fronte di questa guerra ormai vicina all´epilogo si perde oltre le dune che affacciano sul Mediterraneo. Dietro quei dossi che sembrano di marzapane, sono ancora appostate le truppe del Colonnello, o forse del suo fantasma. Il cielo è di un biancore malaticcio, così come la sabbia del deserto.
Nera è soltanto la strada, diritta come una fucilata, che all´orizzonte però, per il troppo caldo, si scioglie in un lago immaginario. Ogni tanto da terra s´alza una colonna di fumo verso il cielo, là dove s´impatta uno dei razzi Grad che i lealisti, si direbbe quasi svogliatamente, continuano a scagliare contro le linee degli insorti, 240 chilometri a sud di Bengasi. «Devono averne ancora migliaia, perché ormai li sparano ad occhi chiusi», dice Khaled, 34 anni, capitano del nuovissimo esercito della Libia liberata.
Quante volte è stato preso, perso e poi riconquistato il fronte di Brega? Qui, sei mesi fa, le sconclusionate torme di shabab, i giovani combattenti della Cirenaica, armate di vecchi kalashnikov e spinte al martirio dal desiderio di libertà, vinsero la loro prima battaglia. Per gli insorti significò poter materializzare i loro sogni rivoluzionari, perché disponevano finalmente del carburante per avanzare verso Tripoli, visto che al porto di Brega arrivava per ripartire verso l´Europa buona parte del petrolio estratto nel deserto libico. Qui, guarda caso, cominciò la controffensiva di Gheddafi.
Sorride, il capitano Khaled, convinto che anche tra queste dune ormai devastate dai missili nemici la guerra contro il dittatore sia quasi finita. «Stanno scappando», sostiene con prodigioso ottimismo, mentre un razzo ci cade così vicino da coprire le sue ultime parole. «Si ritirano verso Ovest, nelle caserme di Sirte, città natale e roccaforte del Colonnello», aggiunge poi, lisciandosi la barba ben curata. Basta osservarlo, diritto e fiero come un soldatino di piombo, con l´uniforme appena stirata e gli stivali lucidati, per accorgersi che i tempi sono cambiati. E´ vero, tra i commilitoni di Khaled vedi ancora qualche shabab in jeans e t-shirt, ma sono pochi, e il loro ruolo è stato azzerato tanto da farli passare oggi per le mascotte della compagnia, la quale è invece composta da combattenti d´aspetto marziale che imbracciano mitragliatori scintillanti. Soldati questi, tutti addestrati dagli istruttori militari inviati da Roma, Londra e Washington.
«Stamattina abbiamo chiesto alle forze fedeli al Colonnello di deporre le armi, e loro ci hanno ascoltato», dice ancora Khaled. E questi razzi?, gli chiediamo, indicando le ultime colonne di fumo che si stagliano all´orizzonte. «Sparano per coprirsi la ritirata», risponde ridendo il capitano. «Sono armi che hanno una gittata di almeno 40 chilometri, ed è da quella distanza che le fanno esplodere». Poco dopo, tuttavia, da Bengasi il portavoce militare degli insorti, colonnello Ahmed Omar Bani, dichiarerà che la situazione non è cambiata sulla linea del fronte di Brega, e che si continua a combattere.
Dall´ospedale centrale di Bengasi confermano che è proprio su questo fronte orientale, e che si estende dalla città di Ajabija all´altro porto petrolifero di Ras Lanuf, che la guerra civile libica ha mietuto più vittime: oltre millecinquecento, più che nel luogo martire della rivoluzione, Misurata. E´ tra queste sabbie che s´è combattuto più a lungo e con maggiore intensità. Nulla di strano, dunque, se le parti continuano la battaglia, fino alla resa definitiva di Gheddafi e forse oltre.
In serata, Mohamed Zawiwa, un altro portavoce del governo di Bengasi, dichiara, come gli insorti avevano già fatto due giorni fa, salvo poi doversi smentire, che Brega è interamente sotto il loro controllo e che le truppe lealiste sono in fuga. Anche se fosse vero, gli insorti dovranno procedere con estrema cautela tra le infrastrutture petrolifere, perché è verosimile che siano state infarcite di mine. «Finché erano sue Gheddafi le ha risparmiate. Una volta perdute, deve aver pensato a come meglio sabotarle», dice Khaled.
I primi di marzo, quando finì nelle mani degli shabab, Brega era un piccolo paradiso petrolifero con grosse cisterne ed eleganti villette per le maestranze straniere, in cui la sola bruttura consisteva in una gigantografia del Colonnello che i ragazzi della rivoluzione avevano imbrattato di vernice rossa. Qui, vedemmo i primi mercenari stranieri catturati dalle forze ribelli: un gruppetto di giovanissimi e spaventatissimi ciadiani che aveva la notte prima ucciso e stuprato nelle case di beduini attorno al porto.
Dopo sei mesi di combattimenti è difficile riconoscere quei luoghi. La carreggiata è ovunque puntellata da carri armati accartocciati dai razzi. Non c´è un edificio che non abbia almeno un buco nel muro della dimensione di un cocomero o una parete distrutta o una finestra incendiata. Tutto è poi sommerso dalla spazzatura di guerra: bossoli di ogni dimensione, casse che una volta contenevano munizioni, oceani di bottiglie vuote, auto senza copertoni, coperte sudice, caricatori con cartucce inesplose.
Domani, l´esercito degli insorti, o come andrebbe piuttosto chiamato delle forze democratiche, comincerà la sua marcia verso Sirte. Per frenare nuove offensive, i generali gheddafiani ricorrono a sporchi espedienti: oltre alle mine, hanno riempito le loro trincee di bambini. Espedienti da guerra civile, o guerra tribale. Tra fazioni, clan avversi. O più semplicemente tra due schieramenti che si sparano contro da sei mesi e che smetteranno solo quando il nemico alzerà la bandiera bianca.

Pietro Del Re, La Repubblica





Il petrolio "liberato" fa gola a tutti gara tra Italia, Francia e Stati Uniti

NEW YORK. Scende il greggio, recuperano le Borse: dalla sconfitta di Gheddafi può arrivare il "dividendo petrolifero" che riduce i rischi di recessione mondiale? I mercati ieri hanno voluto crederlo, sia pure con cautela. Piace la prospettiva di una fine della guerra civile, se questo significa la stabilizzazione del paese, e quindi una ripresa delle forniture.
La Libia è infatti il dodicesimo esportatore mondiale di petrolio.
A goderne sono state in particolare le imprese italiane, alla luce degli antichi rapporti economici tra i due paesi: l´Eni con un +6,3% ha trascinato al rialzo tutta la Borsa di Milano (la compagnia petrolifera pesa circa un settimo di tutta la capitalizzazione di Piazza Affari), ma anche l´Ansaldo col +5% ha beneficiato dell´effetto-Libia.
I mercati non hanno dato peso, almeno in prima battuta, al rischio che le aziende italiane siano meno favorite di quelle americane, francesi o inglesi nel dopo-Gheddafi. I giochi si faranno più chiari solo quando il raìs sarà definitivamente uscito di scena, e il governo provvisorio dei ribelli (Cnt) renderà più visibili le sue strategie. Quasi a voler ricordare un passato "ingombrante", ieri la Cnn ha mandato più volte in onda delle foto di Gheddafi in compagnia di Silvio Berlusconi, mentre su Fox News l´ex ambasciatore Usa all´Onu John Bolton ha sottolineato il ruolo secondario scelto dall´Italia nell´intervento militare della Nato. Il Wall Street Journal ha notato come Nicolas Sarkozy all´alba di ieri (6.40 ora di Parigi) sia stato il primo leader ad annunciare una telefonata coi leader del Cnt; lo stesso quotidiano ha sottolineato la rapidità di annuncio di un "ritorno in Libia" da parte della multinazionale inglese Bp, che prima della guerra vi aveva una presenza marginale. Questi osservatori si aspettano che il "dividendo" della vittoria su Gheddafi sia ripartito in proporzione al ruolo svolto nelle operazioni della Nato: dove l´America ha tirato la volata, per poi essere sostituita da Francia e Inghilterra nella prima linea.
Qualunque scenario economico non può prescindere però dalle incognite che ancora pesano sulla situazione politica in Libia. Ne hanno preso atto anche i mercati: in una prima fase, nella mattinata di ieri le quotazioni del petrolio Brent erano scese velocemente (in previsione di un aumento dell´offerta), per poi contenere il ribasso a un modesto -0,3%. Il Brent resta tuttora più caro del livello di febbraio (100 dollari) quando si manifestarono le prime preoccupazioni sull´export libico, ed è superiore del 13% al prezzo di fine 2010. Per regalare all´economia mondiale una "polizza anti-recessione", ci vorrebbe un calo ben più sostanzioso del costo dell´energia. Ma quando la produzione libica tornerà ai livelli pre-bellici? La domanda è particolarmente importante per l´Italia, che in passato riceveva dalla Libia circa un quarto del petrolio e il 10% del fabbisogno di gas naturale. Per l´Eni la Libia rappresentava (prima della rivolta anti-Gheddafi e della no-fly zone Nato) il 13% della sua produzione, l´equivalente di 280.000 barili al giorno. Proprio dall´Eni vengono alcune delle stime più prudenti sulla ripresa dell´export libico. La compagnia italiana a luglio aveva stimato fra i due e i tre mesi il tempo necessario per ripristinare la produzione di gas, e fino a un anno per quella di petrolio. Stime più ottimistiche sono state formulate dalla spagnola Repsol che ha parlato di quattro settimane per riavviare la produzione.
In totale, prima dell´inizio della guerra civile la Libia produceva circa 1,6 milioni di barili al giorno di greggio, ma dopo sei mesi di conflitto la produzione è scesa a 500.000 barili al giorno. Sui prezzi mondiali l´impatto al rialzo si era fatto sentire nonostante che l´Arabia Saudita fosse intervenuta ad incrementare la sua produzione. In America, Barack Obama e il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke hanno più volte indicato nel mini-shock petrolifero uno dei fattori che hanno frenato la ripresa economica nel primo semestre. Anche loro sperano in un "dividendo della vittoria" che schiarisca l´orizzonte della crescita. Nella reazione moderata dei mercati, ieri, ha giocato l´incertezza perdurante sul dopo-Gheddafi, insieme con la lezione di altri conflitti passati. Alcuni esperti ricordano che in Iran e in Venezuela la produzione di petrolio non si è ripresa completamente dopo gravi turbolenze geopolitiche.
Le incertezze che ancora gravano sul futuro di Tripoli trasparivano ieri nelle dichiarazioni del vertice Eni, la compagnia petrolifera con la maggiore quota della produzione libica. «L´interruzione aveva penalizzato noi in modo particolare, per il peso della Libia nel fabbisogno italiano», ha dichiarato il presidente dell´Eni Giuseppe Recchi. Il quale ha auspicato che le nuove forze governative del Cnt onorino i contratti di forniture negoziati a suo tempo col regime di Gheddafi. «Sono protetti dal diritto internazionale», ha detto Recchi. Per l´Italia la posta in gioco va oltre l´Eni e oltre l´energia. Se anche l´Enel ora mostra di volersi affacciare sul mercato libico, nell´era Gheddafi gli investimenti italiani includevano un miliardo di euro nelle grandi opere (Impregilo), 740 milioni nelle ferrovie (Ansaldo), 125 milioni nelle infrastrutture stradali (Anas), 68 milioni nelle telecom (Sirti), 60 milioni da piccole e medie imprese. E´ una "torta" che in futuro può attirare gli appetiti di Parigi, Londra e Washington.

Federico Rampini, La Repubblica





Cartoline della speranza nel giorno della Liberazione 

Forse saranno liberi solo per un giorno ma è impossibile non commuoversi e non invidiare una scintilla della loro ebbrezza. Ci guardano e ci sorridono la ragazza con lo hijab nero e gli occhiali da “Aviator”, il bimbo con il cappello da Harry Potter, il vecchio beduino. 
Ci guardano e ci sorridono da un tempo che conoscemmo e che abbiamo dimenticato, il giorno della liberazione. Ce l´hanno fatta. La ragazza con lo hijab nero attorno al capo e gli occhiali «aviator», il bambino con il cappello a cono del piccolo Harry Potter del deserto, il vecchio beduino con la barba grigia e l´occhio incendiato dall´emozione, sono riusciti a vivere quel miracolo che chiamammo «Liberazione».
Quel miracolo che la storia regala con estrema avarizia a chi se la sa conquistare.
Forse saranno liberi soltanto per un giorno, e quella felicità che la luce dipinge sui volti dei libici oggi potrà essere cancellata da nuove ombre di buio, perché la storia che ricomincia non è mai una garanzia di nulla e la guerra, neppure se vittoriosa, non è necessariamente una levatrice prodiga. Ma è impossibile non commuoversi e non invidiare una scintilla della loro ebbrezza. Perché in queste ore, dopo quarant´anni, la generazione dei giovani come dei vecchi che si erano forse rassegnati, hanno ritrovato un bene chiamato “speranza”. Quella materia prima che per decenni è mancata a centinaia di milioni di prigionieri di regimi e governi torvi, soprattutto, ma non soltanto arabi, dal Nord Africa fino all´Asia Centrale. E che tanti europei e americani li credevano geneticamente, culturalmente incapaci di distillare.
Molti di loro esibiscono l´arma letale che sta facendo tremare i tiranni e i tragici pagliacci in tutto il mondo e non sono l´immancabile AK 47 né la bandoliera di proiettili alla “Viva Zapata” sulle spalle che un ribelle esibisce.
Guardatela: è il telefonino “smart” che la giovane donna con i Ray-Ban a specchio innalza sopra la testa per riprendere il video di se stessa in festa e che il partigiano con il mitra porta appeso al collo come un amuleto. È quell´apparecchio che attraverso i “tweets” e la posta elettronica, facebook e i social network ha trasformato un´altra sommossa tribale e locale, facilmente sopprimibile e ancora più facilmente occultabile dalla televisione, in uno scandalo mondiale, dunque in una mobilitazione internazionale. Neppure il petrolio, senza la miccia dei telefonini, avrebbe fatto esplodere Gheddafi.
La guerra civile libica si è combattuta fra le due immagini opposte e più simboliche di questo evento, la ragazza con lo “smartphone” e la “anchorwoman”, la lettrice del tg con la pistola impugnata per la canna che vediamo sbraitare di resistenza fino alla morte quando già bussavano alla porta per arrestarla senza colpo ferire. Ci dicono, queste due immagini, che neppure la televisione dei servi, l´ultimo rifugio dei farabutti, la stampella magica dei bugiardi, è più sufficiente a garantire che un governo possa ingannare tutti, tutti i giorni. Lo “smartphone” fa tremare i regimi sulla piazza Tahiri del Cairo, in Siria, in Iran e come ben sa il Partito Comunista Cinese impegnato ogni giorno in un duello al “gatto col topo” fra la propaganda di stato e la comunicazione elettronica individuale.
Non sono neppure soltanto di giovani, o addirittura di bambini eccitati senza capire, i volti e le figure che queste cartoline dalla speranza ci inviano. Vediamo anche uomini, in grande maggioranza uomini, avanti negli anni, gente di mezza età abbondante, che erano giovani in quell´estate del 1969 quando Muammar Abi Minyar Abd Al Salom Al Gheddafi condusse la sua rivoluzione repubblicana.
Probabilmente loro stessi, il vecchio Senussi dal volto magro e l´imam che predica urlando nelle foto, si agitavano nelle stesse vie di Tripoli scandendo il suo nome e agitando poi il “libretto verde” di un´altra speranza tradita, quella del nazionalismo pan arabo dei Nasser in Egitto, dei Saddam Hussein in Iraq, dei Boumedienne in Algeria e degli Assad in Siria.
Oggi vediamo lo stesso vecchio innalzare un ritratto dell´uomo al quale aveva inneggiato e che appare ridicolmente grottesco nel costume di scena da dittatore e condottiero, buttarlo nel falò di un altro predatore travestito da benefattore e gridare insulti contro di lui, mentre i suoi nipoti esibiscono cartoon con l´impiccagione del raìs, ridendo come se fossero a una festa per un mondiale di calcio. Ma non potrà stupire né scandalizzarci questo “tradimento”, il solito scoprirsi tutti “anti” nel giorno della Liberazione, di fronte alle acrobazie dei governanti europei che avevano addirittura baciato quella stessa mano che poi avrebbero contribuito a tagliare.
Le cartoline della speranza naturalmente non ci dicono nulla del futuro, di che cosa aspetti questa gente che ha rifatto il percorso che noi europei prigionieri di regimi osceni appena ieri abbiamo fatto, abbattendoli anche grazie alle bombe e agli aerei dei liberators. Non lo possiamo dire perché all´album di questa felicità cruenta e insieme giocosa – la stessa che alcuni di noi ebbero la fortuna di vedere a Kuwait City nel 1991 e, del tutto effimera, a Bagdad nel 2003, perché nessun irakeno aveva preso le armi per deporre Saddam e nessuno sentì come propria la liberazione – manca ancora la foto più importante. Quella di Gheddafi.
Lo vediamo giustiziato in effigie, con il viso torturato e contorto nella smorfia involontaria di un poster che si accartoccia, ma l´uomo resta, in queste ore, uno spettro. Da quella foto, dalla sequenza della sua fine e del trattamento che gli verrà riservato dalla nazione che ha tiranneggiato per una generazione che ancora nessun obbiettivo, neppure di un cellulare, ha ripreso, capiremo molto. Nella speranza, questa volta nostra, di non rivedere l´orrore del Saddam impiccato in video o di un cadavere gonfio appeso a un lampione.
Vittorio Zucconi


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